Ernesto Bronzelli.
lunedì 1 dicembre 2025
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Parlare di Urbano Cairo è un dovere civico, una sorta di vaccinazione annuale contro l’ipocrisia calcistica.
Perché se aspettiamo che parli lui, soprattutto dopo certe figure, rischiamo di fossilizzarci prima di sentire una parola sensata.
Si perché è curioso come Cairo, ogni volta che il Toro si schianta, diventi improvvisamente timido come uno studente impreparato all’interrogazione.
Quindi parliamone noi, che almeno abbiamo fatto i compiti.
Analizzando la sua gestione scellerata che va avanti da VENT’ANNI e non due, la prima cosa che salta all’occhio è che ogni volta che questo saltimbanco decide con la sua testa (si fa per dire), pare estragga le idee da una tombola truccata: esce sempre il numero sbagliato.
Sempre.
Lui, l’uomo che per quattro lustri non ha azzeccato un’annata neanche per sbaglio che prende decisioni: è come se un ubriaco convinto di essere sobrio pretendesse di pilotare un Boeing.
Restiamo nel concreto e buttiamo un occhio alle ultime tre guide tecniche scelte da lui.
Giampaolo, che sembrava un personaggio uscito da un romanzo russo: depresso, indeciso e pure sfortunato.
Juric, che appena ha fiutato l’aria della casa madre ha cominciato a sputare veleno come una vipera disturbata nel sonno.
Mortimer Baroni, che si è portato appresso un clima di depressione liquida, pesante, appiccicosa; roba che ricordava il lockdown, quando almeno avevamo la scusa di una pandemia globale e non di un presidente convinto di essere un genio incompreso.
Un disastro su tutta la linea.
Una società che vuole crescere fa l’opposto di ciò che fa lui: mette gente giusta al posto giusto, gente che sappia vincere o per lo meno che non faccia venire voglia ai tifosi di iscriversi a un corso accelerato di alcolismo etilico.
Cairo no.
Lui ci tiene in un rooner, come pietanze da cuocere sous vide a temperatura costante: senza mai andare in ebollizione ma nemmeno gelare.
Da vent’anni a questa parte sembra studi sempre nuovi sistemi innovativi per impedire che si possa godere e per farlo non lascia nulla al caso.
Ad esempio si inventa nuove figure, muove le caselle come giocasse ad una versione da ritardato di “Indovina chi”.
Ha sistemato procuratori, agenti, osservatori, segnalatori a fare i direttori sportivi, direttori sportivi a fare i responsabili dell’area tecnica (che nemmeno si sa cosa voglia dire), passacarte ed oggetti d’arredamento non meglio definiti in ruoli apicali.
Non pago, ha avuto poi l’idea più brillante, il vero colpo di genio: accollarsi in toto la società sportiva ars et labor di Ferrara.
Tutta.
Intera.
Come un frigorifero rotto regalato da un vicino sadico.
Da Vagnati a Cottafava, da Ludergnani ad Andreini, passando per un convoglio di giocatori oscillanti tra lo scarso e l’osceno, tipo una sfilata di moda post-apocalittica, negli ultimi anni a Torino è sbarcata una processione di personaggi talmente improbabili da far apparire un teatro dei freaks come una riunione ai vertici al cern di Ginevra.
E nel frattempo la Spal?
Sparita.
Evaporata.
Affondata come un sommergibile senza scafo fino ai dilettanti dove, incredibilmente, riesce a zoppicare pure contro chi si allena dopo il turno in fabbrica.
Capite cosa voglio dire?
Con queste premesse da film horror di serie Z, Cairo pensava, bontà sua, di prendere una scorciatoia verso l’Europa.
L’Europa: pensate che idiota.
È come voler arrivare a Parigi pedalando su una Graziella con le ruote sgonfie ed il manubrio piegato.
Anche la scelta dei giocatori non è mai casuale: sempre figure da rilanciare, semi falliti senza arte nè parte, reietti, migranti con la valigia di cartone e contratto a termine che nemmeno si prendono la briga di disfare i bagagli quando arrivano sotto la Mole.
E così capita che ‘sta gente entri in campo e ridacchi anziché affondare il colpo, oppure calci al novantesimo un rigore talmente irreale da non parere vero.
Che gli frega?
Fra quale mese non saranno più qui e non dovranno rendere mai conto a nessuno.
Delegittimazione, deresponsabilizzazione, approssimazione dolosa ad ogni livello.
Dirigenti perdenti, allenatori che non hanno mai cavato mezzo ragno da un buco, giocatori che anziché essere in rampa di lancio si arrabattano come Travet del pallone tirando a campare una stagione dopo l’altra.
Così da vent’anni senza soluzione di continuità.
Buono dai.
L’unica cosa che davvero funziona ed ha sempre funzionato al Torino di Cairo è la macchina della propaganda: sempre tirata a lucido, sempre pronta a dipingere un mondo zuccheroso, onirico, un acquerello rosa pastello da viaggio psichedelico dove tutto va bene, tutto è bellissimo, tutto è “in crescita”.
Una specie di Truman Show granata, solo che Truman prima o poi scappa, il tifoso del Toro no.
Insieme a questo, la creazione di un clima di velato, sotto inteso ma palpabile terrore Robespierriano, propedeutico a stroncare sul nascere ogni forma di dissenso.
Sembra che sia tutto normale, in realtà ad ogni angolo c’è un agente della Stasi, come nella ex DDR, pronto a reprimere ogni sussulto d’amor proprio.
I tifosi cosiddetti “vip” non prendono posizione, mai, nemmeno per sbaglio.
Mai una critica, mai una nota di biasimo, mai un giudizio, mai un fiato fuori posto: sembrano sempre sul punto di dire qualcosa ma poi si rimettono composti, come scolari davanti al preside.
Non sia mai che criticare Cairo, uno che nell’informazione e nello sport italiano muove più leve di un capotreno, possa sporcare loro il profilo patinato.
Meglio zitti, meglio pavidi.
Meglio eleganti nel silenzio che coraggiosi nella verità.
Per un Tomaso Paradiso che urla a Lotito di liberare la Lazio qui a Torino c’è un Aldo Grasso che ti ricorda che la colpa è nostra perchè abbiamo cacciato Pianelli, e che alla fine masticare merda da vent’anni migliora la qualità delle gengive.
Ed allora tutto passa sotto silenzio: le goleade subite, i giocatori che se ne fottono, i tifosi che fanno finta di nulla perché “poi arrivano i daspo”.
Come se al posto degli Ultras avessimo le dame di San Vincenzo.
È tutto talmente grottesco da non parere vero.
Tutti meriterebbero un posto al sole nella vita, se non per sempre almeno per qualche tempo.
Tutti ci sono riusciti negli ultimi vent’anni.
Noi no.
Gli unici nel panorama delle squadre storiche della serie A italiana a non conoscere il significato della parola “gioia” ad assaggiare un po’ di miele, a sentire profumo di alta classifica.
Gli unici stronzi che da vent’anni mangiano solo ed esclusivamente merda.
Un primato, dopotutto, è sempre un primato.
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