domenica 14 dicembre 2025

... Willie Peyote ...

Willie Peyote non ha parlato: ha versato acido. E non quello metaforico che si usa nei salotti, ma quello che brucia e lascia segni. Quando dice che “Cairo ha devastato un ambiente, demolito una tifoseria ed assuefatto alla mediocrità”, non sta compilando un atto notarile: sta facendo quello che l’arte, ogni tanto, dovrebbe ancora avere il coraggio di fare: chiamare le cose col loro nome, senza deodorante. Cairo per altro non ha soltanto fatto questo ma molto di peggio. Ha curato ogni dettaglio di un fallimento pianificato, arrivando persino ad avvelenare i pozzi per delegittimare le voci dissonanti. Willie ha parlato fuori dal coro: forse realmente l’unico a farlo. Il bello è che questo linguaggio così duro, così poco corporate, è musica per le orecchie granata. Altro che inni stonati e comunicati aziendali: finalmente qualcuno che non parla come un consulente di crisi, ma come uno che guarda le macerie e dice “sì, sono macerie”. Willie non addolcisce, non media, non cerca la frase buona per tutti: ed infatti funziona. Perché a forza di edulcorare, qui si è finiti a bere acqua del cesso spacciata per champagne. E il contrasto diventa impietoso quando lo metti accanto ai giullari di corte granata, quelli che fanno piroette verbali purché il re non si offenda. Come quello che da critico televisivo è Robespierre. A lui non sopravvive nessuno fra programmi ghigliottinati, conduttori decapitati, format ridotti a poltiglia. Ma quando si parla del suo editore, improvvisamente cambia costume: da boia ad avvocato difensore in Cassazione. Assoluzione piena, senza rinvio, possibilmente con applauso finale. Una specie di Corrado Carnevale: il giudice ammazza sentenze. Ed allora sì, Willie Peyote suona fastidioso solo a chi come lui preferisce il silenzio complice e sodale. Agli altri, a chi è stanco di essere trattato da tifoso-cliente, da problema da gestire, da pollo da spennare, quel linguaggio ruvido suona come una chitarra distorta dopo anni di musica da sala d’attesa. Non è eleganza, ma liberazione sonora: ed in certi ambienti devastati, è l’unica cosa che ancora tiene in piedi i muri 
Grazie, di cuore. 

Ernesto Bronzelli.

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