C’era un tempo in cui la presa dell’Ucraina doveva rappresentare per la Russia di Putin l’atto principe di una restaurazione imperiale. Un ritorno allo status di grande potenza, capace di riscrivere i confini in un mondo governato dalla legge del più forte e in cui il diritto internazionale potesse essere ridotto ad un inutile vessillo rivendicato dalle fragili e decadenti democrazie liberali. Una potenza in grado di dettare condizioni, di imporsi come polo alternativo all’Occidente. Ma quel disegno, costruito con la brutalità e col sangue, si sta lentamente sgretolando proprio sotto il peso della guerra che avrebbe dovuto consacrarlo.
Dopo che la prevista parata trionfale su Kyiv da concludere in tre giorni si è impantanata nel Donbass inciampando in crimini immondi e causando devastazioni senza precedenti, l’invincibile macchina bellica di Putin si è rivelata vulnerabile e disorganizzata. L’inattesa resistenza ucraina e l’ancora più imprevista reazione della comunità internazionale hanno messo a nudo le mille criticità della sbandierata potenza militare del gigante euroasiatico, facendo vacillare la sua credibilità politica, che proprio sulla guerra e sulle minacce nell’idea dello zar era destinata a prosperare.
E così, quando è parsa chiara l’incapacità del Cremlino di dare seguito alla propria pretesa di guidare un impero, i totem issati e puntellati in un quarto di secolo di dittatura putiniana hanno cominciato a cadere uno ad uno. Dalla Siria, dove l’influenza russa si è dissolta in una manciata di giorni insieme al regime di Assad. A Teheran, che dopo i colpi inferti da Israele e USA alle milizie proxy e ai siti nucleari è destinata ad un rapido declino. Il Medio Oriente nel quale Mosca sognava di tessere una fitta trama di alleanze strategiche ed economiche oggi le sfugge, a vantaggio di potenze emergenti come la Turchia, membro NATO, ma abilissima nel giocare su tutti i tavoli, da Kyiv a Tel Aviv.
Ma è il Caucaso, un tempo considerato cortile di casa del Cremlino, il teatro più evidente del tracollo geopolitico russo. L’Azerbaigian, dopo la recente escalation di tensioni diplomatiche e rappresaglie ha tagliato i ponti con Mosca, mentre l’Armenia, già risentita per il mancato intervento russo nella crisi del Nagorno Karabakh, ha aperto canali con l’Europa e si avvicina alla Turchia, un tempo nemica storica. È anche in questo contesto di tensioni a sud che va letta la scelta – disperata – di Putin di respingere le dimissioni del dittatore ceceno Ramzan Kadyrov. La piccola ed irrequieta repubblica caucasica ex separatista (per la cui riconquista Putin avviò la prima campagna militare della sua carriera criminale) non è solo una regione chiave, ma anche e soprattutto un potenziale detonatore. E senza il pugno di ferro del suo satrapo, potrebbe deflagrare.
Intanto a est, la Cina scava. Penetra economicamente in Siberia, si assicura infrastrutture, risorse, influenza. Mentre la Russia guarda a Pechino come a un’ancora di salvezza, Pechino guarda alla Russia come una preda ferita da dissanguare e divorare, senza fretta e senza sparare un colpo.
Sul fronte interno, poi, i numeri cominciano a raccontare ciò che la propaganda non può più nascondere: l’economia vacilla. Il governo stesso non esclude la recessione, mentre il bilancio federale continua a reggersi sull’export di petrolio. Un equilibrio che non offre certezze a lungo termine, dal momento che se gli Stati Uniti, in cambio della neutralizzazione del pericolo iraniano, riuscissero a chiudere un accordo con Arabia Saudita ed Emirati per un aumento della produzione di greggio, i prezzi crollerebbero. E con loro, appunto, anche le entrate di Mosca.
Il tutto mentre i tribunali internazionali continuano a certificare i crimini del regime, rendendo ogni giorno più difficile la normalizzazione dei rapporti con un Occidente, un tempo suo ricco cliente e oggi ostile accusatore. Rendendo così definitiva l’espulsione della Russia dal salotto del G8, tornato ad essere G7, e facendo immaginare il ripetersi scene come quella del 9 maggio scorso, con un Putin costretto a festeggiare la vittoria della “Grande Guerra Patriottica”, sotto lo sguardo attento del nuovo padrone di casa Xi, in compagnia di Zimbabwe, Burkina Faso, una manciata di dittatori e i governanti di stati immaginari come l'Abkhazia e l’Ossezia del Sud.
Piaccia o no ai tanti improvvisati commentatori che da tre anni cercano di spiegare come la Russia abbia già vinto una guerra che doveva durare tre giorni, il nuovo zar che avrebbe dovuto portare l’impero ai fasti di un tempo, lo sta spingendo a tutta velocità verso una nuova colossale catastrofe, causata da ossessioni patologiche, ambizioni e un revanscismo paranoico. Con la guerra d’Ucraina volutamente trasformata in una scommessa folle, sulla quale Putin ha dapprima rilanciato e poi puntato tutto. Col rischio, mai così concreto, di perdere definitivamente tutto
domenica 14 dicembre 2025
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