venerdì 31 luglio 2020

... fine mese ...

... fine mese con blackout, per fortuna breve ... poi la luce è tornata e speriamo che torni anche in senso metaforico, con la soluzione dei nostri problemi!!

mercoledì 29 luglio 2020

... SCHWERPUNKT ...

... il nuovo gioco Steam che mi sono regalato per i miei 70 anni!! E nel frattempo rivivo un pezzo del mio passato: acqua nel mio garage, di nuovo! come ai tempi del buon Pognant Gros! Breve colloquio con il condomino proprietario della piscina che domina il mio locale ed accordo raggiunto: sposterà la vasca e scaricherà l'acqua nell'apposita grata, OK staremo a vedere!

martedì 28 luglio 2020

... SPAL 1 TORINO 1 ...

TORINO - Il Torino è salvo. A Longo serviva un punto dopo il ko del Lecce sul campo del Bologna, eccolo arrivare in casa della Spal grazie all'eurogol di Verdi che inventa un gioiello all'incrocio dei pali. Il pareggio di D'Alessandro non rovina la festa dei granata che possono esultare: la classifica dice 39, +7 sulla squadra di Liverani, un margine incolmabile con sole due giornate alla fine del campionato.
 Il Toro sa che, con la sconfitta del Lecce, deve prendersi un punto solo per la salvezza. Il protagonista dei primi minuti è Zaza che si avventa su ogni pallone e si rende pericoloso in successione: al 4', al 5' e al 24' con un diagonale insidioso, senza però trovare la rete. Suona la carica anche Belotti che sfiora palo e vantaggio. La Spal è poca roba, ma il primo tempo finisce in parità. La ripresa segue lo stesso filone, i granata fanno la partita e Verdi colpisce il palo, poi sulla ribattuta Belotti non è preciso. Al 57' alla fine arriva l'1-0, ancora con Verdi che calcia a giro col sinistro inventando un gol bellissimo sotto l'incrocio. Ci sarebbe subito l'occasione per il raddoppio ma Zaza si fa ipnotizzare da Thiam. All'80' pareggia D'Alessandro, al suo primo gol in campionato: l'esterno ha spazio per entrare in area e scaricare il destro in diagonale che trafigge Sirigu

. ... che delusione!! Il mio TORO è quello degli "invincibili", non certo questo!!

... caldo e mal di pancia ...

... che notte la notte passata! A parte il caldo asfissiante, ci si è messo anche un persistente mal di pancia che per fortuna si è poi attenuato, grazie ad una buona tazza di camomilla!

domenica 26 luglio 2020

... Adieu Olivia ...

... 104 anni e non sentirli, e poi il viaggio verso l'eternità ed il mito ... adieu Olivia de Havilland!

sabato 25 luglio 2020

... Alexandria Ocasio-Cortez ...,

Cosa ha detto Alexandria Ocasio-Cortez?

Martino Grassi 24 Luglio 2020 -

 Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane deputata nella storia degli Stati Uniti, risponde alle scuse poco sentite del collega Yoho, che l’aveva appellata con insulti sessisti. Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata più giovane della storia americana, risponde alle scuse poco sentite di Ted Yoho, un suo collega repubblicano. Lo scorso martedì 21 luglio Yoho avrebbe appellato Ocasio-Cortez con delle parole terribili e sessiste come “disgustosa” e “pazza” mentre i due si trovavano sulle scale del Campidoglio. In un primo momento il deputato aveva negato le accuse, per poi scusarsi il giorno successivo con un discorso pubblico in aula che non ha convinto la maggior parte dei presenti e tanto meno la vittima dell’accaduto. Dopo le terribili parole rivolte alla collega, Yoho è stato accusato di sessismo, e per cercare di rimediare alla situazione si è scusato in aula, ma la pezza è stata peggiore del buco. Nella sua arringa l’uomo avrebbe infatti detto di avere una moglie ed una figlia, facendo intendere, proprio per questo motivo di avere rispetto verso le donne e di non discriminarle. La replica della Ocasio-Cortez non ha tardato ad arrivare, fornendo una lezione al collega repubblicano. Il discorso di Alexandria Ocasio-Cortez è diventato virale sui social in poco tempo facendo il giro del mondo diventando una sorta di inno contro il sessismo. Ecco come ha risposto a Yoho: “Yoho ha affermato di avere una moglie e due figlie. Ho due anni meno della figlia più giovane del signor Yoho. Anch’io sono la figlia di qualcuno. Mio padre, per fortuna, non è vivo per vedere come il signor Yoho ha trattato sua figlia. Mia madre ha visto in tv la mancanza di rispetto manifestata dal signor Yoho in questo palazzo. E sono qui perché devo mostrare ai miei genitori che sono loro figlia e che non mi hanno crescuta affinché accettassi abusi dagli uomini. Avere una figlia non rende un uomo in una ’persona perbene’. Avere una moglie non rende un uomo in una ’persona perbene’. Trattare le persone con dignità e rispetto rende un uomo una ’persona perbene’. E quando un uomo ’perbene’ sbaglia, fa del suo meglio e si scusa, come tutti noi siamo tenuti a fare. Non per salvare la faccia, non per guadagnare un voto. Si scusa sinceramente per riparare e riconoscere il danno fatto, in modo che tutti possiamo andare avanti”. Il sessismo nei confronti di Alexandria Ocasio-Cortez Non è la prima volta che la deputata si trova vittima di insulti sessisti e misogini, tanto che un anno fa è stata duramente attaccata dal presidente Donald Trump su Twitter. Il Tycoon infatti aveva postato un tweet con cui invitata tutte le donne non bianche a tornare da dove erano venute. Nonostante Trump non abbia fatto esplicito riferimento alla Ocasio-Cortez è apparso abbastanza evidente che si riferisse a lei e alle colleghe Ayanna Pressley, di origine afroamericana, Rashida Tlaib di origini palestinesi, e Ilhan Omar, di origini somale. La stessa parlamentare ha sottolineato che parole del genere rappresentano ormai la quotidianità per moltissime donne in tutto il mondo, ed ha concluso affermando che: “Ho servito nei bar e nei ristoranti, per questo le parole di Yoho non mi sono suonate nuove. Ed è proprio questo il problema”.

venerdì 24 luglio 2020

... 50 anni dopo ...

Rivolta di Reggio Calabria, 50 anni dopo le barricate della memoria
Marco LupisJournalist – Correspondent – Author

 Quante volte, nel corso degli anni, quella immagine di Reggio Calabria è emersa prepotente dalle nebbie della memoria. Corso Garibaldi deserto, avvolto in un silenzio irreale, il sentore lontano, acre, del fumo che si avvolge lento, nel caldo crudele del primo pomeriggio. Siamo scesi insieme, da via XXIV Maggio: zia Elena, la più coraggiosa, la “pasionaria” della famiglia, ha accolto finalmente le insistenti richieste di quel bambino che compirà dieci anni tra poco, di vedere “i carri armati a Reggio”. Così percorriamo gli ultimi metri di corsa, con il cuore che batte forte e la mano del bambino che ero allora che stringe ancora più forte la sua. Sono gli ultimi metri, poi svoltato l’angolo del Teatro Siracusa ecco, il silenzio assordante nella canicola ci assale di colpo e lontano, l’immagine piccola ma così forte delle barricate. I suoni che rotolano all’improvviso lungo il Corso deserto, come una valanga, e poi il rumore metallico che giunge attutito dalla distanza, la carica della Polizia, le grida, i colpi. “Li hai visti? Li hai visti i “carri armati”?”. La voce di zia Elena rompe improvvisa il silenzio, forte, accesa. La guardo di nascosto mentre osserva intensa il Corso invaso dal fumo, è rossa in viso, eccitata dall’orgoglio della gente di Reggio che vuole, che “ama” quella rivolta. Suona come una fucilata nella mente del bambino che ero allora, con gli occhi sgranati per vedere lontano, per trattenere avidamente quell’immagine del fumo, della lotta, dei rumori, dei “carri armati a Reggio” e imprimerla per sempre nelle pellicola del ricordo. In quei giorni di luglio del 1970 ero un bambino che aveva quasi dieci anni, e a Reggio Calabria dovevo trascorrere, come nelle estati passate, qualche settimana di vacanza, ospite della nonna e delle “vecchie zie” nella “villetta dei Cipriani”, in via del Torrione, nel Centro storico di Reggio, proprio alle spalle del Corso Garibaldi. Mia madre, apprensiva come sempre, mi affidava alla cura dell’amatissima nonna Franca (che in realtà si chiamava Giulia, ma questa sarebbe un’altra storia, troppo lunga da raccontare adesso), sicura che nulla avrebbe mai potuto accadermi sotto l’occhio vigile di lei e delle sue sorelle, Anna ed Elena, che per me restano ancora oggi, e per sempre, “le vecchie zie” anche se – devo constatarlo con un velo di realistica tristezza – erano più giovani dell’età che io ho adesso, mentre scrivo queste righe. Ma invece di trascorrere la solita vacanza tra spiaggia, mare e deliziosi piatti ipercalorici calabresi, mi ritrovai nel bel mezzo di una guerriglia urbana degna di Belfast o di Beirut, testimone impreparato di un evento, che avrebbe segnato per sempre la storia di Reggio e del nostro Paese. E la mia. Così capii, percepii piuttosto, che un’intera città, un intero “popolo” si stava ribellando per qualcosa che aveva radici lontane, molto lontane, e che pochi fuori da quel contesto riuscivano ad apprezzare ed interpretare nel modo corretto e nella sua reale portata. Tutte queste cose le capii solo dopo, molto dopo negli anni, quando girando il mondo da inviato tra le guerre e le barricate degli “altri”, dai carri armati dei Caschi Blu dell’Onu a Timor Est ai blindati americani nel Kosovo, approfondii, ogni qualvolta mi fu possibile, la storia degli incredibili eventi di Reggio, di cui fui testimone-bambino e in buna parte inconsapevole. Capii che fu una rivolta di una città che si fece però simbolo e vittima per un intero popolo, per un intero meridione che, finalmente, si ribellava. Una rivolta che aveva radici antiche, che traeva la sua origine lontana dallo scippo piemontese-savoiardo che volle il Sud colonizzato, e privato di tutte le sue ricchezze finanziarie e industriali le casse del Banco di Napoli svuotate e portate a Torino, le ferriere di Mongiana smantellate e miseramente abbandonate, la cultura stessa di un Regno ridotta a osceno zimbello di una poderosa campagna di diffamazione storica anti-meridionalistica, che in parte prosegue tutt’ora. E poi la rivolta contro quello statalismo, quel centralismo arrogante che al Sud ha sempre tolto tutto e dato poco. Con l’arte tutta italica di restituire il maltolto facendolo passare per elemosina… Alla sera, poi, le “vecchie zie” nella “villetta” di via del Torrione, attorno al lungo tavolo della veranda, si accaloravano per ribellarsi contro tutto questo, insieme a tutti i reggini della Repubblica di Sbarre e del Granducato di Santa Caterina. E così come “antiche” erano le umiliazioni subite, “antiche” furono le offese tirate fuori dai detrattori della rivolta, che chiamarono “fascisti” i reggini, così come i “piemontesi” chiamarono “briganti” i meridionali tutti. Certo, non si può negare che la destra dell’epoca, quella del Movimento Sociale Italiano, capeggiata in loco dal dirigente reggino dell’MSI, il senatore Francesco, detto Ciccio Franco (al quale oggi è intestata l’ex Arena dello Stretto, ora Anfiteatro, di Reggio) occupò il posto lasciato vuoto dalla sinistra di allora, che non seppe (o non volle) mettersi a capo della rivolta. Il clima, i suoni, l’atmosfera, la stessa “aria” – con i suoi profumi e i suoi colori - di quelle giornate la posso ancora percepire, fisicamente, dopo cinquant’anni. Anche oggi che quei ricordi lontani si confondono con le immagini in bianco e nero dei telegiornali dell’epoca. Anche oggi che quelle care figure delle “vecchie zie” - riunite di fronte al televisore che aveva solo due canali Rai a guardare e a riconoscersi nelle riprese della rivolta - sono solo fantasmi di un epoca che non tornerà. Trasformate in immagini che restano per sempre impresse in quella parte della memoria di ognuno di noi che è indelebile. Impresse per sempre nelle barricate della nostra memoria.

... Santa Sofia moschea ...

Erdogan invita il Papa alla riapertura di Santa Sofia moschea. Musulmani contro la scelta del presidente turco Francesco nella lista degli invitati per l'evento del 24 luglio. L’Alto Comitato per la Fratellanza umana: «Passo che può creare tensioni religiose». Telefonata al Pontefice dalla presidente della Grecia

 CITTA’ DEL VATICANO. Qualcuno la legge come una provocazione, altri come un gesto di distensione dopo le accese polemiche delle scorse settimane. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha inserito anche Papa Francesco nella lista di invitati per la cerimonia di riapertura come moschea del complesso di Santa Sofia, a Istanbul. L’invito al Papa è stato confermato da Ibrahim Kalin, portavoce del presidente, all’emittente televisiva Cnn Turk. Il 24 luglio si terrà l’evento che segna la riconversione ufficiale in moschea di quella che in origine era una basilica bizantina simbolo del cristianesimo in Oriente, trasformata poi moschea nel XV secolo con la vittoria ottomana, infine divenuta museo nel 1934 per decisione del primo presidente turco Mustafa Kemal Ataturk. La cerimonia coinciderà con una grande preghiera del venerdì, alla quale assisteranno diverse personalità turche e straniere. Dal Vaticano finora non è giunta alcuna informazione sulla risposta del Papa all’invito di Erdogan, ma non è difficile immaginare che Francesco non presenzierà alla cerimonia. La scorsa domenica 12 luglio, il Papa era intervenuto sulla questione della riconversione di Santa Sofia, accompagnata al suo annuncio da roventi polemiche in particolare da parte dei capi delle Chiese ortodosse che, solitamente divisi, si sono trovati d'accordo nello stigmatizzare il gesto del “sultano” come un atto che avrebbe compromesso gravemente i rapporti tra islam e cristianesimo. Ed è forse in virtù del legame con alcuni Patriarchi, in primis quello di Costantinopoli, Bartolomeo I, al quale è legato da una fraterna amicizia, che Francesco ha voluto affrontare il tema con poche parole a braccio pronunciate con la fronte aggrottata dalla Finestra del Palazzo Apostolico alla fine dell’Angelus. «Penso a Istanbul, a Santa Sofia, e sono molto addolorato». Quasi una confessione personale che però ha sintetizzato chiaramente la sua posizione. In tanti hanno plaudito all’intervento del Pontefice, anche rappresentanti del mondo musulmano. Gli stessi che ora, alla vigilia della cerimonia ufficiale, tornano a criticare la scelta del presidente Erdogan. La voce più autorevole è quella di Mohamad Abdel Salam, segretario generale dell’Alto Comitato per la Fratellanza umana, consigliere speciale del grande imam di al Azhar, il quale ha firmato una lettera scritta a sostegno della richiesta del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) affinché Hagia Sofia mantenga la sua vocazione a essere «luogo di apertura, incontro e ispirazione per persone di tutte le nazioni e religioni». «Sosteniamo il vostro appello affinché siano evitate le divisioni e sia promosso il rispetto e la comprensione reciproci tra tutte le religioni», si legge nella missiva riportata dal Sir, in cui si esortano «tutti ad evitare qualsiasi passo che possa minare il dialogo interreligioso e la comunicazione interculturale e che possa creare tensioni e odio tra i seguaci di diverse religioni, confermando la necessità dell’umanità di dare priorità ai valori della convivenza». Sulla stessa linea, ma con toni più accesi, tre teologi musulmani – autodefinitisi «kemalisti», in linea cioè con la visione di Kemal Ataturk, padre della moderna Repubblica di Turchia –, in un articolo sul quotidiano turco “Birgun” affermano che utilizzare Santa Sofia come «strumento politico» è un «errore irreparabile» che «distrugge il messaggio di riconciliazione e di giustizia dell’islam, il cui significato è “pace”». Di «errore» parla anche la presidentessa greca, Katerina Sakellaropoulou, che lunedì ha avuto una lunga telefonata con il Papa per invitarlo a visitare nel 2021 la Grecia, esattamente Lesbo e Atene (viaggio che sembrava già previsto per il 2020), in occasione dei 200 anni della rivoluzione per l’indipendenza dall’Impero Ottomano. Nel colloquio Sakellaropoulou ha insistito perché il Pontefice favorisca gli sforzi internazionali per ripristinare lo status precedente di Santa Sofia, rimarcando le motivazioni politiche dietro la scelta di Erdogan che «allontana la Turchia dai valori di uno Stato laico e dai principi di tolleranza e pluralismo». Intanto tutto è pronto per la cerimonia del 24 luglio: Hagia Sofia ha già cambiato volto attraverso alcuni stratagemmi miranti ad oscurare le immagini cristiane durante la preghiera del venerdì. Ad esempio, la tenda a sipario che coprirà le meravigliose icone di Maria Theotokos e dell’Arcangelo Gabriele, dal momento che il culto islamico non prevede la presenza di immagini di esseri viventi nell’area di preghiera. Inizialmente si era pensato di ricorrere a luci al laser oscuranti, ma l’idea è stata presto accantonata per timore di danneggiare le opere. Secondo i media turchi, la modalità del sipario è stata scelta dagli esperti per rendere nuovamente visibili in modo rapido i mosaici ai visitatori, una volta terminate le cerimonie di culto. Come ha fatto sapere infatti Erdogan in un discorso alla nazione, l’ex basilica rimarrà aperta come museo a turisti stranieri e locali, escludendo le visite nei giorni di precetto islamico. Dovrebbero invece restare scoperte le altre icone che non sono visibili durante il culto, perché non si trovano nella direzione della ‘qiblà, di La Mecca, verso cui i musulmani si rivolgono per pregare. Su Twitter, infine, circolano da ieri alcune foto di operai intenti a posizionare sul pavimento tappeti verde scuro. Tra i commentatori c’è anche chi ha definito questa scelta «un crimine».

giovedì 23 luglio 2020

... è questa la nostra Italia? ...

Cosa sappiamo dei carabinieri arrestati a Piacenza

I giornali di oggi sono ricchi di racconti, intercettazioni e dettagli sull'inchiesta che ha portato al sequestro di un'intera caserma
 Mercoledì 22 luglio per la prima volta in Italia un’intera caserma dei carabinieri è stata messa sotto sequestro, e diversi militari sono stati arrestati con le accuse di traffico e spaccio di stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, peculato, abuso d’ufficio e falso ideologico. I reati sarebbero stati commessi a partire dal 2017. La caserma sequestrata si chiama “Levante” e si trova in centro a Piacenza. I carabinieri arrestati sono sei, mentre altri quattro sono stati sottoposti a misure cautelari di altro genere. A loro si aggiungono altre 12 persone coinvolte nell’inchiesta: 7 sono state arrestate, 4 sono ai domiciliari e una è libera. Le indagini sulla caserma “Levante” sono durate sei mesi e sono state condotte dalla Guardia di Finanza. Tutto è partito da un carabiniere che, durante una testimonianza alla polizia locale per un’altra inchiesta, aveva fatto riferimento a dei fatti accaduti alla “Levante” e che gli erano stati raccontati da un uomo picchiato dai carabinieri. Uno di loro era stato riconosciuto e, scrive Repubblica, «individuato nel corso di un’altra indagine per droga, a bordo di un’auto con alcuni spacciatori al casello di Milano sud in piena chiusura da Coronavirus. A quel punto erano scattate le intercettazioni telefoniche che avevano rivelato una realtà raccapricciante». Ieri, durante una conferenza stampa, la procuratrice capo di Piacenza Grazia Pradella ha detto che «non c’è stato nulla in quella caserma di lecito» e ha parlato di reati «impressionanti». Il sistema ruotava intorno allo spaccio di droga sequestrata agli spacciatori “concorrenti” o direttamente acquistata e rivenduta attraverso una rete di intermediari alle dipendenze dei carabinieri stessi. Negli atti dell’ordinanza d’arresto vengono riportate alcune frasi estratte dalle intercettazioni fra gli indagati. In una di queste un militare diceva: «Ho fatto un’associazione a delinquere ragazzi (…) in poche parole abbiamo fatto una piramide (…) noi siamo irraggiungibili». Aggiungeva poi: «Abbiamo trovato un’altra persona che sta sotto di noi. Questa persona qua va tutti da questi gli spacciatori e gli dice: “Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori!” e la roba gliela diamo noi!». In una delle intercettazioni riportate oggi dai giornali l’appuntato Giuseppe Montella, 37 anni, considerato il capo del gruppo, parla con uno dei suoi intermediari, Daniele Giardino: M: «A me interessa l’erba, l’importante è che ho l’erba, mi interessa averla sempre». G: «Direi che di fumo (hashish, ndr) ne abbiamo un bel po’» M: «No fumo, che cazzo te ne frega a noi l’importante è l’erba, io dell’erba non posso fare a meno (…) in settimana così faccio il viaggio, mi faccio un unico perché così se riescono vengono a prendersi sia l’erba che la coca». G: «Io prendo botte da 45.000 euro di droga alla volta». M: «E su 40.000 quanto riesci a guadagnare quanto riesci a portare a casa di tuo puliti?». G: «10 (mila euro, ndr)». Durante il periodo di lockdown c’erano difficoltà di approvvigionamento e i carabinieri coinvolti si mettevano d’accordo con intermediari e spacciatori per accompagnarli ed evitare i controlli, servizio per il quale si facevano pagare. Il Corriere della Sera scrive anche che i carabinieri rilasciavano «autocertificazioni con il timbro della stazione» per consentire che gli intermediari «superassero indenni eventuali controlli» ed evitare che il traffico di droga potesse interrompersi. Chi invece continuava a spacciare al di fuori del loro controllo veniva arrestato, picchiato e torturato. Nel tardo pomeriggio di ieri i giornali hanno pubblicato un audio diffuso dalla procura che guida le indagini in cui si sentono alcuni degli indagati insultare e picchiare un uomo. Dai telefoni intercettati sono state estratte anche delle fotografie contenenti dei selfie con le persone maltrattate. In una intercettazione, si sente un carabiniere dare ordine agli altri di ripulire dopo un pestaggio: M: «Ragazzi prendete lo Scottex che abbiamo nella palestra così si pulisce!». E ancora, riferendosi alla vittima: «Sì prendilo e portalo qua … perché si deve almeno pulire». Lo straniero pestato a sangue ha le manette e Montella ordina: «Pure qua …no, qua! Togliamoci le manette». Dalle indagini sono emersi anche altre episodi non legati allo spaccio. Montella e una delle persone alle sue dipendenze hanno picchiato il titolare di un concessionario per farsi vendere un’auto a un prezzo molto più basso di quello richiesto («Figa, sono entrato attrezzato, uno si è pisciato addosso, nel senso proprio pisciato addosso» (…) «L’altro mi ha risposto e l’ho fracassato»). È emerso poi che durante il periodo di lockdown Montella aveva organizzato una festa a casa sua. Una vicina ha chiamato i carabinieri che, una volta arrivati, non solo non sono intervenuti e si sono scusati con il collega, ma gli hanno fatto sentire la registrazione della telefonata, poi cancellata, per permettergli di individuare chi aveva segnalato la festa. Oltre a Montella (del quale i giornali raccontano una vita tra case e auto di lusso, molto al di sopra delle sue possibilità) sono stati arrestati gli appuntati Salvatore Cappellano, Angelo Esposito, Giacomo Falanga e Daniele Spagnolo. Il comandante di stazione Marco Orlando è ai domiciliari e il maggiore Stefano Bezzeccheri risulta indagato. Il Comando provinciale del carabinieri da cui la “Levante” dipende dista solo due chilometri e dalle intercettazioni risulta che i superiori dei carabinieri coinvolti fossero in qualche modo a conoscenza dei fatti. Scrive Repubblica: «Ne era a conoscenza il superiore diretto, il maggiore Stefano Bezzecchieri, comandante della Compagnia Piacenza. È l’ufficiale che scavalca il maresciallo alla guida della Levante e impone all’appuntato Montella di fare più arresti. “Vediamoci quanto prima a quattr’occhi, in borghese, al di fuori del servizio… “, lo avverte al cellulare. L’ordine è chiaro, va eseguito a ogni costo e con ogni mezzo. Pure se questo comporta, per usare le parole del giudice Milani, “la totale illiceità e disprezzo dei valori incarnati dalla divisa”. Con l’unica garanzia dell’impunità, perché, si legge nell’ordinanza, “in presenza di risultati in termini di arresti, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle irregolarità compiute dai loro sottoposti”. L’ultimo arrivato, un giovane maresciallo assegnato di recente alla Levante, è impressionato dalle azioni dei suoi nuovi colleghi. E al telefono si sfoga con suo padre: “Se lo possono permettere perché portano i risultati, portano un sacco di arresti l’anno. Ma perché? Perché hanno i ganci…”». E ancora: «Dello scellerato modus operandi del gruppo di Montella, delle sue uscite in servizio anche in stato di ebbrezza, pare sapere qualcosa anche il comandante della stazione di Campo Dell’Olio. Parlando col maggiore Bezzecchieri, il maresciallo Pietro Semeraro il 22 febbraio scorso si lascia scappare questa considerazione: “Vabbè, comunque i ragazzi della Levante, più che gestiti devono essere ridimensionati, perché, forse, si sono allargati un po’ troppo”».

mercoledì 22 luglio 2020

... 50 anni fa ...

Dichiarazione del Presidente Mattarella nel 50° anniversario della strage di Gioia Tauro

 Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

 «50 anni fa, a Gioia Tauro, un ordigno collocato sulla linea ferroviaria provocò il deragliamento del treno Palermo-Torino, causando la morte di sei persone, mentre molti passeggeri rimasero feriti, alcuni dei quali gravemente. Nel giorno di questa triste ricorrenza desidero anzitutto esprimere i sentimenti di solidarietà e vicinanza alle famiglie che furono costrette a patire lutto e sofferenze, pagando il prezzo più alto alla brutalità del terrore e dell’eversione. Fare memoria, anche delle pagine più dolorose della nostra storia, è opera preziosa di civiltà e richiama tutti a un gravoso e irrinunciabile esercizio di responsabilità. I colpevoli dell’attentato rimasero per lunghi anni sconosciuti ma, seppure con ritardo, il percorso della giustizia è riuscito a raggiungere un traguardo di verità, svelando gli esecutori, la loro connessione con frange estremiste neofasciste che tentavano di strumentalizzare e condizionare le proteste di Reggio Calabria, e svelando anche il legame con organizzazioni criminali radicate nel territorio. La strage di Gioia Tauro seguì di pochi mesi quella di piazza Fontana a Milano. La strategia della tensione e l’attacco eversivo alla Repubblica si stavano dispiegando, lasciando una scia di sangue che mai potrà essere cancellata o dimenticata. L’unità del popolo italiano intorno ai valori democratici della Costituzione è stata capace di respingere l’aggressione, di tagliare i legami di complicità, di bandire la violenza come mezzo di lotta politica. La lezione di quei tragici eventi ci dice che non si deve mai abbassare la guardia di fronte alla criminalità, all’illegalità, alle intimidazioni che puntano a lacerare il tessuto di coesione civile su cui poggiano libertà e democrazia». Roma, 22/07/2020

domenica 19 luglio 2020

... 28 anni fa ...

... 28 anni fa la strage di via D'Amelio ... una ferita che non si rimargina, una vergogna per l'Italia, incancellabile!!

... un blitz ...

... come Paperinik, stamane ho fatto un blitz veloce a Torino, andata e ritorno, per recuperare i cavi per la ricarica dei cellulari, che avevo dimenticato ... chi non ha testa ha gambe, o meglio pneumatici!!

sabato 18 luglio 2020

... ore 11,00 ...

... ore 11,00: riceviamo la visita di "probabili" compratori per il nostro alloggio qui di San Giorio ... attendiamo novità!

venerdì 17 luglio 2020

... venerdì 17 ...

... venerdì 17: eccoci di nuovo a San Giorio ... un po' di stanchezza e un periodo lungo da passare finalmente in tranquillità!

... omaggio ...

... ancora un omaggio a Camilleri nell'anniversario della morte ... un GRAZIE per esserci stato e per esserci ancora!

mercoledì 15 luglio 2020

... domani ...

... domani sarà l'ultimo giorno di permanenza a Torino: si è poi deciso di partire venerdì mattina: un po' di riposo finalmente! ... ma attenzione: c'è un ultimo appuntamento: ore 11 e 30 presso la nostra callista!

... oggi ...

... oggi un altro esame per Maria Rosa, praticamente l'intera mattinata passata al San Lazzaro ad aspettare, con lo sguardo fisso a quel corridoio e nel pomeriggio un po' di PC per me ...

... ieri ...

... ieri pomeriggio dal dentista per quella visita di controllo che non era stata possibile in precedenza ... la mia gioia nel vedere ripristinato un monumento a me caro, e poi via ancora in auto per altri impegni, fino a sera ...

lunedì 13 luglio 2020

... tre giorni ...

... da domani, martedì, fino a giovedì sera saremo a Torino: tanti impegni, tante cose da fare, la vicinanza obbligata con chi ci procura guai, sofferenza fisica e mentale ed attenta gravemente alla nostra salute, a chi, con il suo comportamento, rischia di ridurre seriamente le nostre aspettative di vita!

domenica 12 luglio 2020

... esiste ...

Esiste una forma di violenza sulla donna subdola e altrettanto pericolosa di quella tangibile che miete vittime quotidianamente: è la violenza invisibile del pensiero che sta dietro certi discorsi, atteggiamenti e comportamenti usuali e diffusi. Sono semplici ma dense le parole che descrivono il saggio a cura di Irene Calesini “La negazione della donna – le radici culturali della violenza di genere”, edito da Aracne e finalmente uscito nelle librerie, con un’immagine in copertina che salta subito agli occhi, ermetica nella sua essenzialità, con una linea scende e si piega spigolosa, per poi rigirarsi su se stessa con un’ampia curva che disegna un ricciolo che sembra una capriola. A sinistra dell’indecifrabile segno, una linea di colore blu che pare tratteggiata con un pastello, e, sulla destra, un piccolo triangolo rosso. “La resistenza della donna” è il nome che l’autore Maurizio Fioretti ha attribuito al disegno, in omaggio a questo piccolo ma importante volume, che proprio nell’era del post-Covid vale la pena di leggere, se non altro per aiutarci a tracciare il percorso verso quel nuovo paradigma cui tutti sembrano anelare ma del quale ancora si fatica a trovare la formula esatta. Dopo un’attenta lettura del volume, realizzato a più voci e con un’interessante introduzione del professor Giorgio Galli, un incontro con l’autrice diviene una tappa imprescindibile. D: Com’è nata l’idea del libro? R: L’idea del libro è nata all’indomani del convegno del 2016 “Diversità nell’uguaglianza, un’utopia possibile”, organizzato dall’Associazione culturale Amore e Psiche in collaborazione con altre associazioni, quali “Carminella”, “La scuola che verrà”, “Suono e Immagine”, “daSud”, insieme con la cooperativa sociale Psicoterapia Medica. Tre giornate di incontri e dibattiti sul tema dell’uguaglianza che dovrebbe essere alla base dei rapporti non violenti: la riflessione era partita dalla questione degli immigrati, ma mettendo a fuoco proprio il tema del rapporto con il diverso, era inevitabile che si approdasse a un discorso sul rapporto uomo-donna. Nella prima giornata del convegno abbiamo, quindi, fatto il punto sulla situazione delle donne, chiedendoci cosa ci fosse alla base dei comportamenti violenti nei loro confronti: l’idea più diffusa è quella di un’inferiorità, ma poi sono venute fuori molte altre considerazioni che ho sentito importante raccogliere in un unico testo, con ulteriori elaborazioni e approfondimenti. D: Perché è importante parlare oggi della questione delle donne? R: Non mi piace parlare di “questione”: rimanda a quelle problematiche, come la “questione Meridionale”, che non si risolvono mai! Bisogna partire dall’assunto che le donne non sono una specie protetta, o un problema da risolvere; sono semplicemente la metà del genere umano. La “questione delle donne”, quindi, altro non è che la questione di tutti gli esseri umani, ovvero quella di raggiungere un’identità personale che permetta dei rapporti con gli altri – tra cui quello con l’altro sesso che rimane sempre il più difficile poiché mette in gioco la maggiore “diversità” – sani, costruttivi. D: Le battaglie condotte finora rivendicano un’uguaglianza. Sono state importanti, ma guardando le statistiche, il problema alla radice permane. Cosa manca a queste rivendicazioni? R: Tutto quanto fatto finora è stato fondamentale perché finalizzato a raggiungere un’uguaglianza che a livello sociale deve essere garantita a tutti: stesse possibilità di istruzione, di carriera, di spostamento, di decisione. E questo è ciò di cui deve farsi garante lo stato. Ed ancora questo obiettivo non è pienamente raggiunto. Ma poi bisogna fare attenzione, perché a livello privato non è l’uguaglianza quella che va rivendicata, ma la diversità. Cerco di spiegarmi meglio: bisogna partire dall’assunto che l’uguaglianza di base come esseri umani già c’è, alla nascita. Una nuova chiave di lettura che risiede proprio in quell’espressione che aveva dato il titolo al convegno “Diversità nell’uguaglianza”, secondo la quale bisogna uscire dalla trappola dell’uguaglianza come punto di arrivo, e cominciare a vederla come assunto di partenza, abbandonando in questo modo le teorie di Rousseau e degli illuministi per rifarsi, piuttosto, a una nuova teoria, secondo la quale nasciamo tutti uguali, proprio per la dinamica stessa della nascita umana (Per approfondimenti si veda la Teoria della Nascita di Massimo Fagioli). Se ci pensi tra i bambini appena nati, al di là degli aspetti biologici, psichicamente non c’è alcuna differenza, nemmeno tra maschietti e femminucce: hanno tutti le stesse identiche esigenze. E sarà la risposta degli adulti a quelle esigenze di rapporto umano – che iniziano alla nascita e fanno la socialità naturale – che indirizzerà verso lo sviluppo fisiologico del bambino e della sua individuale diversità o verso una storia di malessere e malattia. Il vero cimento diventa riconoscere le differenze che si creano dopo, nell’età dello sviluppo, a partire da quelle sessuali, ma anche individuali, personali. E sono proprio quelle differenze a suscitare spesso reazioni violente: alla base c’è una percezione distorta del diverso, dello sconosciuto, fino a considerarlo pericoloso. Tornando quindi alle nostre battaglie, è giusto che si rivendichi una parità a livello sociale, ma nel privato è necessario uscire da questa logica della competizione e impegnarsi, piuttosto, a rivendicare la propria diversità, sia come donne, che come individui e individuare e rifiutare qualsiasi forma di relazione violenta. Non si tratta di proseguire con le battaglie su chi fa cosa, ma di riconoscere dove c’è questa violenza, spesso anche invisibile, che può tradursi banalmente in un’umiliazione, una messa in dubbio delle capacità, meglio, una negazione delle qualità umane. E prendere atto che va assolutamente rifiutata, in quanto sintomo di una malattia psichica, talvolta anche profonda, poiché nascosta dietro comportamenti impeccabili, certe volte perfino affettuosi! D: Quando sentiamo parlare di violenza, pensiamo sempre a quella fisica: in questo libro viene menzionata più spesso la violenza invisibile. Cosa s’intende? R: La violenza fisica, quella delle botte, dello stupro, è senz’altro la più facile da individuare, anche per la vittima. Così come la violenza psicologica, che può tradursi in un insulto, una frase detta male. Lì la risposta deve essere immediata. Ma poi c’è un’altra forma di violenza, che è la più subdola di tutte, che è proprio questa violenza invisibile, così sottile che spesso anche chi la agisce non se ne rende nemmeno conto. La sente chi la subisce, al limite, attraverso vari segnali che manda il corpo: un malessere diffuso, un attacco di rabbia, un pianto immotivato, una strana angoscia. Spesso le donne hanno bisogno di un lavoro personale per imparare a riconoscerla. A volte si rivolgono agli specialisti per disturbi fisici, per un’insonnia, per un’ansia…e non mettono mai insieme questi sintomi con quello che stanno vivendo. Ci vuole tempo. Anche perché molte volte questa violenza invisibile è agita dal “bravo padre di famiglia” e questo determina un malessere importante nelle persone che gli stanno intorno, figli compresi. Tuttavia, se possibile, c’è una forma di violenza invisibile ancora più devastante di questa, che non rimanda all’individuo, al privato, ma alla cultura, che permea il mondo dell’informazione, dei mass media o dell’istruzione che diventano veicolo di pensieri falsi. Pensiamo alla violenza perpetrata per secoli dalle istituzioni più conservatrici, come la Chiesa, che riconoscono la donna solo in quanto essere assoggettato all’uomo e la riducono all’esclusivo ruolo di madre, che tramanda la tradizione. È la violenza di una cultura che non dirà mai esplicitamente che non puoi fare le cose, ma ti toglie l’energia e la vitalità per farle, facendoti credere che “è tutto inutile”, magari mostrandoti tanti Nobel vinti da uomini, senza mai raccontare delle intere équipe al femminile che si nascondevano dietro quei premi. D: Dunque siamo vittime a tutti gli effetti? R: Assolutamente no, c’è anche una complicità da parte nostra: spesso le donne si difendono male, si ribellano esercitando loro stesse una violenza psicologica. E sanno essere più sottili degli uomini, più subdole. Gli uomini sono bravi con la forza, le donne con le parole. E diventano ambigue, ammaliatrici. Ma è una violenza che in fin dei conti fanno a loro stesse. Altre volte, invece, sopportano, si rassegnano, ma poi diventano loro stesse le promotrici del pensiero dominante e massacrano psicologicamente i figli, riversando su di loro questo malessere. È sbagliato dire che tutti gli uomini sono cattivi e tutte le donne sono vittime. Sono credenze che vanno scardinate; sono malate le relazioni, perché uno, il più violento, predomina sull’altro, il più ‘sano’. Storicamente, però, non si può negare che siano stati e siano gli uomini (alcuni) ad esercitare varie forme di violenza sulle donne e su molti altri esseri umani. D: Sui figli spesso le donne esercitano una forma di controllo, come anche sui mariti R: È il risultato di un adeguamento al ruolo, di un appiattimento, per cui, prive di una loro piena identità personale e sessuale, basano i rapporti sul controllo, sull’identificazione con l’altro e con la madre. Come se senza quelli non fossero nulla. Il problema millenario delle donne è che loro stesse hanno sempre pensato di essere stupide, di non poter vivere una loro indipendenza, di non poter essere autonome. E arrivano ad accettare, a fare compromessi su situazioni che andrebbero invece rifiutate, perché senza una persona accanto si sentirebbero incomplete, delle nullità. Spesso raccontano di essere colte da un “insostenibile vuoto”. Ma anche questo è un problema culturale, perché sin da piccole sono imbevute di una cultura che racconta sempre la stessa storia. Ecco perché per ribellarsi serve identità, intelligenza. Tuttavia, qualche segnale di cambiamento comincia a intravedersi: se vai a vedere i laureati o gli iscritti ad alcune facoltà universitarie, come Medicina ad esempio, la maggior parte sono donne. È il segno di un’esigenza di farsi un’identità che sta emergendo, soprattutto se rapporti il dato al caso italiano, dove le donne hanno iniziato a votare nel ‘46. D: Il libro non si limita a raccontare della negazione della donna, ma illustra anche quelle situazioni, quei momenti, quelle società in cui la donna veniva riconosciuta. Tutte queste correnti, però, per un motivo o per l’altro, subivano poi una battuta d’arresto. Come mai? R: Il perché è difficile da individuare, una strada potrebbe essere quella del peso che per secoli ha esercitato la Chiesa sulla nostra società: alla base c’è una credenza dovuta all’alienazione religiosa per la quale tutto ciò che va oltre la ragione, e che in un certo senso è rappresentato dalla donna, non è controllabile, pertanto spaventa. Come se questo regno dell’emotività, delle passioni, fosse il luogo oscuro in cui risiede il male. Ai vari movimenti rivoluzionari che si sono susseguiti nella storia è sempre mancata una separazione netta da questo pensiero, un nuovo paradigma sull’essere umano che racconti in modo diverso di quella realtà che va oltre quella della ragione. L’irrazionale ha sempre spaventato ed è stato sempre scisso dalla coscienza e dalla ragione, così come la dimensione femminile è stata sempre scissa da quella maschile. D: Parlando della convenzione di Instanbul, nell’intervista a Marta Bonafoni c’è un importante passaggio in cui si afferma che è tutto il sistema che deve rafforzarsi e smettere di vedere la donna come individuo da proteggere rimandando a una visione patriarcale dello Stato. Come sviluppare meglio questo concetto? R: Lo Stato non deve avere solo una funzione di protezione, deve avere un ruolo pro-attivo, evolutivo: è necessario, ad esempio, un impegno finalizzato a far sì che le donne vittime di violenza, spesso anche economicamente ricattabili, possano essere aiutate a entrare in un sistema lavorativo che permetta loro di cambiare la propria condizione economica e materiale in modo da rendersi autonome. E magari anche psicologica, facilitando l’accesso a specifici servizi, affinché il cambiamento materiale sia accompagnato da un cambiamento psichico. Mi viene in mente, a proposito di questo, il bellissimo Articolo 3 della nostra Costituzione che sottolinea, oltre all’uguaglianza e la pari dignità di tutti i cittadini, anche che È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Parla di pieno sviluppo della persona umana, ed è stato voluto in particolare dalle donne della Costituente: come se ci fosse stata l’intuizione di una nascita uguale per tutti e di uno sviluppo fisiologico e sano dell’essere umano che deve essere favorito, accompagnato, anche nella società. D: Nel libro si affronta anche il discorso della violenza su Internet. Internet è solo un mezzo diverso o peggiora le cose? R: Internet è un’arma a doppio taglio perché se da un lato consente alla comunicazione “giusta” di diffondersi, dall’altro dà lo stesso potere anche alle fake news, agli insulti, a tutto ciò che è denigrazione, con tutto quello che ne consegue. Quindi il problema non è solo nel gesto di umiliazione in sé, ma nella risonanza; tutto ciò che gira non lo legge solo il diretto interessato, ma anche amici, parenti, conoscenti: la vittima si sente improvvisamente isolata, circondata da un contesto che percepisce avverso, giudicante, oppressivo. D: La tragedia del Coronavirus ci ha insegnato che il sistema neo-liberista così com’è impostato non funziona. Tutti abbiamo capito che non può continuare, ma nessuno sa ancora quale sarà la nuova possibile impostazione. Secondo te qual è il ruolo delle donne nella costruzione di questo nuovo ordine? R: Questo ipotetico nuovo mondo va realizzato insieme: le donne, da un lato, devono fare un grande lavoro basato sullo studio, sul lavoro per ottenere un’identità sociale, sulla conoscenza di sé stesse e delle loro dinamiche nei rapporti umani, che le rende intelligenti, solide, autonome. Senza tuttavia diventare uguali agli uomini, ma mantenendo quella sfera emotiva, quella sensibilità, che da sempre le contraddistingue. E poi, con questa nuova consapevolezza, devono avere il coraggio di rapportarsi agli uomini e mostrarsi per quello che sono, sapendo che prenderanno molte delusioni, ma non dovranno fermarsi al primo amore deludente credendo che sia l’unico possibile, ma insistere, non accontentarsi. Gli uomini, dal canto loro, hanno un compito ancora più difficile perché accanto allo studio e alla conoscenza che permette di crearsi un’identità sociale, devono essere capaci di fare un passo indietro, avere il coraggio di combattere quegli stereotipi consolidati nei secoli per i quali la donna può essere libera, ma fino a un certo punto, può vestirsi come vuole, ma senza esagerare, può parlare ma raramente può pensare. Eccetera eccetera. E questa è una rivoluzione che devono fare sia l’uno che l’altra.

... Il virus ...

Il Virus ha aumentato l’impazzimento generale. Lo scrive Roberto Burioni su “Mediacl Facts”, il magazine di informazione scientifica da lui stesso fondato. E lo scrive a proposito del Covid Party organizzato in Alabama da un gruppo di studenti, dove sono state invitate volontariamente persone infette, ogni invitato ha messo in palio una posta e chi si infetta per primo vince tutto. Un esempio di stolidità sconfinata; svuotare di senso la realtà con cui si ha a che fare trasformando addirittura la tragedia a cui abbiamo assistito in questi mesi in un gioco divertente assume dei contorni così gravi da diventare grottesco. Un comportamento che ha tutti i perimetri della psicopatologia, su questo l’infettivologo ha ragione: l’immagine del pazzo cui siamo avvezzi è quella dell’uomo che si arrampica nudo sull’albero e inizia a cantare, o strilla per strada senza motivo, o parla da solo – solo per fare alcuni esempi. Un uomo, quindi, che perde il contatto con la realtà, la svuota di senso, e si comporta come se l’albero fosse la cabina della doccia, come se stesse inveendo contro qualcuno, o come se davanti a lui ci fosse un interlocutore quando effettivamente non c’è nessuno. Un contesto ricreato nella propria mente che si sovrappone a quello reale. Il comportamento messo in atto dal gruppetto di scapestrati in Alabama non si discosta poi tanto da questi esempi: morte e contagio vengono trasformati in un gioco divertente, quindi non resta che organizzare un party per condividerlo e – perché no! – promuovere anche un bel contest per chi si ammala – e, non dimentichiamolo, rischia di far ammalare – per primo. La domanda che verrebbe da farsi è da dove derivi questa fatuità e soprattutto se ci siano gli strumenti adatti, in Alabama, per costringere questi ragazzi a un ricovero, o per lo meno a essere seguiti da un’equipe di bravi psicologi che siano in grado di individuare la patologia. Perché è da lì che si inizia, dal dare un nome alle cose. Non sono birichinate, non sono ragazzate, sono segni ben chiari di qualcosa di molto più profondo che richiederebbe un intervento immediato, esattamente come si fa quando si manifestano i primi sintomi di una malattia fisica. Ma nelle discipline psicologiche è tutto un gran campo minato, poiché interviene questa dannata “capacità di intendere e di volere” che confonde le acque, e se effettivamente i “ragazzacci” usciti dal party sono stati in grado di prendere la macchina e guidare fino a casa, non hanno bisogno di nessuna equipe psichiatrica, bensì solo di una bella sgridata dai loro genitori, questo quanto viene erroneamente creduto e diffuso. Ed è così che il virus della pazzia continua a circolare e mietere vittime, poiché ancora non se ne è individuata la possibile radice. Tornando, però, alla dichiarazione dell’infettivologo “il virus ha aumentato l’impazzimento generale”, verrebbe innanzitutto da controbattere che non si può estendere l’esempio di un gruppetto di giovani fatui a tutto il genere umano. L’infelice episodio è circoscritto all’Alabama , anzi a Tuscaloosa, sede dell’omonima università e di molti altri college, in un’America governata da un presidente che per primo continua a prendere sottogamba e fare inutile ironia – adesso scherza sul fatto che la mascherina la indosserebbe e anzi, l’ha provata e gli sta pure bene! - su qualcosa della quale forse egli stesso non si rende completamente conto, nonostante i 52.000 nuovi casi in 24 ore recentemente registrati. Tuttavia, e questa la nota dolente, è anche vero che era troppo illusorio sperare in un mondo migliore dopo la pandemia. Siamo tornati esattamente quello che eravamo, e se effettivamente la malattia del nostro tempo era il non voler vedere, la famosa “Cecità” di cui ci parla sempre lo stimato Premio Nobel Saramago, non potevamo certo aspettarci che passasse per l’arrivo di un evento catastrofico, poiché chi non vede continua a non vedere, chi non vuole sapere continua a non sapere. Si è detto che il Covid-19 sia il nemico più democratico che esista, poiché colpisce tutti, senza distinzione di censo né di razza, ma è anche vero che le conseguenze più gravi ricadono inevitabilmente sulle società più povere, dove il distanziamento diviene quasi impraticabile, si pensi alle favelas di Rio de Janeiro o alle township in Sudafrica, dove più persone vivono in un’unica stanza e dove i servizi igienici rappresentano ancora una specie di utopia. Dunque diseguaglianze ancora più accentuate, se vogliamo. In un’intervista al New Yorker, l’epidemiologo Snowden aveva dichiarato che “le epidemie sono una categoria di malattie che fanno da specchio agli esseri umani e mostrano chi siamo veramente”. Affermazione successivamente argomentata in un’intervista sul Manifesto che viene qui utile riportare: “… il coronavirus (…) è la prima grande epidemia della globalizzazione. E credo che tutte le società creino le proprie vulnerabilità. Permettimi di fare un paragone con un’altra malattia che è stata la più temuta del suo secolo, il colera nel diciannovesimo secolo. Era una malattia dell’industrializzazione e quindi dell’urbanizzazione dilagante – cioè l’ambiente costruito in modo catastrofico perché masse di persone si riversavano nelle grandi città in tutto il mondo industriale, dove non esisteva alcuna preparazione sanitaria o abitativa (…). Il tifo, e il colera asiatico, direi, sono malattie sintonizzate sulle condizioni di industrializzazione e rappresentano, in questo senso, uno degli specchi della globalizzazione. Con il coronavirus, ci sono almeno tre dimensioni che mostrano come il Covid-19 sia lo specchio di ciò che siamo come civiltà. La prima è che stiamo diventando quasi 8 miliardi di persone in tutto il mondo. Poi abbiamo il mito per cui si può avere una crescita economica e uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate, il che è una contraddizione intrinseca. Eppure abbiamo costruito la nostra società su questo mito, pensando che le due cose si possano in qualche modo conciliare. Quindi c’è un problema. Inoltre, questo trasforma il nostro rapporto con l’ambiente e in particolare con il mondo animale. Abbiamo dichiarato guerra all’ambiente e distruggiamo l’habitat degli animali (…) Quello che succede è che gli esseri umani entrano in contatto con gli animali con una frequenza e in modi che non sono mai accaduti in passato. E possiamo ora indicare quali sono le malattie che lo dimostrano: l’influenza aviaria per definizione, così come la MERS e la SARS e l’Ebola. E ora abbiamo il coronavirus. Direi che questo schema non è casuale. Vuol dire che viviamo in un’epoca di ripetuti spillover. E in particolare sembra che siamo molto vulnerabili a quei virus per i quali i pipistrelli sono un ospite naturale. Un’altra caratteristica della globalizzazione è che ora abbiamo creato un mondo di grandi città, di megalopoli collegate da un rapido trasporto aereo, il che significa che uno spillover che accade, scelgo un posto a caso, a Giacarta al mattino…lo stesso virus sarebbe presente a Los Angeles e a Londra la sera. Quindi direi che il coronavirus sta sfruttando canali di vulnerabilità che noi stessi abbiamo creato. Direi anche che questa pandemia è la quintessenza dell’epidemia di una società globalizzata. Globalizzazione significa distruzione dell’ambiente, il mito di una crescita economica infinita, un’enorme crescita demografica, grandi città e trasporti aerei rapidi; è tutto collegato”. La Pandemia, dunque, altro non è che il riflesso di quanto noi stessi abbiamo creato, il famoso trovarsi di fronte allo specchio per scoprire il proprio vero volto. Ma una volta scoperto che quel volto è turpe, malato, sporco e invecchiato, basta averlo visto per cominciare a far qualcosa per migliorarlo? E, soprattutto, lo hanno davvero visto tutti? Forse la possibilità di ribellione, ancora una volta, non risiede in chi la violenza la agisce, nei cosiddetti carnefici della contemporaneità, ma proprio in chi quella violenza la subisce. Solo chi in un rapporto sado-masochistico subisce la violenza può far qualcosa per fermarla, cominciando innanzitutto a frenare i meccanismi di complicità con il proprio carnefice, il quale, spesso, non si rende nemmeno conto della violenza che agisce. E a chi, toccato sul vivo, si sta già chiedendo come si faccia a fermare questa complicità, vien difficile fornire una risposta precisa, poiché ognuno può trovare il suo modo. Formulare una propria risposta non è facile, né tantomeno immediato: occorre una ricerca attenta quanto inarrestabile, aperta verso i mille stimoli che ne possono derivare e pronta a cogliere qualsiasi sprazzo di saggezza, qualsiasi perla scaturisca ora da una frase, ora da una dichiarazione, ora da un suono. Come ricorda David Quammen, divulgatore scientifico e autore di “Spillover” (Adelphi, 2014): “Dobbiamo seguire l’informazione sul virus, prestare attenzione al problema ma abbiamo bisogno anche di altre cose. Abbiamo bisogno di una copertura sul coronavirus che approfondisca le cause e gli effetti, ma anche di storie che non riguardino il coronavirus. Abbiamo bisogno di musica, di comicità, di arte, di persone che parlano di libri (…)”. (David Quammen, Il Manifesto, 25 Marzo 2020).

sabato 11 luglio 2020

... alea iacta est ...

... è deciso: terremo la casa di Mattie e cercheremo di affrettare la vendita della casa di San Giorio: il tempo lavora contro di noi e non possiamo permetterci il lusso di perdere altro tempo! CAT-LINA DOCET!!

... già un anno ...

... già un anno è passato dalla morte di Andrea Camilleri e ci manca tanto!! Quando muore un Maestro di vita e di cultura come lui non possiamo non sentirci tutti più poveri e soli ... grazie per tutto il bene che ci hai dato, non ti dimenticheremo mai!!

giovedì 9 luglio 2020

... Torino vs Brescia 3 a 1 ...

... sempre al bordo del baratro, ma per ora il Toro ce la fa!!

lunedì 6 luglio 2020

... Addio Maestro ...

È morto nella notte in una clinica romana per le conseguenze di una caduta il premio Oscar Ennio Morricone. Il grande musicista e compositore, autore delle colonne sonore più belle del cinema italiano e mondiale da Per un pugno di dollari a Mission, C'era una volta in America, Nuovo cinema Paradiso, aveva 91 anni. Qualche giorno fa si era rotto il femore. I funerali del maestro si terranno in forma privata "nel rispetto del sentimento di umiltà che ha sempre ispirato gli atti della sua esistenza", nel suo testamento ha scritto: "non voglio disturbare". Lo annuncia la famiglia attraverso l'amico e legale Giorgio Assumma. Morricone, si legge nella nota, si è spento "all'alba del 6 luglio in Roma con il conforto della fede". Assumma aggiunge che il maestro "ha conservato sino all'ultimo piena lucidità e grande dignità, ha salutato l'amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli è stato accanto fino all'estremo respiro, ha ringraziato i figli e i nipoti per l'amore e la cura che gli hanno donato, ha dedicato un commosso ricordo al suo pubblico dal cui affettuoso sostegno ha sempre tratto la forza della propria creatività". La notizia in pochi minuti ha fatto il giro di tutti i siti internazionali. L'Oscar alla carriera a 78 anni è stato il compimento di un lunghissimo percorso fatto di musica pensata, concepita e creata soprattutto per il cinema, rapporto iniziato negli anni Sessanta. In onore dello strumento che aveva studiato da giovane, la tromba, Morricone scrisse uno dei brani più suggestivi della colonna sonora di Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964). All'epoca usò lo pseudonimo di Dan Savio, ma dopo questo western all'italiana si avviò a diventare (con il suo vero nome) uno dei più prestigiosi compositori di musica da film del mondo. "La scomparsa di Ennio Morricone ci priva di un artista insigne e geniale. Musicista insieme raffinato e popolare, ha lasciato un'impronta profonda nella storia musicale del secondo Novecento. Attraverso le sue colonne sonore ha contribuito grandemente a diffondere e rafforzare il prestigio dell'Italia nel mondo". Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricorda il compositore. "Desidero far giungere alla famiglia del Maestro il mio profondo cordoglio e sentimenti di affettuosa vicinanza", conclude il messaggio del capo dello Stato. La sera prima dell'inaugurazione del nuovo ponte progettato da Renzo Piano, l'Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova eseguirà Tante pietre a ricordare, il brano per orchestra, coro e voce bianca che il maestro Ennio Morricone ha composto, in memoria delle vittime del crollo del Ponte Morandi. Evocativa e commovente, dura quattro minuti ed è l'ultima partitura completata dal maestro. Nato a Roma il 10 novembre 1928, Morricone si era diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia in tromba, composizione, strumentazione, direzione di banda e musica corale. Maestro d'orchestra, componente del gruppo sperimentale Nuova Consonanza dal 1964 (che ricorda il suo impegno: "fino agli ultimi giorni di vita sempre generosamente disponibile ad essere coinvolto in battaglie e iniziative a sostegno delle istanze della nuova musica"), debuttò nel cinema con il film di Luciano Salce Il federale (1961), mentre stava per imporsi come arrangiatore delle più famose canzoni italiane dei primi anni 60 (suoi gli arrangiamenti di tutti i successi di Gianni Morandi o quello dell'evergreen di Mina Se telefonando). In seguito continuò ad accompagnare le imprese polverose dei pistoleri di Sergio Leone e Duccio Tessari, ma seguì pure quelle dei protagonisti de I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965), i sanguinosi scontri de La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966) o il vagabondare di Totò in Uccellacci e uccellini (Pier Paolo Pasolini, 1966), passando attraverso generi diversissimi. Tra le sue innovazioni più riconoscibili c'è l'uso della voce umana e i suoni della natura, oltre che strumenti che fino a quel momento non venivano utilizzati per le colonne sonore. Una voce di donna (quella di Edda Dell'Orso) che accoglie l'arrivo alla stazione di Claudia Cardinale in C'era una volta il West (Sergio Leone, 1968), incalzante in Metti una sera a cena (Giuseppe Patroni Griffi, 1969), sospesa vicino all'amore impossibile tra Noodles e Deborah (C'era una volta in America, 1984), la stessa che accompagna le gesta di Bugsy (Barry Levinson, 1991). Dopo aver formato con Sergio Leone un fortunato sodalizio artistico (avevano frequentato un anno di elementare assieme ma si ritrovarono anni dopo), se ne crearono poi degli altri come quello con Giuseppe Tornatore (fu anche grazie alla straordinaria colonna sonora che Nuovo cinema Paradiso agguantò l'Oscar ormai trent'anni fa). Nel corso della sua carriera ha scritto musica per molti e importanti registi stranieri da Terrence Malick a Brian De Palma. Dopo aver ricevuto due nomination agli Oscar per Mission (Roland Joffe, 1986) e Gli intoccabili (Brian De Palma, 1989) finalmente ottenne l'Oscar alla carriera nel 2007. Sempre attento a preservare la sua dignità di compositore, sa bene che scrivere musica da film comporta a volte qualche compromesso. Quando si limita a essere "solo" un arrangiatore non esita ad imprimere il suo marchio, come dimostra la suggestiva elaborazione di un classico, Amapola (C'era una volta in America). Nonostante debba sempre tener conto dei gusti del pubblico e dei registi si ritiene comunque un artista libero e soddisfatto, convinto che le sue composizioni (a differenza di quelle di molti altri autori di colonne sonore) vivono e risplendono di luce propria. Dopo tanto inseguirsi l'incontro con Quentin Tarantino, suo più grande sostenitore a Hollywood, la musica per The hateful Eight, colonna sonora che gli fece conquistare il Golden Globe e l'Oscar nel 2016, nove anni dopo quello alla carriera proprio a dimostrazione della sua grande vitalità artistica. Morricone ha vinto anche tre Grammy Award, tre Golden Globe, sei Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d'argento, due European Film Awards, un Leone d'Oro alla carriera e un Polar Music Prize e ha venduto inoltre più di 70 milioni di dischi, tra colonne sonore per il cinema e opere ha composto per più di 500 titoli. Ha continuato a scrivere per il cinema e a dirigere fino a poco tempo fa. Morricone è stato insignito dal Capo dello Stato Sergio Mattarella del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana. L'ultimo riconoscimento risale allo scorso 5 giugno quando gli è stato consegnato il Premio Principessa delle Asturie per le arti 2020 (che ha condiviso con il compositore statunitense John Williams, 88 anni), massima onorificenza che fa capo all'omonima fondazione presieduta dai reali spagnoli. Sono tanti i messaggi di cordoglio della politica: oltre al commento su Twitter del presidente del Consiglio Giuseppe Conte ("Infinita riconoscenza al genio artistico del maestro"), il presidente della Camera, Roberto Fico, rende omaggio al maestro su Facebook: "Se ne va un vero e proprio monumento della nostra cultura, orgoglio per il nostro Paese, un compositore che ha fatto la storia del cinema mondiale, che ci ha fatto emozionare, sognare, commuovere come pochi altri". "Un giorno triste per la cultura, con Ennio Morricone ci lascia uno dei grandi maestri italiani, un musicista di raffinata bravura che con le sue melodie ha saputo emozionare e far sognare il mondo intero che lo ha ricambiato con i più importanti premi e riconoscimenti, a partire dagli Oscar per le sue leggendarie colonne sonore", così il ministro dei Beni culturali e turismo, Dario Franceschini si stringe alla famiglia. E tutto il mondo della musica, pop e classica, saluta il compositore con affetto e riconoscenza. "Un Maestro verso cui nutrivo amicizia e ammirazione. Di lui ho diretto una importante composizione Voci dal silenzio a Ravenna e a Chicago suscitando vera emozione tra il pubblico" ricorda Riccardo Muti, "musicista straordinario non solo per le musiche da film ma anche per le composizioni classiche. Ci mancherà - aggiunge il grande direttore d'orchestra - come uomo e come artista". Sui social si moltiplicano i messaggi: Morgan, Tiromancino, Cesare Cremonini, Noemi, Francesca Michielin, Ron, Marracash, Pinguini Tattici Nucleari, Laura Pausini, Ermal Meta, Luca Barbarossa, Emma Marrone. "Il privilegio dell'artista è morire sapendo che la sua arte non morirà mai. W il Maestro Ennio Morricone" scrive Vasco Rossi su Instagram. "Ciao Maestro. Non smetterò mai di dirti grazie" è il saluto di Gianni Morandi su Instagram. "Quanti regali di musica e poesia ci hai fatto" è la dedica di Claudio Baglioni. "La tua arte magnifica, potente e sensibile è unica e resta per sempre con noi. Mancherai al bene di tantissimi e al mio". "Oggi Ennio non c'è più. E tutti noi siamo orfani di un sublime compositore conosciuto in tutto il mondo" scrive Carlo Verdone su Facebook. "Morricone sarà immortale per il suo talento inarrivabile che lo portava a esaltare qualsiasi film. Gli vorrò sempre bene, ricordandolo per aver dato grazia e poesia ai miei primi due film". Lo piangono moltissimi attori e registi: Anna Foglietta, Giulio Base, Giovanni Veronesi ("Gli è bastato un fischio per entrare nella storia. Ciao Ennio"). "Addio grande amico e ciociaro" è il ricordo di Lina Wertmuller "hai lasciato un vuoto immenso". "Lo conoscevo da 50 anni, insieme abbiamo lavorato a I pugni in tasca e a La Cina è vicina. Io poi ho fatto scelte diverse, collaborando con Piovani. Sono state esperienze di cordialità e di fiducia che riponevo in lui e che mi ha sempre restituito con entusiasmo e con un coinvolgimento da artista più che da professionista" dichiara Marco Bellocchio, sottolineando "come per i grandi compositori, la sua musica sia immediatamente riconoscibile. Oltre ai miei film e alla mia esperienza diretta non posso non ricordare tutta l'epopea di Sergio Leone. La storia musicale di Morricone è sterminata e nessuno la potrà mai ripetere. È stato qualcuno che ha saputo essere se stesso pur entrando in materie diversissime fra loro. Si pensi a film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri". "Ci sono persone che hanno la capacità di rendere il mondo migliore perché sanno creare la Bellezza. Ennio Morricone con la sua Musica - dice Monica Bellucci protagonista tra l'altro di Malena di Giuseppe Tornatore, per cui il maestro avevo scritto la colonna sonora - ci fa elevare verso qualcosa di alto, di cui abbiamo tanto bisogno per poter credere ancora nella nobiltà dell'anima". La cerimonia dei Nastri d'argento, i premi assegnati dal Sindacato dei giornalisti cinematografici, sarà dedicata a Morricone. Fabio Fazio lo definisce "Genio assoluto". "Con Ennio Morricone se ne va un pezzo di cinema mondiale" è il commento del produttore Aurelio De Laurentiis. "Una testimonianza di quanto gli italiani possano essere protagonisti ovunque. La musica, un legame universale per unire tutti in un abbraccio globale d'amore e di comunanza ideale". "Era un grande amico, una grande persona, al di fuori della creatività musicale" dice Vittorio Storaro. "Ed è importante essere creativi anche sul piano umano. Io non credo che ci sia una divisione fra la personalità e la creatività, vanno di pari passo. Certamente sarà una enorme mancanza, non solo genio musicale, ma anche umano". La sindaca di Roma, Virginia Raggi, scrive su Twitter: "Dolore per la morte di Ennio Morricone, grande musicista e compositore del nostro tempo. Roma era la sua città e oggi piange la scomparsa di un artista molto amato". E lancia una mozione per intitolargli l' Auditorium Parco della Musica. "Addio al genio che creò con le note l'epica nel mondo moderno. Addio Maestro" sono le parole con cui Roberto Saviano saluta Morricone su Instagram. Anche il cardinale Gianfranco Ravasi ricorda il maestro. "Sono vicino con affetto alla moglie Maria e alla famiglia nel ricordare il Maestro Ennio Morricone: lo affido a Dio perché lo accolga nell'armonia celeste, forse assegnandogli l'incarico per qualche partitura da far eseguire ai cori angelici", scrive il 'ministro' della Cultura del Vaticano via social. "L'ultimo nostro incontro festoso" spiega "fu il 15 aprile 2019, quando gli consegnai a nome di papa Francesco la Medaglia d'oro del Pontificato".

domenica 5 luglio 2020

... certo!! ...

... una domenica in relax, in compagnia dei cugini di Maria Rosa, una bella mangiata, una bella bevuta, in attesa di una nuova settimana ... tranquilla!!

... Juve - Torino 4 a 1 ...

... peggio di così non si può- Cairo vattene!!

sabato 4 luglio 2020

... 4 luglio ...

... ma che ci fa Trump-M a Rushmore per la festa del 4 luglio? Continui a razzolare nella melma come è abituato a fare!!

... markus verletzt ...

... e ti pareva! Erano appena passati 5- cinque giorni dalla nostra partenza da Torino che riceviamo una telefonata da Roberta: Marco si è ferito sbattendo la mano contro la porta a vetro: corsa in ospedale, punti, flebo etc... tentazione fortissima di Maria Rosa di tornare e mia opposizione durissima ... speriamo bene!

 p.s. tutto OK

giovedì 2 luglio 2020

... coby81 ...

New post on Vento tra gli alberi

 Maschi contro femmine: se continuiamo come Murgia e Morelli, non andremo mai da nessuna parte

 by coby81

 Ha fatto il giro del web il botta e risposta tra Michela Murgia e lo psichiatra Raffaele Morelli in un’intervista su Radio Capital divenuta già tristemente celebre. La dinamica è ormai nota: pochi giorni fa, lo psichiatra, nel suo appuntamento settimanale con RTL è stato chiamato a commentare la polemica scatenata dall’aforisma di François Sagan pubblicato il giorno prima sul profilo Twitter della stessa radio: “Un vestito non ha senso a meno che non ispiri gli uomini a volertelo togliere”. Nonostante la frase sia attribuita a una donna che non rappresentava esattamente l’ala più reazionaria della Francia del XX secolo, l’iracondia del popolo dei social network non ha tardato a farsi sentire: da Nord a Sud le donne di tutta Italia si sono sentite toccate sul vivo, e il commento di Morelli non ha fatto che rincarare la dose: “Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi perché vuol dire che il suo femminile non è presente in primo piano. Puoi fare l’avvocato, il magistrato, essere il conduttore radiofonico, puoi ottenere tutti i successi che vuoi, fare tutti i soldi che vuoi. Ma il femminile, in una donna, è la base su cui si siede il processo.” L’esercito delle femministe ha dunque levato immediatamente, e in parte anche giustamente, gli scudi, capeggiato dalla scrittrice Michela Murgia, la quale non ha tardato a farsene portavoce, e il giorno dopo, dai microfoni di Radio Capital, ha preteso delucidazioni. Quello che ne è nato è il teatrino a cui abbiamo tristemente assistito, conclusosi con il “clic!” del telefono di Morelli attaccato letteralmente in faccia alla conduttrice, ma prima di indignarci ulteriormente e inveire contro le idee paternaliste dello psichiatra, occorrerebbe chiedersi, ancora una volta “Che diamine è successo?” È successo innanzitutto che l’aforisma cui ha fatto seguito il commento dello psichiatra sia stato interpretato esclusivamente nella sua chiave più bieca: voler togliere un vestito e mettere gli occhi addosso ha risvegliato gli animi di quel #MeToo a cui nulla si vuol togliere in questa sede, ma forse esiste anche un’altra modalità di interpretare la dialettica tra uomo e donna, che solleva l’uomo dal ruolo di molestatore e la donna da quello di vittima. Che nel mondo ci siano potenziali violentatori è un dato di fatto, e quindi questo non è certo un invito a dare retta agli estranei o farsi notare troppo in piena notte, ma volendo elevare i toni a osservazioni meno legate a fatti di realtà e riportando il senso alla dinamica di rapporto tra uomini e donne, forse un’altra chiave è possibile trovarla, insieme alla trappola insita nelle parole dello psichiatra. La dialettica uomo-donna è da sempre la più difficile da gestire, poiché coinvolge aspetti, dimensioni e realtà ritenuti inconoscibili, o, al più, considerati sede del male, del peccato, o della nostra parte animale, quando non addirittura annullati. È in questa mancanza di riconoscimento che si scatena quel putiferio dal quale non si viene mai a capo, e se una volta per tutte si cominciasse a far pace con il fatto che in tutto ciò che concerne la sfera dei bisogni, ovvero la realtà esterna, sociale, chiamiamola della ragione, siamo uguali, mentre le differenze emergono in quell’altra sfera, quella più intima e profonda delle esigenze, allora forse si riuscirebbe a creare una dialettica un po’ più costruttiva. Quello che probabilmente andava rifiutato nelle parole dello psichiatra è la terribile confusione che queste parole destano; l’incapacità di distinguere le dimensioni che vengono di volta in volta messe in gioco. “Puoi fare l’avvocato, il magistrato, il conduttore radiofonico, ma il femminile è la base su cui siede il processo”. Menzionare sfere, come quella dell’identità sociale, in cui è la ragione a farla da padrone, e individuare l’identità femminile come loro fulcro, crea un pasticcio che la metà basta. L’identità sessuale ha poco o nulla a che vedere con l’identità sociale; al più, se c’è un piano sul quale occorre, invece, riconoscere le dovute differenze, è quello privato, dove gli abiti da avvocato, da magistrato e da conduttore radiofonico vengono appesi alla stampella, e solo lì, messi uno di fronte all’altro, uomini e donne tornano a essere profondamente diversi. Ma sembra un confronto impossibile, ogni volta si cade in queste dinamiche sado-masochistiche con cui ogni possibilità è castrata in partenza, poiché il discorso viene affrontato nella sua più becera dimensione logica, eliminando completamente il nucleo su cui la discussione dovrebbe reggersi. E la risposta “di sinistra” a idee paternalistiche e reazionarie diviene altrettanto confusa, poiché basata sulla negazione di tutto ciò che va oltre il sacro regno del raziocinio. Del resto, lo diceva anche Marx, e poi si è continuato a ripeterlo nei secoli: l’uomo è per la capacità di produrre i propri mezzi di sussistenza, tutto ciò che va al di là di questa facoltà è ascrivibile al mondo animale. Ecco, dunque, che la risposta a cosa sia essere donna viene attribuita a una mera affermazione sociale, poiché riconosciuta come unica dimensione umana possibile, a un rendersi uguale all’uomo, o addirittura meglio, scatenando il meccanismo della competizione, entrambi impegnati nell’eterna lotta per la soddisfazione dei bisogni. Ma è davvero tutto qui? E le esigenze dove sarebbero? E che ne è stato della creatività? Vogliamo forse negarlo, che gli esseri umani hanno anche una dimensione per la quale amano fare le cose “per niente”? Vogliamo forse negarlo che c’è un momento nel quale si esce dal “fare in funzione di” e si fa e basta? Eppure, è dai tempi della preistoria che lo comunichiamo, attraverso le pitture rupestri, il canto e poi tutte le forme d’arte che ne sono conseguite: se l’essere umano dedicasse la propria vita esclusivamente alla sopravvivenza, alla produzione dei mezzi di sussistenza, impazzirebbe, andrebbe incontro a quella morte interiore ben descritta dai poeti di tutte le epoche. C’è un momento in cui scatta la necessità di fare qualcos’altro, di fare emergere “un che” che fa ugualmente parte di noi, anche senza saperne il motivo preciso. E le donne sono maestre in questo: non sono forse loro ad avere, da sempre, una particolare attenzione all’immagine? Vogliamo forse negarlo, quanto sia per loro importante trovare una continua corrispondenza tra quanto hanno dentro e quello che rappresentano all’esterno – vedi appunto quando escono di casa e scelgono il vestito? E allora questa dimensione che cos’è? Questo fare le cose per niente, semplicemente per sentirsi a proprio agio con se stesse. Tornando alla dialettica, sarebbe quindi necessario uscire dalla logica della competizione una volta per tutte, poiché non c’è nessun nemico da combattere. C’è, al più, un pensiero malato da rifiutare, alimentato da millenni di cultura razionale che nega l’identità della donna, e si esprime ora nella loro riduzione al mero ruolo di mogli e madri, ora in una ricerca di affermazione sociale che ne sacrifica quella dimensione irrazionale di cui sopra; quella ricerca continua di rappresentazione esterna di una realtà interiore, che si realizza poi nel rapporto col diverso da sé. Torna allora il discorso della cosiddetta diversità nell’uguaglianza, quel riconoscimento di un’uguaglianza sul piano materiale e una profonda differenza su quello psichico: solo comprendendo questa sottile ma indispensabile sfumatura diviene possibile tutto il resto. Diviene possibile realizzare un mondo dove le donne non saranno più costrette a rinnegare la loro dimensione femminile per rivendicare un’indipendenza, un’identità sociale, un’intelligenza. Non si tratterà più di scegliere se realizzarsi socialmente o nel rapporto con un uomo, ma, anzi, saranno proprio le due dimensioni ad alimentarsi l’una con l’altra. E idem il contrario, ovviamente. Ed è così che la storia della “Signorina Effe”, il film del 2007 di Wilma Labate, la cui protagonista si trova a dover scegliere tra una realizzazione professionale e il rapporto con un uomo basato sul desiderio, da racconto di una irreversibile realtà, diviene una semplice favola. E per orientarci in questa infinita ricerca, forse, sono le parole di un altro psichiatra a dover essere ricordate: “Ed è triste che nella frammentazione e caos in cui è caduta la sinistra, non si vuole vedere che l’antico e forse glorioso femminismo è affondato, come l’Artax di “La Storia Infinita”, nella palude della depressione per aver fallito la ricerca di un’identità femminile che riusciva a liberarsi dalla sottomissione e dalla schiavitù della razionalità sempre gestita dall’uomo che non aveva un rapporto con la realtà della donna, essere umano uguale ma, insieme, diverso (…) Non hanno trovato quel pensiero libero che avrebbe permesso di vedere che l’identità femminile esiste soltanto se si realizza una identità maschile e, simultaneamente, il maschile sarà soltanto se c’è il femminile. Nessun narcisismo che annulla il diverso da sé, come se non dovesse esistere.” (Massimo Fagioli, Left 1 – 9 Gennaio 2009)