Il buongiorno di Giulio Cavalli
La lettera è arrivata a Bruxelles con l’educata brutalità del potere imperiale: “Dear Madam”, 30% di dazi su tutte le importazioni Ue a partire dal primo agosto. Firmato, Donald J. Trump. È il modo in cui un ex presidente sotto processo e un candidato in piena campagna elettorale ha scelto di trasformare l’Europa in bersaglio mobile. Non un errore tattico, ma un metodo: creare il problema per vendere la soluzione.
La risposta italiana? Un misto di afasia e devozione. Giorgia Meloni, quella che diceva di voler fare da ponte tra Washington e Bruxelles, si è trovata travolta da uno tsunami economico e politico che parte proprio da lì, dagli Stati Uniti che considera “amici”. Non un messaggio pubblico, non una strategia chiara, solo l’evocazione di un negoziato ancora aperto, come se i dazi fossero una variante del meteo.
Eppure i numeri sono lì, implacabili: fino a 200mila posti di lavoro a rischio, 35 miliardi di danni all’export, interi settori strategici colpiti – dall’agroalimentare all’automotive, dalla meccanica alla farmaceutica. E con essi, il cuore dell’elettorato di centrodestra. Non serve scomodare la geopolitica per capire che qui crolla un intero racconto.
A destra si accusa Bruxelles, si loda il “rilancio” negoziale, si invoca cautela. Ma è una cautela tossica, che ha il suono dell’inerzia e il profumo del servilismo. Perché chi si inginocchia prima della battaglia non può poi lamentarsi delle condizioni della resa. E chi in nome della fedeltà atlantica ha già concesso tutto – armi, gas, tasse azzerate per le big tech – non può certo alzare la voce ora.
Meloni tace. E chi tace di fronte a un’aggressione economica, non è prudente: è complice.
Lo sapeva, Giorgia Meloni. Da due giorni. Ne aveva parlato giovedì con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, chiuse in uno stanzino al primo piano della nuvola dell’Eur a margine della conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina. Entrambe sapevano che sarebbe arrivato un colpo così forte da Washington, che di fatto certifica il rischio di fallimento della trattativa portata avanti da Bruxelles per settimane. Ed è proprio l’irritazione nei confronti della commissione Europea e delle rigidità di Von der Leyen e dei suoi collaboratori ad aleggiare nell’entourage della presidente del Consiglio (“mandiamo in giro Sefcovic, ma che peso pensate che abbia?”, ironizza un esponente di governo). Per questo, la strategia del governo si muove su due fronti. Il primo è chiaro: trattare senza irritare la Casa Bianca.
La premier crede che il 30% non sarà la tariffa che verrà applicata dal primo agosto, ma che bisogna fare di tutto per abbassare la quota. Lo aveva chiesto lei stessa nella telefonata di lunedì notte con Trump. Senza attivare già l’allarme rosso di possibili “ristori” nei confronti delle imprese e compensazioni per i settori più colpiti, perché questo significherebbe fornire un assist al presidente americano Donald Trump: vorrebbe dire fargli sapere che l’Italia può trovare una soluzione da sola con i dazi. E invece non è così. Per trattare però Meloni è convinta che non si debba rispondere attaccando a testa bassa il presidente degli Stati Uniti e quindi la nota di Palazzo Chigi è molto cauta: Meloni sostiene gli sforzi della Commissione sperando nella “buona volontà” di tutti per “rafforzare l’Occidente” e senza “innescare uno scontro commerciale” con gli Usa evitando “polarizzazioni che renderebbero più complesso il raggiungimento di un’intesa”.
Vedete, la questione è di stile e onestà. Perché - è vero - Giorgia Meloni e il suo Governo non potevano, tecnicamente, evitare che Trump togliesse i dazi solo a noi. Non esiste sul piano tecnico, ripeto. Perché siamo nell'Unione Europea.
Però non dovevano intestarsi meriti inesistenti, come quando hanno provato a prendere per il naso milioni di italiani tentando di far credere di aver convinto l'uomo arancione a rivedere le sue posizioni. Ed è quindi giusto, sacrosanto, che oggi si punti il dito contro di loro, perché avete voluto fare gli sciamani della pioggia: la pioggia non è arrivata e ora vi prendete la colpa.
Dall'altro lato - ben più grave - se Giorgia Meloni fosse stata davvero una patriota, non starebbe oggi facendo lauti guadagni grazie all'uomo che mette a rischio decine di migliaia di imprese e centinaia di migliaia di lavoratori italiani. Perché mentre le trattative erano in corso - proprio poche settimane fa - Giorgia Meloni - si è fatta tradurre la sua autobiografia, ci ha fatto mettere la prefazione del figlio di Trump e l'ha pubblicata negli USA con la casa editrice vicina al suddetto uomo arancione. Intanto perché se mentre stai trattando per conto di un Paese ti fai fare un (grosso) favore personale dalla controparte, indebolisci il tuo potere contrattuale. E poi perché aumentare il tuo reddito grazie a chi impoverirà il Paese che guidi non è molto etico, istituzionale e onesto.
Lo stile complessivo è, oggettivamente, basso. E ben poco istituzionale. E io spero che qualcuno dei più incalliti meloniani si renda conto della situazione. Perché qui, per ora, l'unica che ha guadagnato qualcosa da Trump è Meloni.
Leonardo Cecchi



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