Il #buongiorno di Giulio Cavalli
L’incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán a Roma è stato un esercizio di retorica diplomatica travestito da dialogo politico. La premier italiana si è presentata come garante dell’unità europea, ma ha evitato accuratamente ogni confronto reale con le posizioni di Budapest su Ucraina e Russia. Orbán continua a sostenere che «le sanzioni sono un errore», Meloni ripete che «l’Italia resta dalla parte di Kiev» - eppure entrambi sanno di convergere su un pragmatismo che guarda agli interessi economici e alle mosse di Donald Trump.
Dietro le dichiarazioni ufficiali, resta l’ambiguità. L’Italia non spinge più, da tempo, per un rafforzamento delle sanzioni, e la premier ha accolto l’alleato ungherese proprio mentre Bruxelles discute il nuovo pacchetto di misure contro Mosca. Orbán difende i suoi rapporti energetici con il Cremlino, Meloni li tollera in nome del “realismo”.
Sul piano politico, l’intesa è evidente: entrambi coltivano un’idea di Europa ridotta a somma di nazioni autosufficienti, utile solo quando finanzia l’industria della difesa o concede margini al potere interno.
Meloni parla da europeista, ma agisce da nazionalista opportunista. Cerca di compiacere Washington, non irritare Budapest e restare visibile a Bruxelles. È una politica che non decide: misura le convenienze, cambia lessico a seconda dell’interlocutore e chiama “coerenza” ciò che è soltanto calcolo.
In questo equilibrio instabile, l’Italia finisce per apparire come l’anello debole dell’Unione: cortese con chi la isola, silenziosa con chi la comanda. Una postura che non costruisce peso politico, ma solo dipendenza.
Ungheria: quando la legge diventa strumento di oppressione
Negli ultimi quindici anni, Viktor Orbán e il suo partito Fidesz hanno trasformato l’Ungheria in un laboratorio di democrazia illiberale — un modello che svuota la forma dello Stato di diritto mantenendone la facciata.
Dietro la retorica della “sovranità nazionale” e dei “valori tradizionali”, si nasconde una sistematica demolizione delle libertà fondamentali.
Dal 2011, con la nuova Costituzione che ha concentrato il potere nelle mani dell’esecutivo, Orbán ha minato i contrappesi democratici:
ha indebolito la Corte Costituzionale, sostituendone i giudici con fedelissimi;
ha ridotto l’indipendenza dei media e perseguitato le ONG che ricevono fondi esteri;
ha imposto leggi discriminatorie contro le persone LGBTIQ+, fino a vietare la marcia del Pride e qualsiasi “rappresentazione” di diversità sessuale;
ha utilizzato la pandemia per governare per decreto, senza reali controlli parlamentari;
ha manipolato la legge elettorale, rendendo sempre più difficile una competizione politica equa.
Nel 2025, con l’ultimo emendamento costituzionale che riconosce solo due sessi e consente di revocare la cittadinanza a doppia nazionalità, Orbán ha compiuto un ulteriore passo verso un autoritarismo pienamente consolidato.
Tutto ciò accade nel cuore dell’Unione Europea, mentre Bruxelles continua a elargire fondi che alimentano il regime che viola sistematicamente i valori su cui l’Europa stessa si fonda.
L’Ungheria non è più una democrazia libera. È un avvertimento per tutti noi: i diritti non si perdono all’improvviso, ma si sgretolano, legge dopo legge, con l’indifferenza di chi pensa che “non ci riguardi”.
È tempo che l’Europa scelga da che parte stare — dalla parte della libertà, o dalla parte del potere.
È questo il modello che Giorgia Meloni vuole costruire in Italia?
Ma la domanda è: perché gli italiani le danno fiducia e il voto?
La risposta è semplice: per puro conformismo, voto FDI perché lo votano gli altri. Comitato di cittadini attivi e democratici in difesa della Costituzione


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