giovedì 16 ottobre 2025

... quale giustizia? ...

Quale giustizia? 


“Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori”. (P.P. Pasolini, «Siamo tutti in pericolo», in Saggi sulla politica e sulla società) A partire dagli anni Sessanta, a Pasolini preme soprattutto il discorso sul potere, tanto nel suo essere paradigma ontologico e necessario della vita sociale organizzata, quanto nelle forme diverse che esso assume nella fenomenologia storica, inclusa la configurazione democratica dell’Italia post-fascista. Ed è in questo orizzonte che Pasolini colloca la sua, pur sporadica, riflessione sui meccanismi della giustizia umana, sottraendoli ad una lettura di tipo settoriale e interpretandoli invece come corollari, conseguenze della gestione complessiva della "polis", di cui replicano i caratteri, compresa l’eventuale degenerazione autoritaria. P.P.P. non fa mistero della sua riluttanza nei confronti delle verità calate dall’alto e il rapporto con il diritto lo immagina come la presenza di un’assenza, là dove rivendica il carattere estetico della storia e dunque anche del diritto: “le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere diritti”. ( P. P. Pasolini, Intervento al congresso del Partito Radicale, (Lettere luterane), in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti). il timore di PPP è senz’altro legato al rischio che il diritto stesso, come risultato di un processo riflessivo culturalmente e storicamente orientato, si sviluppi all’interno di dinamiche mediate dalla borghesizzazione e non attui pienamente per questo la sua funzione emancipativa: “Oggigiorno, la storia determina il suo orientamento in funzione di uno scopo unico: l’industrializzazione totale del pianeta”(P.P. Pasolini, «…e i contestatori» (Il sogno del centauro), in Saggi sulla politica e sulla società) E, come tale, seppur esercitato attraverso forme persuasive che apparentemente ingenerano benessere, è pur sempre una modalità di dominio che crea dipendenza. Il diritto può infatti sia volgere alla identificazione sia all’alterità a seconda se le scelte e le azioni si collochino in una dinamica di progresso o mero sviluppo: mero sviluppo è “meccanica e irreversibile distruzione di valori” (P.P. Pasolini, «Pannella e il dissenso», Lettere luterane, in Saggi sulla politica e sulla società) mentre il progresso è compatibile con un progetto di emancipazione culturale. Così "Pilade, "il racconto della sconfitta di chi non ha più gli ideali dei padri, i valori delle madri" . Nel Pilade, opera teatrale concepita dallo scrittore nel 1966 e pubblicata l’anno successivo sulla rivista letteraria romana Nuovi Argomenti dopo aver completato la traduzione dell’Orestea di Eschilo, di cui Pilade rappresenta un sequel ideologico, Oreste matricida assolto dal tribunale dell’Aeropago è tornato nel luogo del delitto, ad Argo. La "magnifica ossessione" è quella di cancellare il ricordo del tempo passato cambiando le regole del potere. Aggiornare la tirannide sostituendola con la democrazia, il governo ispirato dalla Ragione di Atena. Ad Argo, Oreste istituisce il culto di Atena come ringraziamento per l’aiuto ricevuto durante il processo che lo vedeva imputato per l’omicidio di Egisto e Clitennestra, a loro volta assassini del padre. Tramite politiche eccessivamente votate al progresso e al futuro e non condivise dalla sorella Elettra e dall’amico Pilade, il protagonista trasforma l’economia di Argo in un’economia capitalista. Pilade non ritiene saggia la decisione di Oreste di ignorare il passato e i suoi preziosi insegnamenti. Errori del passato ritornano e Pilade smaschera il progetto dell’amico: gli acclamati cambiamenti introdotti in città non sono che misure superficiali che non alterano in alcun modo l’ordine precostituito. Accecato dal potere, il protagonista vede la critica di Pilade come un attacco alla sua autorità e al vecchio amico non resta che l’esilio. Pilade lascia quindi Argo e si incammina alla ricerca della sua rivoluzione irrealizzabile. Oreste è sottoposto da Pasolini a una forte revisione in chiave negativa. L’eroe democratico, informato dalla ragione tecnocratica e progressista che regge anche il mondo occidentale avanzato, finisce per degradarsi in figura di politico astuto, attento alla difesa degli interessi di proprietà, suoi e della fazione che lo appoggia, e per stravolgere la giustizia in privilegio di classe, giungendo infine per puro tatticismo anche a stringere un’alleanza innaturale, contraddittoria per un laico come lui, con le forze oscurantiste e reazionarie rappresentate dalla sorella Elettra (" si tratta di un patto di reciproco puntello in cui è evidentemente controfigurato l’avvicinamento “storico” tra gli ambienti della Sinistra e la Democrazia Cristiana"). In questa opera Pasolini fa un salto indietro nel tempo e si trasforma egli stesso in Pilade, facendoci vivere la tragedia del nostro tempo, la sua tragedia, all’interno del mito antico della Grecia. La dea Atena spingeva per una fredda e, oggi potremmo dire scientista ed ipertecnologica, Ragione al Governo, mentre parallelamente Oreste, suo sodale, conduceva il Paese verso un vuoto sviluppo materiale, dipinto di progressismo (mistificazione in cui iniziano a cadere anche vari compagni di Pilade-Pasolini); Elettra nostalgica della passata tirannia del padre Agamennone, (metafora di un’altra nostalgia ancora ben presente in Italia, di cui Pasolini era ben conscio) per un po’ rimane la migliore amica di Pilade-Pasolini, che non accettava la direzione di come si andavano a sistemare le cose e si andava ribellando allo status quo; le stesse Eumenidi iniziavano a tornare Erinni, quindi malevole, sintomo che quando la giustizia é falsa le pulsioni distruttive inconsce si riaffacciano. Ma alla fine Pilade si trova tutti contro e si sente tradito tre volte: dall’amico Oreste, accecato dal futuro da conquistare e dal potere; da Athena, una via di mezzo tra una sacerdotessa di una nuova religione dogmatica: la nuova chiesa della ragione e della scienza, perdendo in gran parte la sua origine sacra; e, infine, da Elettra stessa, che non vuole una profonda rivoluzione, ma per il quieto e comodo vivere borghese, si accorda bene o male con il fratello Oreste. Oreste, che a sua volta, si sente egli stesso tradito dal vecchio amico, non comprendendolo e non riconoscendolo più e che, a questo punto, manda in esilio, come traditore della Patria. Secondo Pilade-Pasolini, dire no a poteri inferi è l’unica scelta possibile, tutta umana ma perché sia realizzabile bisogna risvegliare le coscienze a una comunità retta nell’armonia, nel bello e nel buono. Pasolini proietta molta parte di sé e del suo animus polemico ( con riflessi di tante altre figure rilette in chiave di dissenso: Cristo, Dante, Leopard). Il timido e scandaloso Pilade è appunto il disobbediente, l’eretico, il diverso che, in nome di un suo ideale di “libertà e giustizia” coniugata con il rispetto dei valori sacri della tradizione e della pietas, tradisce la sua classe di origine e si mette dalla parte dei diseredati, di cui il nuovo governo non pare voler prendersi cura. Furono i rovelli anche dell’ultimo Pasolini corsaro, pessimista ma anche mai arreso nei confronti dell’inferno della società neocapitalistica in cui pure (lo dimostra il contrasto tra Oreste e Pilade) ogni ipotesi rivoluzionaria di cambiamento è destinata allo scacco e il potere stesso nella sua mutazione pare immutabile e intercambiabile. E tuttavia spicca l' alternativa, un'esile speranza utopistica e altre energie ideali: la diversità, il rifiuto senza cedimenti compromissori, il non adattamento. Di questi principi si fa carico il Pilade di Pasolini. E, come lui, i poeti, «questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica» –così scrisse nel 1962 su “Vie nuove”- che non si adagiano nella propria normalità, vivono in perenne stato d' allerta e soprattutto non dimenticano.

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