venerdì 31 ottobre 2025
... fine mese ...
... in questa fine mese il protagonista del mio post è un lupo mannaro che urla nel buio ... sono io che urlo, che non mi rassegno alla mala sorte e tiro fuori tutta la mia grinta, la mia voglia di reagire all'andazzo negativo di questi mesi, di questi anni ... c'è uno spiraglio di luce in fondo a questo tunnel, speriamo!!
... un quadro inquieto ...
𝐏𝐢𝐥: 𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚 𝐟𝐞𝐫𝐦𝐚, 𝐠𝐨𝐯𝐞𝐫𝐧𝐨 𝐢𝐦𝐦𝐨𝐛𝐢𝐥𝐞. 𝐈𝐥 𝐪𝐮𝐚𝐝𝐫𝐨 𝐢𝐧𝐪𝐮𝐢𝐞𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐠𝐢𝐮𝐧𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐞𝐜𝐨𝐧𝐨𝐦𝐢𝐜𝐚
Articolo di Cesare Damiano
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha pubblicato l’edizione di ottobre della propria “Nota sulla congiuntura”. Il panorama complessivo è quello di una pervasiva incertezza globale. E, per quel che riguarda l’Italia, il momento è segnato da un calo del Prodotto interno lordo e da un’ulteriore contrazione dell’industria non attenuata dall’andamento del terziario. A livello globale il clima è segnato da una forte instabilità. L’incertezza deriva dal deterioramento delle relazioni internazionali, dal rafforzamento del protezionismo e dal persistere delle tensioni geopolitiche. Nella complicazione del quadro che emerge dalla nota pubblicata il 24 ottobre incide, naturalmente, l’imposizione di dazi da parte degli Stati Uniti e, sul piano monetario, il sensibile apprezzamento dell’euro sul dollaro: intorno al 13% dall’inizio dell’anno. Dal che è risultata una perdita di competitività per gli esportatori europei, in particolare per Paesi a forte vocazione internazionale come Italia e Germania. Nel campo degli scambi internazionali, dunque, le imprese italiane subiscono forti ostacoli alle esportazioni, segnati dal clima di incertezza cha abbiamo già descritto.
Le barriere fiscali poste dagli Usa colpiscono soprattutto il Nord-Est e i comparti tradizionali del Made in Italy come, ad esempio, abbigliamento, bevande e strumenti medici. Inevitabile, perciò, un pesante effetto sul Prodotto Interno Lordo del nostro Paese. Scrive l’Upb che “in Italia il Pil, dopo una accelerazione in inverno, nel secondo trimestre ha registrato una flessione (-0,1) per la prima volta da quasi tre anni. La dinamica produttiva si conferma inferiore a quella dell’area dell’euro. La volatilità della fase congiunturale in Italia dipende dall’export, in marcata flessione nel secondo trimestre (-1,9 per cento) contro il precedente dato positivo nei primi mesi dell’anno (2,2 per cento); secondo le informazioni più recenti, le esportazioni sarebbero sensibilmente diminuite in agosto, soprattutto verso gli Stati Uniti.” E, continua: “Nel secondo trimestre si è arrestata la crescita dei consumi, frenati dall’elevata propensione al risparmio, mentre gli investimenti fissi lordi sono sostenuti anche dalle condizioni creditizie favorevoli e si sono rafforzati soprattutto sui beni strumentali.”
“Le nostre stime dei modelli di breve termine indicano per il terzo trimestre una congiuntura debole, pressoché stagnante, con un Pil sostanzialmente invariato rispetto al trimestre precedente. Nello scorcio finale dell’anno la dinamica produttiva si dovrebbe gradualmente rafforzare. La previsione di crescita del Pil per l’intero 2025 si conferma intorno allo 0,5 per cento, come indicato dall’UPB in occasione della validazione dello scenario macroeconomico del Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) 2025, ma le prospettive sono caratterizzate da rischi significativi, soprattutto a causa del frammentato contesto internazionale.” Come scrivevamo sopra, il quadro dei settori produttivi ci avverte che siamo in una situazione di stagnazione: l’industria, dopo una leggera crescita nel primo trimestre, registra una battuta d’arresto ad agosto (-2,4%) e il settore terziario rimane debole, con il valore aggiunto pressoché stabile rispetto al 2024.
Non è ovviamente immune a questa congiuntura il mercato del lavoro. Già in primavera è venuto il segnale di una lieve riduzione degli occupati (-0,1%), dovuta soprattutto al calo dei dipendenti a termine, bilanciato dalla crescita del lavoro autonomo. Interrotta la crescita, l’occupazione si è fatta stazionaria, segnata dal rafforzamento della quota di lavoratori anziani che testimonia l’effetto della transizione demografica e dei forti limiti posti ai pensionamenti. Sul piano salariale, nota l’Upb, che “nel periodo estivo le retribuzioni contrattuali hanno ulteriormente rallentato, principalmente nel settore privato, mentre è proseguita la tendenza crescente nel pubblico. Nel complesso dei primi otto mesi dell’anno l’incremento delle retribuzioni orarie (3,3 per cento) si attesterebbe poco sopra la variazione media dei due anni precedenti. La quota di dipendenti in attesa di rinnovo si è ridotta rispetto all’inizio dell’anno, risultando in agosto al 27,3 per cento nel settore privato (43,0 per cento nel complesso dell’economia)”.
Quali le previsioni per il Pil? L’analisi del terzo trimestre indica, come detto, una situazione stagnante. In parole povere, in estate l’attività economica sembra essersi fermata. La previsione di crescita per il 2025 si attesta, come detto in precedenza, intorno allo 0,5%, come delineato nella validazione del quadro macroeconomico del Dpfp. Ma ci sono insidie impellenti. I rischi in direzione di un ulteriore ribasso si intensificano, alimentati dalla frammentazione del contesto internazionale, dall’andamento debole dell’industria e dalla pressione competitiva sui settori tradizionali. In tutto questo, nella legge di Bilancio progettata dal Governo Meloni, non c’è in pratica nessuna forma di stimolo all’economia, in particolare nessuna misura di politica industriale. Questo, mentre settori fondamentali come l’automotive e la siderurgia si trovano in grande difficoltà. Di questa congiuntura il Governo sembra essere solo un muto testimone. Abbiamo davvero molto, come Paese, di cui preoccuparci. Ma, nell’impostazione della legge di Bilancio non si vede, da parte governativa, nessuna scelta capace di affrontare le difficoltà e la complessità della situazione.
L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare
... un presente indecente! ...
𝐃𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐥𝐨𝐠𝐠𝐢𝐚 𝐚𝐥 𝐠𝐨𝐯𝐞𝐫𝐧𝐨: 𝐢𝐥 𝐩𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐞̀ 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐢𝐮𝐭𝐨
Il #buongiorno di Giulio Cavalli
Dalla “paura della firma” all’improcedibilità, dall’abolizione dell’abuso d’ufficio al divieto di pubblicare le ordinanze: il mosaico è completo. Quello che per decenni era stato solo il «piano di rinascita democratica» della P2 oggi è diventato testo normativo, e ciò che fu la rivincita personale di Silvio Berlusconi contro la magistratura è ormai architettura di governo. Non è un incidente: è una linea.
La riforma Cartabia del 30 dicembre 2022 ha aperto la breccia con la mannaia dell’improcedibilità e la compressione delle indagini preliminari. I governi successivi, quello Meloni in particolare, ci hanno infilato dentro tutto il resto: abolizione dell’abuso d’ufficio «per eliminare la paura della firma», restringimento del traffico d’influenze, obbligo di interrogatorio preventivo che avverte l’indagato prima della misura, taglio alle intercettazioni, legge-bavaglio sulla pubblicazione degli atti. È la stessa traiettoria che il procuratore Nicola Gratteri ha definito «premessa per sottoporre il pm al controllo politico». È la stessa constatazione dell’ex procuratore Giuseppe Volpe: le riforme di oggi sono la fotocopia di quelle rivendicate da Licio Gelli nel luglio 1982.
Nel documento della P2 c’era tutto: separare le carriere, rendere il Csm dipendente dal Parlamento, responsabilizzare il Guardasigilli sull’operato dei pm. Oggi ci siamo arrivati passando dalla porta presentabile della “presunzione di innocenza” e della “giustizia più veloce”. Ma i cittadini non avranno processi più rapidi: avranno, questo sì, politici e amministratori più protetti, soprattutto con la proliferazione dei reati a querela di parte.
A ogni epoca i suoi padri ispiratori: Calamandrei e Dossetti per costruire l’indipendenza, Gelli e Berlusconi per addomesticarla. Il referendum che arriva serve a dire se quella giustizia deve restare libera o diventare domestica al potere.
Quando era in vita, #LicioGelli lo disse chiaramente, era il 2008: "tutti si sono abbeverati al Piano di rinascita democratica, tutti ne hanno preso spunto. Mi dovrebbero pagare i diritti, ma non fu possibile depositarli alla Siae...".
All'epoca disse anche che l'unico che poteva portare avanti quel Piano «è #Berlusconi, non perché era iscritto alla #P2 ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare".
E invece quello che non riuscì nemmeno a #SilvioBerlusconi, è riuscito a Giorgia Meloni: la tanto ambita separazione delle carriere, che punta in seconda battuta a ricondurre i pubblici ministeri sotto il controllo del potere esecutivo. Uno dei tanti pezzi del piano di demolizione di ogni forma di controllo e di contrappesi tra i poteri.
Un altro dato storico è l'umiliazione del Parlamento: nelle quattro letture tra Camera e Senato non vi è stata alcuna discussione, nessun confronto, nessun accoglimento dei pareri critici anche degli esperti auditi durante tutto l'iter.
Il vero obiettivo si è visto anche nei recenti attacchi alla Corte dei Conti (col rapido dietrofront dopo che a Lor Signori è stato spiegato che se andranno avanti lo stesso sul Ponte e poi si trasformerà in un disastro economico, dovranno pagare di tasca loro).
La posta in gioco nel referendum che si terrà la prossima primavera è semplice: si vota NO per ripristinare l'equilibrio costituzionale tra i poteri voluto dai padri costituenti.
Anche i precedenti referendum, a partire da quello di Renzi, erano considerati persi in partenza, poi l'#Italia ebbe un sussulto di dignità e bocciò quell'obbrobrio di riforma. Rifacciamolo.
#qualcosadisinistra
giovedì 30 ottobre 2025
... un passato ingombrante! ...
C’è sempre un certo gelo nell’aria quando arriva la data della Marcia su Roma, come se il calendario stesso trattenesse il fiato per ricordarci che, centotre anni fa, l’Italia imboccò una strada di cui stiamo ancora pagando le conseguenze. Il 28 ottobre 1922 non fu un giorno glorioso, non fu un’avventurosa presa del potere in stile cinematografico. Fu un miscuglio di vigliaccheria politica, violenza squadrista e calcolo opportunista. Fu la resa dello Stato liberale, che aprì la porta a Benito Mussolini mentre le camicie nere, più che marciare, arrancavano nel fango sotto la pioggia di un autunno qualsiasi.
Si racconta che il re Vittorio Emanuele III passò parte di quelle ore in dubbiosi consulti, con una timidezza che si sarebbe rivelata fatale. Bastava una firma per dichiarare lo stato d’assedio. Bastava un minimo di risolutezza per fermare Mussolini, che all’epoca dormiva tranquillamente a Milano, pronto a raggiungere Roma solo dopo che gli altri avevano fatto il lavoro sporco. Invece il re preferì consegnare il governo al capo di un movimento violento e brutale, che aveva già riempito le campagne di pestaggi, incendi alle Case del Popolo e intimidazioni. La “rivoluzione fascista” fu, in realtà, una nomina con timbro reale.
Gli ex notabili liberali, alcuni industriali e gran parte dell’alto comando militare applaudirono. Pensarono di addomesticare Mussolini. Lui li ripagò con un ventennio che cancellò libertà politiche, sindacati, opposizioni. Impiantò il culto della personalità e trasformò il Parlamento in un teatrino. Ci regalò le leggi razziali del 1938, che cacciarono dalle scuole e dai posti di lavoro migliaia di cittadini italiani di religione ebraica, umiliati, perseguitati, deportati, sterminati. Ci trascinò nella follia della guerra imperialista, dall’Etiopia alla Spagna, e alla fine su quella che definì un’alleanza d’acciaio, rivelatasi cartapesta bagnata dal sangue di milioni di europei.
Il poeta Trilussa, con la sua ironia che sapeva colpire più di qualsiasi comizio, disse una frase rimasta celebre nelle memorie degli antifascisti: “Er fascismo l’ha inventato Christo: prima te mena e poi te perdona.” Non gli fu permesso di pubblicarla liberamente, ma circolava lo stesso, perché la verità trova sempre un varco.
E adesso arriva la parte più amara del ricordo. Perché quel passato, che dovrebbe farci tremare, non è affatto archiviato. L’Italia, nel 2025, ha un governo guidato da un partito che porta l’eredità diretta del Movimento Sociale Italiano, erede a sua volta del fascismo repubblichino. Si gioca con le parole, ci si arrampica sugli specchi: “post-fascisti”, dicono. Come se bastasse aggiungere un prefisso per cancellare la radice della Storia. Come se bastasse cambiare simboli senza cambiare la sostanza. Si dichiara di ripudiare il fascismo e allo stesso tempo ci si rifiuta di condannarlo senza ambiguità, si minimizzano le sue colpe, si evoca l’ordine, la nazione, la tradizione come se fossero valori innocui, sganciati dalle violenze che li hanno macchiati.
Ogni anno, a Predappio, manipoli di imbecilli nostalgici si vestono di nero e sfilano sotto il sole come se quel passato fosse stato un sogno interrotto e non un incubo. I saluti romani, i busti del duce, la retorica militarista. Una mitologia che fa a pugni con le rovine a cui Mussolini condannò l’Italia. Chi compie quei gesti non esprime solo ignoranza. Esprime disprezzo per le vittime del fascismo e una complicità silenziosa con l’idea stessa di dittatura.
Le democrazie muoiono con l’indifferenza. Si inizia accettando un piccolo strappo alla libertà, poi un altro, poi la normalizzazione dell’intolleranza. Ci convinciamo che siano solo eccentricità. Nel frattempo, chi non conosce o finge di non conoscere la Storia lavora per riscriverla.
Il 28 ottobre non è una ricorrenza qualunque. È la sveglia che suona per ricordarci che il fascismo fu la massima sciagura per l’Italia e per l’Europa. Vite spezzate, città distrutte, dignità calpestata. È la prova, ogni anno, che la memoria non può diventare una fotografia ingiallita.
Nessuna revisione della Marcia su Roma. Nessun occhio chiuso davanti ai preoccupanti segnali del presente. Il fascismo non è morto se qualcuno ancora lo rimpiange. E la Storia, quando viene ignorata, torna sempre a bussare. Anche se magari non porta più gli stivali, la camicia nera e il manganello.
... Rob Jetten ...
L’uomo che vedete nell’immagine si chiama Rob Jetten. Ha 38 anni, è olandese, europeista, ambientalista, liberale.
E ieri, dopo una grande rimonta, ha fatto una cosa enorme: ha battuto l’estrema destra di Geert Wilders, alleato di Matteo Salvini. Quella che voleva chiudere le moschee, bandire il Corano e portare l’Olanda fuori dall’Europa. Quella che sui manifesti, pochi anni fa, scriveva “nemmeno un centesimo all’Italia”.
E sapete come ha vinto? Non parlando di muri, ma di case. Di clima, di lavoro, di futuro.
Ha fatto una campagna pulita, positiva, piena di fiducia. E gli olandesi lo hanno premiato.
Oggi, mentre in mezza Europa crescono i bulli della politica, uno di loro è caduto. E a batterlo non è stato un altro urlatore, ma un ragazzo che ha avuto il coraggio di restare normale:
“Abbiamo condotto una campagna molto positiva perché vogliamo liberarci di tutto il negativismo che l’Olanda ha avuto negli ultimi anni. Voglio riportare l’Olanda nel cuore dell’Europa perché senza la cooperazione europea noi non andiamo da nessuna parte”, ha dichiarato, escludendo qualsiasi collaborazione con l’estrema destra.
Ogni tanto, una buona notizia.
Un minuto di silenzio per Salvini.
... Bologna 0 Torino 0 ...
Il Bologna rimane in controllo nel primo tempo, ma sono i Granata a mancare l’occasione del vantaggio con Adams che tira da posizione ottimale ma trova la traversa, lasciando il risultato immutato | Serie A ENILIVE 2025/26
Bologna - Torino 0-0
Sarò anziano, ma passare il pomeriggio del mercoledì sapendo che la sera ci sarà una partita mi fa ritornare alla mente le emozioni lontane lontane di Coppa. Certo qualche volta si giocava la Coppa Italia, ma i veri mercoledì erano quelli Europei. Voi ragazzi non li ricordate nemmeno. Se poi si giocava fuori, in giro per campi lontani, chi non poteva, per lavoro o altre problematiche, seguire la squadra, viveva nella speranza di un collegamento radio decente (giocando tutti in contemporanea non c'era che da aspettare uno sporadico intervento del radiocronista). E così passavamo i mercoledì con la squadra in trasferta (quando era in casa no, non si poteva mancare, e il Comunale e dopo il Delle Alpi ribollivano di cuori granata). Oggi sembra un po' quel tempo. La trasferta a Bologna è difficile, ma arriva nel momento giusto, quello dopo alcune prestazioni incoraggianti e senza il patema della necessità della vittoria, che la vera partita impegnativa per i nervi e la tensione sarà quella col Pisa. Questa sera guardo la partita con gli amici del Toro Club Giorgio Ferrini di Nichelino e del Granducato di Lussemburgo, ve li saluto tutti, e mi sembra d'essere tornato a quelle notti europee.
La partita inizia con qualche cambio di formazione rispetto al solito, Baroni inserisce Ilic e Gineitis e fa giocare solo Che Adams di punta. Nel primo quarto d'ora non succede nulla. I granata tengono con relativa tranquillità il campo. Clamorosamente, intorno al ventesimo Adams prende una traversa clamorosa, su un errore della difesa bolognese. Un errore, o un sfortuna , che potrebbe pesare molto. Nell'azione seguente è Paleari a fare una grande parata andando a prendere nel sette un tiro di Likoiannis. Dopo le due azioni ritorna a non succedere più nulla. Finisce il primo tempo con un certo rimpianto per la traversa, unica vera occasione, e con il rammarico di due ammonizioni inutili. Il Bologna attende, con evoluzioni e sceneggiate programmate, che l'arbitro curi le ferite di Firenze. Inizia il secondo tempo e Paleari fa un'altra parata quasi decisiva. Per qualche minuto i granata sono meno reattivi e i felsinei iniziano a macinare un po' di gioco, inserendo Castro e riscaldamdo Orsolini. Ma Baroni prende le giuste contromisure. Entrano Ismajili, Vlasic e Simeone al posto di Tameze, Adams e Gineitis e la partita pian piano viene presa in mano dalla squadra granata. Ngonge prende una gomitata, abbastanza volontaria. Il giocatore bolognese dovrebbe d'essere ammonito, ma non succede nulla. I granata si svegliano a tratti, mentre i Bologna inserisce tre giocatori, tra cui Orsolini. Pian piano Il Torino rischia il vantaggio con delle belle azioni ispirate da un sontuoso Casadei. Negli ultimi 10 minuti aumentano le rimostranze, sinceramente ingiustificate per questa partita, dei bolognesi. I granata, giustamente, non concedono occasioni agli attaccanti bolognesi, e non li lasciano entrare in area, per non rischiare. All 85 entra Zapata al posto di un grande Ngonge. Negli ultimi minuti l'arbitro si accorge che non c'è più molto tempo e fischia tutto a favore dei felsinei, ma non basta a fare vincere il Bologna, visto che non tira mai. Peccato per la traversa, pochi tiri porta per noi, un paio per loro... Insomma, si torna a casa con un punticino guadagnato, s con qualche rimpianto. Se c'è un dato negativo è quello della pericolosità di questa squadra in area avversaria. Gli attaccanti sono di buon livello, e sembra , a tratti, che anche i centrocampisti non siano così malvagi. Ma tirare in porta è cosa rara. Troppo.
Claudio Calzoni
#controcalcioradioweb
#SerieA
#toro #granata #calcio #torino #TorinoFC
mercoledì 29 ottobre 2025
... Catherine Connolly ...
𝐂𝐨𝐧 𝐂𝐚𝐭𝐡𝐞𝐫𝐢𝐧𝐞 𝐂𝐨𝐧𝐧𝐨𝐥𝐥𝐲 𝐥’𝐈𝐫𝐥𝐚𝐧𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐜𝐢𝐟𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐬𝐟𝐢𝐝𝐚 𝐥’𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐢𝐚𝐫𝐦𝐨
Articolo di Carlo Gianuzzi
Catherine Connolly è la terza donna a essere eletta presidente dell’Irlanda, Uachtarán na hÉireann, dopo Mary Robinson nel 1990 e Mary McAleese nel 1997. Dall’11 novembre prossimo succederà quindi a Michael D. Higgins che conclude in questi giorni il suo secondo mandato da Capo dello Stato. L'elezione del 24 ottobre scorso ha visto il trionfo di Connolly, indipendente sostenuta da un ampio schieramento di sinistra, su Heather Humphreys, candidata di Fine Gael (centro destra), che governa il Paese insieme a un altro partito conservatore, Fianna Fáil, e a un gruppo di deputati indipendenti.
Il risultato finale di questa corsa a due è andato addirittura al di là delle previsioni dei sondaggi, già ampiamente favorevoli a Connolly, 68 anni, originaria di Galway, avvocata e psicologa, che attualmente siede al Dáil Éireann, la Camera dei deputati. La candidata sostenuta dalle sinistre ha vinto con un sensazionale 63,4% dei voti di prima preferenza contro il 29,5% ottenuto dalla sua avversaria Heather Humphreys, 65 anni, funzionaria di banca, già deputata alla Camera per il partito Fine Gael ed ex ministra, che ha guidato diversi dicasteri fra il 2014 e il 2024.
Jim Gavin, il cui nome era presente sulla scheda elettorale nonostante si fosse ritirato dalla corsa a inizio ottobre, ha preso il 7,1%. Il candidato di Fianna Fáil, travolto dalla diffusione della notizia di una somma di denaro (3.300 euro) mai restituita al suo legittimo titolare, un suo ex inquilino, si è infatti ritirato dalla competizione oltre la data utile per chiedere l'eliminazione del suo nome dalla scheda. Per questa ragione, i voti andati a quello che un commentatore ha definito un cavallo senza fantino sono stati regolarmente conteggiati. Dal momento che il sistema elettorale in vigore per le Presidenziali irlandesi è una variante del sistema proporzionale con voto singolo trasferibile, se nessuna delle due candidate avesse superato la soglia del 50%, i voti di seconda e terza preferenza di Jim Gavin sarebbero stati redistribuiti al secondo spoglio.
Gli altri due dati importanti, emersi dal voto, sono quelli relativi all'affluenza e alla percentuale di schede nulle, ispirate da una campagna organizzata dall'estrema destra per l'annullamento del voto.
L'affluenza è stata del 45,8%, in leggero aumento rispetto al dato delle precedenti elezioni presidenziali del 2018 (43,9%), ma in calo rispetto alla percentuale del voto del 2011 (56,1%), quello che aprì il primo settennato di Michael D. Higgins.
Nel dato dell'affluenza, tuttavia, occorre tenere conto della percentuale estremamente alta di schede nulle (12,9%), pari rispettivamente a 10 e 12 volte i dati del 2018 e del 2011.
La prossima Presidente d'Irlanda nasce in un quartiere popolare di Galway da una famiglia di umili origini; il padre, falegname, costruisce le "hooker", le tradizionali barche da pesca di cui si vede una raffigurazione nello stemma della "città delle tribù", e dopo la morte della moglie (avvenuta quando Catherine ha nove anni) si trova a crescere da solo una famiglia di sette ragazzi e sette ragazze.
Dopo avere conseguito la laurea in psicologia, Catherine Connolly si trasferisce a Leeds, in Gran Bretagna, da cui ritorna con un master in psicologia clinica. Lavora come psicologa per alcuni anni, fino al 1991, quando, conseguita una seconda laurea in giurisprudenza presso la sua vecchia università, diventa avvocata e inizia a esercitare la professione forense, dalla quale si ritira nel 2016, in corrispondenza con la prima elezione alla Camera dei deputati.
Nel frattempo, infatti, su insistenza dell'attuale Presidente, Michael D. Higgins, ha iniziato a fare politica attiva nel Partito laburista e nel 1999 è entrata nel consiglio comunale della sua città. Lascia il partito nel 2007 dopo essersi vista negare la candidatura per le elezioni generali di quell'anno in tandem con Higgins, in aperta polemica con la dirigenza laburista e con il suo vecchio mentore, che accetta di essere candidato da solo.
Dopo la prima elezione al Dáil Éireann, conserva il seggio parlamentare nelle successive elezioni del 2020 (quando viene anche eletta vice presidente della Camera, prima donna a occupare la carica nella storia dello Stato) e del 2024.
Catherine Connolly ha un profilo di sinistra che, per gli standard della politica italiana, potremmo definire radicale. L'impegno sui temi sociali (il diritto alla casa, la salvaguardia del sistema sanitario, il diritto d’asilo per le persone migranti) e, in politica estera, il suo convinto pacifismo e la ferma condanna del genocidio del popolo palestinese ("reso possibile e finanziato da denaro americano") la collocano in continuità con l'attuale inquilino di Áras an Uachtaráin, la residenza presidenziale di Dublino.
Se possibile, Catherine Connolly ha un profilo addirittura più politico di quello di Michael D. Higgins, che, nel corso dei suoi due mandati da Capo dello Stato, si è impegnato con grande passione nella promozione delle arti e della lingua irlandese.
Convinta sostenitrice della storica neutralità dell’Irlanda, Connolly ritiene intoccabile il principio del "triplo lucchetto", che consente il dispiegamento del personale militare irlandese nelle missioni internazionali a condizione che queste siano state approvate dall’Onu, dal Dáil Éireann e dal Governo irlandese.
Se rispetto alla Palestina il suo atteggiamento è pienamente in linea con la maggioranza della popolazione irlandese, sulla crisi in Ucraina la sua posizione è più guardinga. Pur condannando l’invasione russa, Catherine Connolly ha mantenuto un atteggiamento decisamente ostile al piano di riarmo europeo e, in particolare, critico della posizione della Germania, che durante la campagna elettorale ha paragonato a quella degli anni ’30 del secolo scorso, accusando Berlino di volere risollevare la propria economia attraverso la corsa agli armamenti.
Rispetto all'Unione europea, tuttavia, la sua posizione è più articolata. In un'intervista al quotidiano Irish Independent, lo scorso agosto, ha detto: «Non mi considero un'euroscettica. Sono una convinta europeista, da sempre. Da tempo, tuttavia, sono preoccupata per il neoliberismo sfrenato e la militarizzazione dell'Ue».
In merito al confine, Catherine Connolly si è espressa a favore della riunificazione dell'Irlanda e ha detto che il governo dovrebbe prepararsi senza indugio al cambiamento costituzionale: «Ritengo che dovremmo essere uniti. Siamo un paese minuscolo; non avremmo mai dovuto essere divisi. Vorrei che questo obiettivo fosse conseguito nel rispetto e con il consenso di tutti, senza escludere nessuno. Un paese diviso non ha semplicemente senso». Questa posizione ha convinto Sinn Féin, negli ultimissimi giorni prima della chiusura ufficiale delle nomine, ad abbandonare l'idea di avanzare una propria nomina per la Presidenza e sostenere Catherine Connolly.
La decisione del partito repubblicano è stata definita dalla sua presidente, Mary Lou McDonald, un "game changer", cioè un vero punto di svolta, e senza dubbio l'appoggio del primo partito (nei sondaggi) del Paese ha dato un vantaggio importante alla candidata sostenuta dalle sinistre.
Prima ancora dell'intervento di Sinn Féin, tuttavia, la differenza per Catherine Connolly la stava facendo una macchina elettorale estremamente efficiente che ha saputo mobilitare e galvanizzare un gran numero di volontari, in gran parte giovani, che hanno condotto una campagna totale, nei quartieri e sul web, usando al meglio pratiche tradizionali (come il porta-a-porta, che in Italia è in disuso ormai da tempo) e comunicazione mediatica.
Non da ultimo, un contributo importante l'ha dato la stessa candidata, che viene generalmente ritenuta un'ottima comunicatrice e alla quale la maggior parte dei commentatori ha riconosciuto la capacità di difendere le proprie posizioni, anche le più "difficili" e potenzialmente controverse, con grande convinzione e senza fare passi indietro.
Dopo avere annunciato pubblicamente la sua intenzione di candidarsi alla carica di Presidente, lo scorso 11 luglio, Catherine Connolly ha raccolto le 20 firme necessarie alla nomina da altrettanti membri dei due rami del Parlamento. Quindi, ha messo in moto la macchina organizzativa che ha mobilitato migliaia di volontari, finanziandola con la raccolta di piccole donazioni economiche (in media, di 33 euro) e usando, accanto agli incontri pubblici nelle sale comunali e il volantinaggio fra i cittadini, i post sui social e gli interventi in podcast.
Il primo partito a dichiarare il proprio appoggio per Catherine Connolly è stato quello dei Social Democrats (nati nel 2015 come scissione a sinistra dal Partito laburista), seguito una decina di giorni dopo da People Before Profit (formazione altrettanto recente, nata dai movimenti di base, come quelli impegnati nelle lotte per la casa). A fine luglio, a seguito di una consultazione interna, i laburisti hanno superato le proprie riserve (legate soprattutto alla fuoriuscita di Catherine Connolly dal partito, come ricordato prima, nel 2007) e dichiarato il proprio appoggio per la candidata. La decisione è stata sostenuta convintamente dalla segretaria laburista Ivana Bacik, nonostante i malumori di alcuni settori del partito che sono sfociati in una pubblica protesta da parte dell'ex segretario Alan Kelly. Gli ultimi due partiti a dichiarare il proprio appoggio a Connolly, intorno al 20 settembre, sono stati i Verdi (anche qui, nonostante le perplessità legate al profilo troppo "radicale" della candidata) e, come già detto, Sinn Féin.
Il ruolo del Presidente irlandese è sostanzialmente di rappresentanza; non ha funzioni decisionali o di definizione delle politiche dello Stato. I poteri e le funzioni che esercita sono stabiliti nell’Articolo 13 della Costituzione del 1937. Tuttavia, a partire dal 1990, grazie a Mary Robinson (figura di grande carisma con una lunga militanza socialista e femminista alle spalle) e, soprattutto, dopo i due settennati dell'attuale Uachtarán, Michael D. Higgins, il profilo del Presidente si è fatto decisamente più politico e influente, come ha confermato il crescente gradimento popolare.
Questo, unito alle forti convinzioni di Catherine Connolly, ha scatenato un certo dibattito sui possibili contraccolpi a livello di immagine sulla scena internazionale (ad esempio, rispetto a un'eventuale futura visita ufficiale in Irlanda del Presidente Usa Donald Trump e alle conseguenti ricadute sui rapporti politici e commerciali fra i due Paesi).
D'altra parte, la prova di unità delle forze che hanno sostenuto Catherine Connolly in campagna elettorale e lo straordinario successo ottenuto fanno sperare nella possibilità che quelle forze possano prepararsi alle prossime elezioni generali con un fronte unito di sinistra in grado di mandare a casa i due partiti di centro destra, Fine Gael e Fianna Fáil, che hanno dominato la politica dell'Irlanda del Sud nei cent'anni della sua esistenza.
La cosa non è ovviamente scontata. Un conto è fare causa comune per eleggere il Capo dello Stato; un altro è approvare un programma comune articolato su temi, dall'immigrazione alla crisi degli alloggi, dalla politica fiscale ai temi ambientali, nei quali le differenze (soprattutto fra Sinn Féin e gli altri partiti) esistono e potrebbero risultare non facilmente gestibili. O, ancora, decidere come affrontare le urne, se con candidature condivise oppure con accordi di de-esistenza, indicazione esplicita di seconde preferenze sulla scheda elettorale e così via.
Infine, merita dire due parole sull'effetto che la schiacciante vittoria di Catherine Connolly ha avuto sui due partiti di governo. Per Fianna Fáil, queste elezioni presidenziali hanno rappresentato una débâcle epocale. Le circostanze intorno all'abbandono di Jim Gavin hanno sollevato forti perplessità sul processo di selezione e agitato sia l'elettorato sia i quadri locali e anche diverse figure di primo piano del partito. Il segretario Micheál Martin, che ha fortemente voluto, e secondo molti, imposto la candidatura di Jim Gavin, non ha potuto fare altro che scusarsi (questo già all'indomani del ritiro del candidato dalla corsa) e promettere cambiamenti nel processo di selezione delle candidature. Nonostante questo, la sua posizione è al momento decisamente traballante. Il leader di Fianna Fáil (che, è bene ricordarlo, è anche Taoiseach, cioè Presidente del Consiglio) non sembra intenzionato a soccombere senza reagire. È notizia di mercoledì (29 ottobre) che nel cerchio magico di Micheál Martin stia girando un elenco dei "cattivi", cioè una lista dei parlamentari considerati "ribelli" e quindi potenziali minacce alla sua leadership.
Acque agitate anche intorno a Fine Gael, pur senza alcuna minaccia immediata alla posizione del segretario Simon Harris, attuale vicepremier. Come nel campo dei nemici-amici di Fianna Fáil, anche qui si lamenta una certa mancanza di trasparenza nel processo di selezione delle candidature e l'inadeguatezza della macchina organizzativa che ha gestito la campagna elettorale. All'inizio della settimana l'eurodeputato Seán Kelly, che lo scorso agosto ha chiesto di potersi candidare, riconoscendo tuttavia di lì a poco di non avere il sostegno necessario, non ha usato mezzi termini e ha accusato il partito di averlo "fatto fuori" e di avere calato dall’alto (per la precisione, di avere "unto") al suo posto Heather Humphreys.
Tornando alla vincitrice delle elezioni, l'inaugurazione ufficiale di Catherine Connolly come Presidente è prevista per martedì 11 novembre 2025.
La cerimonia avrà luogo all’interno del Castello di Dublino, nel centro della capitale irlandese, e si aprirà con il giuramento solenne, che secondo la tradizione sarà pronunciato nella prima lingua ufficiale del Paese, il gaelico (che Catherine Connolly parla fluentemente, pur avendolo imparato dopo i quaranta anni).
Successivamente, la decima Presidente d'Irlanda firmerà la dichiarazione ufficiale di assunzione dell’incarico e terrà il suo discorso inaugurale, nel quale presumibilmente illustrerà le linee guida del suo mandato e i temi che intende portare avanti.
Quindi, riceverà il sigillo presidenziale e assumerà a tutti gli effetti il ruolo di Uachtarán na hÉireann.
L’autore: Carlo Gianuzzi è collaboratore di Radio Onda d’Urto e autore del podcast "Diario d’Irlanda - An Irish Journal", disponibile su tutte le principali piattaforme
... Zohran Kvame Mamdani ...
Il suo nome completo è Zohran Kwame Mamdani, ha 34 anni e il suo nome comincia a farsi strada negli Usa e nel mondo come la nuova, forse ultima, speranza “liberal” capace di fermare il trumpismo dilagante.
Mamdani è tutto quello che Trump e i Maga detestano e temono.
Nato a Kampala, in Uganda, da padre ugandese di origini sudafricane e madre indiana.
Il papà, Mahmood, è un intellettuale musulmano originario del Gujarat, tra i più importanti studiosi di post-colonialismo al mondo. La madre, Mira Nair, è una regista indiana di fama internazionale.
A cinque anni Mamdami si trasferisce con la famiglia a Città del Capo, a sette arriva a New York, dove si forma tra le scuole pubbliche del Bronx e del Queens.
Nel 2014 si laurea in studi africani al Bowdoin College, nel Maine, dove fonda anche il gruppo “Students for Justice in Palestine”.
Comincia così una brillante carriera da attivista e da politico. Sostenitore di Sanders prima, poi eletto direttamente per tre volte come rappresentante dell’Assemblea di New York.
Infine, pochi mesi fa, l’annuncio della corsa a sindaco di New York con una campagna elettorale innovativa, costruita tutta (o quasi) nei quartieri popolari, sostenuta da piccole donazioni e con una promessa che suona rivoluzionaria: trasformare la città più ricca ed esclusiva d’America in un luogo abitabile, accessibile, a misura d’uomo.
Nel giro di pochi mesi Mamdami ha portato al centro temi che erano completamente spariti dal dibattito pubblico: case accessibili per tutti, blocco degli affitti fuori controllo, trasporto pubblico gratuito, supermercati municipali per abbassare i prezzi dei beni essenziali, tassazione progressiva sui grandi patrimoni e sulle corporation, politiche ambientali radicali e sostenibili, scuole verdi e riduzione delle emissioni.
E, al tempo stesso, non ha mai avuto paura di chiamare quello che stava avvenendo a Gaza con il suo nome: “Genocidio”.
Uno così a sinistra a New York non si era mai visto.
Quella del 4 novembre si annuncia come una delle elezioni più importanti della storia recente americana perché potrebbe sancire, assieme al nuovo sindaco di New York, anche la nascita di un nuovo leader, uno che non urla e non divide, non odia, giovane, multietnico, musulmano, popolare e mai populista, socialista, progressista, radicale e, insieme, capace di parlare a tutte e a tutti.
Se gli Stati Uniti dei 7 milioni di “No Kings” hanno una speranza di liberare di nuovo l’America da Trump, quella speranza ha il volto e il nome di Zohran Kwame Mamdani.
Lorenzo Tosa.
... Francesca Albanese ...
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Ieri sera, a diMartedì, Floris ha chiesto a #FrancescaAlbanese di commentare i nuovi bombardamenti israeliani sulla Striscia di #Gaza:
“Lo dico senza sosta dal 14 ottobre 2023: Israele non vuole interlocutori palestinesi di alcun tipo e questo è il punto.
Non ho creduto neanche per un momento che si sarebbe arrivati a un vero cessate il fuoco, tantomeno a un accordo di pace, visti quali erano i presupposti ed è per questo che insisto.
Il quadro normativo che utilizziamo ormai in tanti, anche la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite su Israele, concludono tutti che si tratta di genocidio, che è quello che permette di capire che l’intento è quello di distruggere un popolo in quanto tale.
Perché? Per prendersi la terra.
Quindi si è visto finalmente, come sostenevamo in tanti da tanto, che gli ostaggi non c’entravano nulla e che bisogna fermare Israele. Questo è l’unico modo per fermare la carneficina.
Guardate, io vi sto parlando da Sudafrica. Il Sudafrica segregava la gente, poi la lasciava un po’ scannarsi tra di loro e quando uscivano fuori si trovavano schiacciati dall’apartheid.
Israele mantiene nei confronti dei palestinesi un regime di apartheid, se non riusciamo a capire che questo è il quadro fattuale e legale di riferimento, non avremo mai nulla da offrire a questa gente e continueremo a parlargli addosso.
Il grosso problema che noi non vogliamo capire è che gli Stati Uniti non sono questo fedele alleato che continuiamo a credere. A meno che non vogliamo continuare a vivere da vassalli”.
#qualcosadisinistra
martedì 28 ottobre 2025
... l'Onda Nera avanza!! ...
ANCORA VIGLIACCHE AGGRESSIONI FASCISTE CONTRO GLI STUDENTI A TORINO:
SOLIDARIETÀ E SOSTEGNO A.N.P.I., LA SCUOLA È ANTIFASCISTA
Ancora un'altra aggressione fascista nelle scuole
L'ANPI di Grugliasco condanna con fermezza l'aggressione fascista subita dagli studenti delle scuole superiori di Torino e Pinerolo, così come l'azione neonazista in una scuola di Genova.
Questi atti di violenza squadrista, portatori di un chiaro intento intimidatorio, chiamano alla riflessione sull'uso ormai sistematico che le organizzazioni neofasciste fanno della violenza e sul loro rapporto con il potere e le istituzioni.
Uno degli elementi costitutivi del fascismo è storicamente il suo rapporto con le istituzioni: anche oggi i neofascisti vorrebbero ostacolare e impedire l'organizzazione dal basso come i collettivi studenteschi, le autogestioni e le occupazioni, utilizzando anche i loro ruoli istituzionali per svuotare di sostanza la democrazia e colpire chi non si piega oggi come ieri alla loro volontà, soprattutto a scuola e all'università in quanto luoghi di educazione Antifascista e di circolazione della conoscenza ai fini di cambiamenti sociali.
Questa è la scuola della Costituzione: i neofascisti la colpiscono proprio nel suo cuore pulsante di partecipazione e mobilitazione per una società fondata sul diritto e la pace contro una società sempre più militarizzata in funzione della guerra.
Esprimiamo la nostra più profonda vicinanza alla comunità scolastica e in particolare agli studenti feriti al liceo Primo Artistico e allo studente ammanettato e portato via dalla polizia al liceo Einstein di Torino.
Non ci arrendiamo: chiediamo alla giustizia di fare il suo corso, alla politica e alla società civile una netta condanna di questa aggressione e alle autorità competenti di intervenire per arginare l'ondata nera.
Oggi più che mai serve una scuola antifascista e democratica, che garantisca agli studenti gli strumenti per vivere in modo dignitoso le sfide della quotidianità.
Fuori i fascisti dalle scuole!
#torino #scuola #ANPI #storia #memoria #25aprile #liberazione #partigiani #antifascismo #antifascista #resistencia #Resistente #resistenza
Avviso ai naviganti: le aggressioni fasciste non cadono dal pero.
Roma 25 ottobre. Tufello, quartiere popolare di Roma, il liceo Bramante è in stato di occupazione. Da giorni gli studenti tengono viva la scuola. Hanno occupato per la Palestina, per affermare che la solidarietà non è un reato, che la giustizia non ha confini.
Precedentemente tra la notte del 23 e 24 ottobre, quindici individui riconducibili ad ambienti di estrema destra fanno irruzione nella scuola. Entrano con la forza, gridano duce e sfasciamo tutto.
Intonano cori neofascisti, lanciano bottiglie, disegnano svastiche sui muri del piano terra. Gli studenti li respingono Ma uno viene ferito mentre prova a chiudere una porta.
Poi l'epilogo della notte successiva. Tornano: volto coperto, sassi, bottiglie, cassonetti usati per forzare le porte e abbattere l'unica barricata a protezione degli occupanti, dalla quale cercano ad ondate a colpirli.
Come mai, i fascisti operano indisturbati fino alle ore cinque del mattino e poi si dileguano?
Genova stessa notte: gruppo armato di spranghe entra nel liceo scientifico Da Vinci, occupato dagli studenti.
Stesso copione: Viva il duce e devastano aule e laboratori, lasciano svastiche e vetri infranti dappertutto.
La realtà a cui non risponde il ministero degli interni è che le pacifiche occupazioni studentesche devono difendersi dalla materializzazione di un nemico esterno e non meglio individuato che agisce senza problemi.
Roma e Genova, amministrazioni di centrosinistra congiunte da aggressioni in un filo conduttore inequivocabilmente nero.
È una strategia e eversiva perché non si tratta più di episodi isolati.
A Roma, si è aggrediti per una felpa antifascista al Brancaccio,bcome ad Alessandro Sahebi, giornalista. O perché si è gay del circolo Mieli al Testaccio.
Il 17 settembre via Giovanni Lanza, squadristi fascisti aggrediscono con caschi e coltelli i compagni che tornavano dal corteo a sostegno della Palestina e un ragazzo è stato ricoverato in ospedale per gravi lesioni alla testa.
5 ottobre Roma Piazza Vittorio, trenta fascisti armati di bastoni e caschi irrompono in un bar dove alcuni partecipanti alla manifestazione nazionale a sostegno di Gaza riposavano. Esito: locale devastato al suono di cori fascisti e botte a chi indossava una kefiah o una bandiera palestinese.
Le forze dell'ordine non ci sono o arrivano "sempre" a fatti compiuti.
Un ripetersi di aggressioni per le quali , chi ha accusato strumentalmente a vuoto e a reti unificate la sinistra, di violenza, guarda con cinica indifferenza e complicità a tutto questo.
Non una riga di condanna e di solidarietà contro questo fatti è arrivata dai partiti di destra e dalla Meloni.
Siamo dentro la restaurazione di un calibrato clima di delegittimazione politica degli avversari e di totale impunità, che inganna la memoria storica con un revisionismo storico da regime.
A seguire, due giorni fa, mentre nelle città studenti e cittadini vengono aggrediti, a Predappio, oltre mille fascisti marciano impunemente per omaggiare la memoria del dittatore, traditore e assassino Benito Mussolini.
Alla testa del corteo, le tronfie pronipoti e come da copione tra gli organizzatori artefici di Forza Nuova.
La tracotanza e la violenza fascista trova facile sponda e consenso nel governo Meloni e quindi prima di subito serve un rinnovato antifascismo militante.
CONDANNA DEL SALUTO FASCISTA: ALLORA COSTITUZIONE E LEGGI VALGONO AMCORA? Chissà se Benito La Russa e Nordio apprezzeranno la sentenza.
Riporto il post Di Lorenzo tosa:
“Ogni tanto una bella, giusta notizia.
È stato condannato in appello a sei mesi di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici l’allora consigliere comunale di Verona Andrea Bacciga, prima civico poi Lega e oggi Fratelli d’Italia.
Il motivo?
Per aver fatto il saluto romano in Consiglio comunale, in risposta a tre attiviste di “Nonunadimeno”, che erano in aula nel luglio 2018 per combattere due mozioni antiabortiste.
Completamente ribaltata l’assoluzione in primo grado del tribunale di Verona.
Questa sentenza, simbolica, importantissima, applica finalmente l’articolo 5 della legge Scelba nei confronti di chi “compie manifestazioni del partito fascista”.
E ribadisce una cosa fondamentale: fare il saluto fascista è reato.
Non solo.
Oltre alla pena, Bacciga dovrà risarcire 5000 euro all’Aned, associazione legata agli ex deportati nei campi di concentramento, e rispettivamente 800 euro a ognuna delle tre attiviste di Nonunadimeno, che si erano costituiti parte civile, oltre alle spese legali.
Ogni tanto un po’ di chiarore nelle tenebre.”.
Certo, sono passati ottant’anni dalla sconfitta dei nazi-fascisti e la Costituzione ne ha sancita la definitiva e totale esclusione dalla vita sociale del nostro paese. ma, come si sa, le idee non muoiono mai. E i fascisti ci sono ancora, eccome. E stanno rialzando la testa! Proprio per questo la sentenza di Verona è particolarmente importante, perché ricorda a tutti che ci sono delle leggi da rispettare.
XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana:
"È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.".
Su questo testo sono intervenute le precisazioni di Due leggi: “legge Scelba”, del 1952; “legge Mancino” del 1993, che prevedono la punizione di:
. comportamenti discriminatori e violenti ispirati a ideologie di odio razziale, etnico o religioso — spesso legate a movimenti neofascisti o neonazisti;
. chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico,
• chi istiga alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi,
• chi partecipa o organizza gruppi, associazioni o movimenti che perseguono tali fini,
. La l’esposizione di simboli o l’esecuzione di gesti (come il saluto romano) se hanno finalità di propaganda fascista o razzista, o se sono usati per istigare odio o discriminazione.
... retorica diplomatica ...
𝐒𝐨𝐯𝐫𝐚𝐧𝐢𝐬𝐭𝐢 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐝𝐮𝐭𝐚 𝐝𝐢 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐜𝐨𝐧𝐬𝐨𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞: 𝐌𝐞𝐥𝐨𝐧𝐢 𝐫𝐢𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚 𝐎𝐫𝐛𝐚́𝐧
Il #buongiorno di Giulio Cavalli
L’incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán a Roma è stato un esercizio di retorica diplomatica travestito da dialogo politico. La premier italiana si è presentata come garante dell’unità europea, ma ha evitato accuratamente ogni confronto reale con le posizioni di Budapest su Ucraina e Russia. Orbán continua a sostenere che «le sanzioni sono un errore», Meloni ripete che «l’Italia resta dalla parte di Kiev» - eppure entrambi sanno di convergere su un pragmatismo che guarda agli interessi economici e alle mosse di Donald Trump.
Dietro le dichiarazioni ufficiali, resta l’ambiguità. L’Italia non spinge più, da tempo, per un rafforzamento delle sanzioni, e la premier ha accolto l’alleato ungherese proprio mentre Bruxelles discute il nuovo pacchetto di misure contro Mosca. Orbán difende i suoi rapporti energetici con il Cremlino, Meloni li tollera in nome del “realismo”.
Sul piano politico, l’intesa è evidente: entrambi coltivano un’idea di Europa ridotta a somma di nazioni autosufficienti, utile solo quando finanzia l’industria della difesa o concede margini al potere interno.
Meloni parla da europeista, ma agisce da nazionalista opportunista. Cerca di compiacere Washington, non irritare Budapest e restare visibile a Bruxelles. È una politica che non decide: misura le convenienze, cambia lessico a seconda dell’interlocutore e chiama “coerenza” ciò che è soltanto calcolo.
In questo equilibrio instabile, l’Italia finisce per apparire come l’anello debole dell’Unione: cortese con chi la isola, silenziosa con chi la comanda. Una postura che non costruisce peso politico, ma solo dipendenza.
Ungheria: quando la legge diventa strumento di oppressione
Negli ultimi quindici anni, Viktor Orbán e il suo partito Fidesz hanno trasformato l’Ungheria in un laboratorio di democrazia illiberale — un modello che svuota la forma dello Stato di diritto mantenendone la facciata.
Dietro la retorica della “sovranità nazionale” e dei “valori tradizionali”, si nasconde una sistematica demolizione delle libertà fondamentali.
Dal 2011, con la nuova Costituzione che ha concentrato il potere nelle mani dell’esecutivo, Orbán ha minato i contrappesi democratici:
ha indebolito la Corte Costituzionale, sostituendone i giudici con fedelissimi;
ha ridotto l’indipendenza dei media e perseguitato le ONG che ricevono fondi esteri;
ha imposto leggi discriminatorie contro le persone LGBTIQ+, fino a vietare la marcia del Pride e qualsiasi “rappresentazione” di diversità sessuale;
ha utilizzato la pandemia per governare per decreto, senza reali controlli parlamentari;
ha manipolato la legge elettorale, rendendo sempre più difficile una competizione politica equa.
Nel 2025, con l’ultimo emendamento costituzionale che riconosce solo due sessi e consente di revocare la cittadinanza a doppia nazionalità, Orbán ha compiuto un ulteriore passo verso un autoritarismo pienamente consolidato.
Tutto ciò accade nel cuore dell’Unione Europea, mentre Bruxelles continua a elargire fondi che alimentano il regime che viola sistematicamente i valori su cui l’Europa stessa si fonda.
L’Ungheria non è più una democrazia libera. È un avvertimento per tutti noi: i diritti non si perdono all’improvviso, ma si sgretolano, legge dopo legge, con l’indifferenza di chi pensa che “non ci riguardi”.
È tempo che l’Europa scelga da che parte stare — dalla parte della libertà, o dalla parte del potere.
È questo il modello che Giorgia Meloni vuole costruire in Italia?
Ma la domanda è: perché gli italiani le danno fiducia e il voto?
La risposta è semplice: per puro conformismo, voto FDI perché lo votano gli altri. Comitato di cittadini attivi e democratici in difesa della Costituzione
... P 20 ...
... stamane nostro blitz all'Oftalmico per riprenotare l'appuntamento di Maria Rosa: oggetto - iniezione intravitreale occhio sinistro.
lunedì 27 ottobre 2025
... il "filo" di Arianna! ...
ARIANNA MELONI, LA SORELLA CHE SISTEMA GLI AMICI NEI PALAZZI DEL POTERE: MERITOCRAZIA O CASTE FAMILIARE?
Eccoci qua, in questa Italia che sembra un film di serie Z dove i protagonisti sono sempre gli stessi: i Meloni.
Non parlo della premier Giorgia, che già ci ha abituato a proclami da eroina nazionale mentre il paese affonda. No, oggi tocca ad Arianna Meloni, la sorella maggiore, quella che da anni opera nell'ombra come un burattinaio discreto. 49 anni, romana doc, ex precaria della Regione Lazio per vent'anni (sì, proprio lei, "penalizzata" dal sistema, come dice Giorgia), e ora capo della segreteria politica di Fratelli d'Italia.
Un posto che non è un elemosina: delega alle tessere, influenza sulle nomine, e un ruolo chiave per far crescere il partito. Ma attenzione, non è solo politica: è il centro nevralgico dove si decidono i "collocamenti" giusti.
L'ultima bomba è esplosa con Report, quel programma Rai che da anni dà sui nervi ai potenti. Nella puntata del 26 ottobre, Sigfrido Ranucci ha tirato fuori i panni sporchi: Arianna che orchestra riunioni per piazzare amici e parenti in poltrone d'oro. Parliamo di nomine alla Rai (la TV di stato, per capirci), a Trenitalia, e chissà dove altro. Non è gossip da rotocalco: sono accuse pesanti, con nomi, date e incontri. E il tempismo? Proprio mentre il Garante della Privacy multa Report per 150mila euro (per "trattamento illecito di dati", ovvio), Agostino Ghiglia – membro del Collegio del Garante – viene pizzicato entrare nella sede di FdI in via della Scrofa, lo stesso giorno in cui si parla di Ranucci e dell'attentato subito dal giornalista. "Coincidenza?", direbbe qualcuno.
Ghiglia giura: "Ero lì per Bocchino, ho solo incrociato Arianna". Incrociato. Come no, in un palazzo dove lei regna sovrana.
Ma andiamo al sodo: Arianna non è nuova a queste storie. Da quando Giorgia è al governo, la sorella ha scalato posizioni a razzo. Nel 2023, nominata capo segreteria proprio per "gestire le tessere" e, di conseguenza, le alleanze interne. E gli amici? Oh, gli amici. Ex compagno Francesco Lollobrigida (sì, il ministro dell'Agricoltura, padre delle sue due figlie Vittoria e Rachele – separati ma uniti dal partito). Cugini, conoscenti, fedelissimi del cerchio magico: tutti sistemati con maestria. Ricordate le accuse estive? Alessandro Sallusti su Il Giornale titolava "Vogliono indagare Arianna Meloni", parlando di un complotto sinistro-giudiziario. Giorgia tuonava: "Sporchi attacchi alla mia famiglia!".
Ma i fatti? Riunioni per nomine pubbliche, influenza su aziende statali. Non è nepotismo? Non è quella "casta" che Fratelli d'Italia prometteva di abbattere?E qui sta il bello, o il brutto, a seconda di come la guardi. Arianna si dipinge come la "ribelle della famiglia", quella che non vuole riflettori ("Non mi candido", ripete). Eppure, eccola lì, a tessere reti per far lavorare "gli amici del partito".
Intanto, l'Italia reale? Precari veri, non di comodo, che sognano un posto fisso senza sorelle premier. Donne che, come dice lei stessa all'Atreju 2024, "devono essere aiutate perché avere figli non sia un limite al lavoro". Parole sante, Arianna.
Ma applicatele prima ai vostri "amici", no? O è solo per le telecamere?
In un paese dove la meritocrazia è un optional per i potenti, smettetela di predicare onestà e meritocrazia.
Povera Italia!!
... fino a che punto? ...
𝐈𝐧𝐝𝐢𝐩𝐞𝐧𝐝𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐦𝐚 𝐟𝐢𝐧𝐨 𝐚 𝐮𝐧 𝐜𝐞𝐫𝐭𝐨 𝐩𝐮𝐧𝐭𝐨: 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐯𝐚𝐜𝐲 𝐜𝐨𝐧 𝐭𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐚 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐚?
Il #buongiorno di Giulio Cavalli
Il 22 ottobre, il componente del Garante per la protezione dei dati personali, Agostino Ghiglia, entra nella sede nazionale di Fratelli d’Italia in via della Scrofa 39. La sera stessa il collegio del Garante vota per la maxi-multa da 150 mila euro nei confronti della trasmissione Report e di Sigfrido Ranucci.
Ghiglia spiega che il motivo dell’incontro era una presentazione libraria con Italo Bocchino e che ha soltanto «incrociato» Arianna Meloni. La sera successiva, l’autorità che dovrebbe garantire imparzialità sancisce però contro una trasmissione colpita da intimidazioni: Ranucci è stato attaccato, il giornalismo è sotto pressione. Eppure quel voto arriva. Ghiglia precisa che il procedimento è stato istruito, che c’è contraddittorio, che il diritto alla riservatezza dell’articolo 15 della Costituzione è coinvolto.
Apparentemente tutto nella norma. Ma restano due domande. Primo: quanto pesa l’immagine del membro dell’authority che entra nella sede del partito che quel giorno approva la sanzione? Secondo: quando la distanza istituzionale non è solo formale, ma sostanza, quali garanzie restano? Le associazioni dei giornalisti definiscono «inquietante» la coincidenza.
Chi difende la multa (come Gennaro Sangiuliano) la considera inevitabile. Ma l’apparato delle garanzie non è solo un contenitore tecnico: è anche una percezione pubblica. E se la percezione è che la prossimità politica precede un provvedimento sanzionatorio, la fiducia nella decisione si frantuma. Il diritto alla riservatezza, vitale, non si conterrà in un foglio tecnico: ha bisogno di istituzioni che non diano l’impressione di aver preso il caffè prima di deliberare.
In democrazia non basta che le regole vengano rispettate: occorre che si veda che la regola ha valore indipendente dai soggetti. Perché quando l’authority visita il partito e il partito vede l’authority, la normalità diventa simbolo — e il simbolo conta assai più dei pezzi di carta.
domenica 26 ottobre 2025
... uno sguardo su Gaza ...
𝐆𝐚𝐳𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐝𝐮𝐞 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐞 𝐥𝐢𝐛𝐞𝐫𝐞
𝐴𝑙𝑙𝑎 𝐹𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑛𝑒𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑅𝑜𝑚𝑎 𝑖𝑙 𝑓𝑖𝑙𝑚 "𝑃𝑢𝑡 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑠𝑜𝑢𝑙 𝑜𝑛 𝑦𝑜𝑢𝑟 ℎ𝑎𝑛𝑑 𝑎𝑛𝑑 𝑤𝑎𝑙𝑘" 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎 𝑙’𝑎𝑚𝑖𝑐𝑖𝑧𝑖𝑎 𝑡𝑟𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑖𝑟𝑎𝑛𝑖𝑎𝑛𝑎 𝑖𝑛 𝑒𝑠𝑖𝑙𝑖𝑜 𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑓𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒𝑝𝑜𝑟𝑡𝑒𝑟 𝑝𝑎𝑙𝑒𝑠𝑡𝑖𝑛𝑒𝑠𝑒. 𝐷𝑢𝑒 𝑠𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑖 𝑓𝑒𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑙𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑢𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑖
Articolo di Marina Parrulli
Alla festa del cinema di Roma nella sezione Special Screenings è stato presentato "Put your soul on your hand and walk" che vuol dire “metti la tua anima nelle tue mani e cammina”, frase pronunciata nel film da Fatem, una fotoreporter palestinese che vive al nord di Gaza. Il titolo del film nasce proprio da un rapporto epistolare moderno fatto di videochiamate tra due donne, la regista iraniana Sepideh Farsi e Fatem. Il film inizia con il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas a Israele, la regista si ispira alla guerra che lei, oggi in esilio in Francia, ha vissuto da adolescente in Iran. In lotta con continue domande Farsi cerca di entrare a Rafah dall’Egitto per parlare con rifugiati palestinesi e grazie a un contatto conosce la fotoreporter ventiquattrenne Fatem Hassouna.
Da qui entriamo nel viaggio, fatto di videochiamate poco nitide, connessioni che saltano e un inglese essenziale ma che basta a farsi capire ed empatizzare. Diventano amiche, telefonata dopo telefonata e anche lo spettatore lo diventa delle due donne, tirando un sospiro di sollievo ogni qual volta la regista videochiama Fatma sotto le bombe di Gaza e lei risponde, appare nello schermo, è lì viva, incredibilmente sorridente perché come dice la fotoreporter “non possono sconfiggerci, non abbiamo niente da perdere”.
La differenza tra loro è che Sepideh è fuggita dall’Iran a18 anni, non potendoci più tornare altrimenti rischierebbe l’incarcerazione; Fatem vorrebbe conoscere il mondo ma non è mai uscita da Gaza, mentre sogna di poterlo fare su di lei a pochi metri cadono le bombe che uccidono i suoi vicini di casa, la sua nonna, i suoi amici, è impegnata a resistere, a trovare del cibo, capire come ricaricare il suo telefono e i suoi strumenti da lavoro per poter continuare a fotografare quello che sta avvenendo.
E’ doloroso vedere il volto di Fatem cambiare con il passare dei mesi, il sorriso aperto e curioso dei primi tempi, l’ironia su come sistemare lo hijab, una battuta sulla voglia di cioccolata, tutto si fa sempre più assente, fino a comunicare alla regista di non riuscire a rispondere alle telefonate, in alcuni giorni, perché l’assenza di cibo la rende poco lucida e presentabile, parla di depressione e l’incapacità di alzarsi dal letto per il rumore degli aerei e dei droni sulla testa da mesi, 24 ore su 24 che ti massacrano il cervello, non ti fanno più pensare, piangere, reagire, ma ti rendono soltanto spettatori inermi.
La regia è composta dalle riprese che Sepideh fa con il suo il telefono, spezzoni di servizi giornalistici da Gaza, alternate tra le loro quindici conversazioni, avvenute tra aprile 2024 e aprile 2025, le fotografie che Fatem scatta ai gazawi, tra macerie e la ricerca di una “quotidianità” e canzoni mandate alla regista tramite vocali whatsapp. E’ un reportage di campo ma tutti questi elementi lo rendono molto di più, siamo testimoni di una storia di umanità tra due donne che diventano amiche nonostante il contesto e che purtroppo non si incontreranno mai. Il film è stato presentato a Cannes in anteprima, poche settimane dopo Fatem non ha più risposto a quelle videochiamate, morendo nel cuore della notte.
Consola miseramente vedere che Fatem avesse saputo qualche giorno prima che il suo volto, le sue foto e tutta la sua storia sarebbero stati proiettati sullo schermo di uno dei più grandi festival del mondo, mi piace pensare che nelle notti più dure cara Fatem il tuo pensiero felice a cui aggrapparti fosse stato proprio questo. Noi siamo qui oggi ad applaudirti forte nella sala dell’Auditorium della Festa del cinema di Roma, con il cuore a pezzi e con il volto della regista Sepideh tra le sue ginocchia che commossa dall’affetto della platea sventola la bandiera della Palestina.
Festa del Cinema di Roma.
... Torino 2 - Genoa 1 ...
TORINO - Ad aprire la domenica di Serie A sarà il lunch match in programma alle ore 12.30 all'Olimpico Grande Torino tra i granata e il Genoa. La formazione di Marco Baroni è in netta ripresa: dopo un avvio difficoltoso - quattro punti nelle prime cinque, frutto del pareggio interno contro la Fiorentina (0-0) e del successo a Roma contro i giallorossi (1-0 firmato Giovanni Simeone) - è arrivato il roboante 3-3 all'Olimpico contro la Lazio e la vittoria tra le mura amiche contro i campioni d'Italia del Napoli, abbattuti dal più classico gol dell'ex, quello del Cholito. È invece ancora a caccia della prima gioia stagionale in campionato il Grifone di Patrick Vieira. Fin qui i liguri, infatti, hanno racimolato appena tre pareggi, l'ultimo arrivato una settimana fa al Ferraris contro il Parma (0-0), quando proprio negli ultimi secondi Cornet si è fatto parare un calcio di rigore da Suzuki.
sabato 25 ottobre 2025
... puttana, puttana!! ...
Meloni, Meloni... La presidente Meloni non ne fa una giusta. L'altro giorno ha tranquillamente mentito durante il suo intervento al Senato, affermando che durante gli anni in cui è stata Presidente, l’Italia ha recuperato ben 9 posizioni nella classifica sulla libertà di stampa redatta da “Report senza frontiere”. In realtà analizzando i dati veri di “Report senza frontiere”, emerge come l’Italia sia crollata di 8 posizioni nella classifica sulla libertà di stampa, passando dal 41º posto al 49º. Nessuna risalita quindi, anzi tutto il contrario. Segno dell'attuale situazione della libertà di stampa in Italia è anche il fatto che non mi pare di aver sentito o letto granché su quanto accaduto.
Una Presidente che mente in Parlamento su un tema così importante non fa quindi scalpore. Mentire sulla libertà di stampa non fa scalpore, giocare con la democrazia non fa scalpore. Così come non ha fatto scalpore quando è fuggita dopo la seconda domanda alla conferenza stampa per la presentazione della finanziaria 2026, lasciando l'esterrefatto Giorgetti a rispondere da solo alle domande della stampa.
Ma ancora più grave mi pare il fatto che finalmente la Meloni abbia buttato la maschera e si sia dichiarata apertamente contraria ad un'Europa capace di prendere decisioni a maggioranza sulle questioni cruciali che di volta in volta si vengono a presentare. Le fa evidentemente comodo che per ogni decisione occorra il parere unanime di tutti i 27 capi di governo dell'Unione Europea. Ci sarà sempre l'Orban di turno a mettere i bastoni fra le ruote e rendere l'Europa un gigante dai piedi d'argilla. Hai voglia poi a lamentarti che l'Europa non conta un fico secco sulla questione palestinese, non conta un fico secco sull'invasione dell'Ucraina, poco o pochissimo può fare per difendersi dalle aggressioni economico-finanziarie del suo carissimo amico Trump. L'aspetto tragicomico della questione è che la stessa presidente Meloni si dichiari nel contempo grande estimatrice di Trump e del trumpismo che è quanto di più decisionista ci sia sulla faccia della terra. Vi immaginate cosa sarebbero gli Stati uniti se per ogni decisione occorresse il parere favorevole di ognuno dei 51 governatori degli stati americani?... Gli USA conterebbero poco o nulla, come poco o nulla contiamo noi. Comunque, più si critica questa faccia di tolla, e più questa si assesta sul 30% dei sondaggi. Solo la Schlein ha cercato di controbattere con grinta e buone argomentazioni, ed infatti è stata subito criticata dai moderati del partito, i vari Zanda (dunque, è ancora fra noi?), Gentiloni, Del Rio, Picerno e compagnia cantante. La verità vera dunque è una soltanto. Solo quelli che non vanno più a votare potranno invertire la tendenza e contribuire alla sconfitta della Meloni. Solo il loro voto potrà salvare l'Italia. Speriamo decidano malgrado tutto di farlo, quando sarà il momento.❤️
... Giuseppe Conte ...
🔴 INTERVISTA AL CORRIERE DELLA SERA
«Si vota fino a domenica».
❓Conte contro Conte. Lei, presidente, ha già vinto...
«Sono orgoglioso del M5S, una comunità di persone coraggiose, fiere dei propri valori e radicali nelle battaglie per cambiare il Paese».
❓Come spot funziona. Ma un capo rieletto senza sfidanti quanto è legittimato?
«Per regolamento qualunque iscritto poteva candidarsi a presidente e questa è una possibilità che non viene offerta negli altri partiti».
❓Ha regalato un libro a Meloni per infilarsi nel duello tra lei e Schlein?
«Non inseguo i duelli mediatici altrui. Le ho regalato Tre anni di tasse perché il solo modo di contrastare la propaganda di Meloni è inchiodarla ai dati reali. Hanno fatto una manovrina di tasse e tagli aprendo una voragine senza fondo in spese militari e hanno il record di pressione fiscale degli ultimi dieci anni. Abbiamo imprese e cittadini vessati dal Fisco, chi guadagna 1.700 euro ne avrà indietro solo 4. Intanto sei milioni di persone rinunciano a curarsi per le file negli ospedali».
❓ Meloni sbaglia pure quando le rinfaccia che le banche hanno collezionato dividendi anche grazie ai crediti fiscali del «suo» Superbonus?
«È indecente nascondersi ancora dietro al Superbonus di fronte alla quarta manovra di bilancio e quando FdI, Lega e FI hanno tentato in ogni modo di estendere quella misura, che io ho gestito solo per pochi mesi. Le loro bugie sono spazzate via dall'ultimo rapporto di Banca d'Italia, che sottolinea come la crescita di cui Meloni si vanta sarebbe stata dimezzata senza il Superbonus. Per non parlare dei soldi del Pnrr, che stanno sprecando».
❓ Lei ha detto che il M5S non è alleato del Pd. Ma Schlein accelera e la sfida a lavorare, dal giorno dopo le Regionali, a un «programma condiviso». Siete pronti?
«Adesso l'urgenza è reagire a una manovra che tocca la carne viva degli italiani. Per
questo abbiamo aperto il confronto su quattro proposte concrete e siamo ben lieti di misurarci con le altre forze di opposizione. Dopo proseguirà il dialogo per provare a sciogliere tutti i nodi e definire un progetto progressista».
❓Con calma, quindi. Qualche titolo?
«Dovremo assolutamente chiarire le linee di politica estera. Definire una politica migratoria che sia una terza via tra le ricette indecenti della destra e una illusoria accoglienza indiscriminata. Porre al centro quel bisogno di sicurezza avvertito indistintamente da tantissimi cittadini. E puntare su misure di giustizia sociale, che comprendano un ceto medio impoverito e le piccole e medie imprese».
❓Quindi è vero che lei ha inamidato la sua celebre pochette? Ha abbassato i toni e deciso di imprimere al M5S una svolta moderata, per candidarsi alla riconquista di Palazzo Chigi?
«Le coloriture giornalistiche su pochette e cravatte sono divertenti, ma confermano che non si vuole approfondire la realtà del M5S. Noi saremo sempre una forza di cambiamento scomoda e radicale, che si precipita in massa a Strasburgo contro la follia del riarmo, che si schiera dalla parte dei veri underdog e dei palestinesi. Poveri e abbandonati, esposti a un genocidio con la compiacenza dei governi occidentali, a cominciare dall'Italia».
❓Perché se i poveri aumentano, voi perdete voti?
«Sui territori continuiamo a fare fatica e dobbiamo migliorare ciò che non funziona, ma combatterò sempre perché il M55 non diventi un apparato di potere, che piazza persone nei gangli della Pa, per alimentare un sistema clientelare e uno scambio tra
favori e voti».
❓Ha ragione chi accusa Schlein di aver impresso al Pd una deriva estremista?
«Non commento le posizioni altrui. Penso che Meloni si batta evidenziando le incapacità del governo, il declino a cui ci sta portando sul piano economico e l'assistenzialismo rovesciato riservato ai poteri forti, che diventa servilismo. Banche, signori delle armi, giganti del web americani... Ma occorrono anche serie proposte per una diversa visione di Paese e molti temi sono emersi da Nova».
❓Primarie per la premiership, sì o no?
«All'esterno infuria il dibattito sulle primarie, all'interno del M55 infuria il dibattito sui contenuti».
❓Le dimissioni di Appendino sono un segnale di affanno della sua leadership?
«Non riesco a vedere differenze tra ciò che Chiara auspica sul tema delle alleanze e ciò che già facciamo sui territori e a livello nazionale. Tutto il gruppo dirigente ha il dovere di realizzare la linea tracciata da Nova, dove gli iscritti hanno dimostrato di essere coraggiosi e accettano alleanze solo con paletti chiari».
❓E se Cirielli batte Fico?
«Fico è il candidato più forte. In Campania Roberto sta facendo un gran lavoro, con serietà e impegno ha aperto un dialogo con tutte le forze produttive e sociali».
❓Come troverete un accordo col Pd sulla politica estera, se in Aula avete presentato cinque risoluzioni diverse?
«Sarà imprescindibile chiarire le posizioni, partendo dal non buttare soldi in spese pazze per il riarmo. L'Europa è incapace di assumere un ruolo da protagonista e lascia tutta la vetrina a Trump, che ci porta a spasso dove vuole. Dopo aver imposto i dazi adesso ci chiede anche di svenarci col programma Puri della Nato, che ci costringerebbe a finanziare le industrie Usa per mandare le armi a Kiev».
❓Le sembra corretto dare a Meloni della «cheerleader di Trump», come ha fatto Maiorino del M5S?
«Io parlerei di servile encomio, manzonianamente. Non mi sorprenderei se, dopo aver ceduto sull'acquisto del gas americano, sulla tassazione zero ai giganti digitali e sulle spese pazze in sede Nato, Meloni cedesse al pressing di Trump acquistando armi americane da inviare a Kiev».
❓La premier frena sugli asset russi per finanziare la resistenza ucraina. Concorda, almeno su questo?
«Rischiamo di creare un precedente pericoloso e di compromettere l'affidabilità del sistema finanziario Ue. Comprendo la cautela della presidente della Bce, Lagarde. Per evitare i doppi standard, l'Unione dovrebbe essere coerente, congelare contemporaneamente gli asset israeliani in Ue e usarli per la ricostruzione di Gaza».
❓Strizza l'occhio a Putin?
«Perché mi pongo il problema dell'affidabilità del sistema finanziario Ue? Mi sono stancato di ripetere sempre la stessa condanna di Putin. Viva la libertà di stampa, ma anche la corretta rappresentazione delle idee altrui».
venerdì 24 ottobre 2025
... editoriale ...
Editoriale di Marco Travaglio - 24 Ottobre 2025
L’AMARO CALICE
Per Einstein, “la follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati differenti”. È ciò che fa la Nato con l’Ucraina da 20 anni: scaraventarla contro la Russia e armarla fino ai denti perché la sconfigga al posto nostro (Kiev ci mette i morti, noi i soldi e le sanzioni ai russi, che danneggiano più noi che loro). Risultato: una disfatta via l’altra. L’Ucraina non entrerà nella Nato, è economicamente fallita, ha perso la Crimea, la guerra civile contro la resistenza del Donbass, l’intero Lugansk, il 75% del Donetsk, il 70% degli oblast di Kherson e Zaporizhzhia, ora pezzi di Sumy, Kharkiv e Dnipropetrovsk, oltre a centinaia di migliaia di uomini e a una montagna di armi Nato. Il consenso interno e internazionale di Putin è aumentato e l’economia russa, pur acciaccata, cresce molto più della nostra. Poi è arrivato Trump e ha sganciato gli Usa dalla linea suicida Nato-Ue: gli euro-folli lo considerano un idiota, intanto lui ci rapina con i dazi e ci vende a caro prezzo il gas che non importiamo più dalla Russia a buon mercato e le armi che compriamo da lui e regaliamo a Zelensky per continuare a perdere la guerra. Da 36 mesi esatti, sui 44 di invasione russa, Kiev non guadagna un metro 1uadrato di terreno: nell’ultimo anno ha perso in media circa 500 kmq al mese.
Ma la vera questione non è quantitativa. È qualitativa: da un anno i russi demoliscono la “cintura fortificata” di 50 km tra Sloviansk e Kostantinovka (Donetsk), creata da Nato e Kiev dal 2014 con trincee, campi minati e città fortificate. E sembrano ormai prossimi a sbriciolarla, con l’ingresso nello snodo logistico, ferroviario e minerario di Pokrovsk e di lì in altre roccaforti fino a Kupyansk (oblast di Kharkiv). Dietro quella linea fortificata non c’è più una trincea: solo steppa indifesa fino a Dnipro e a Kiev. Perciò Zelensky, mentre finge che i russi siano in stallo, continua a implorare gli alleati di “fermare Putin”. Ma può fermarlo solo lui con un’offerta che non possa rifiutare. Le nuove sanzioni gli fanno il solletico, anche quelle petrolifere Usa. E non sarà qualche Tomahawk o Patriot in più a ribaltare le sorti della guerra. Perciò Trump ha rinviato il vertice con Putin: tra un mese, con l’inverno, si saprà dov’è giunta l’offensiva russa e forse Zelensky sarà costretto ad arrendersi non a Mosca, ma alla realtà. In tre anni e mezzo è passato (e l’Ue con lui) dal “vinceremo recuperando tutti i territori” al “non recupereremo i territori ma non ne cederemo nessuno”. Ora s’illude sulla tregua, che è il rifugio dei disperati: nessun esercito vincente concederebbe mai settimane o mesi di respiro al nemico perdente. Presto o tardi dovrà decidersi a bere l’amaro calice, che tre, due e un anno fa era molto meno amaro.
Ma gli euro-folli non hanno fretta: tanto paghiamo tutto noi.
Il Fatto Quotidiano
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... una reliquia verbale ...
𝐈𝐥 𝐜𝐨𝐫𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐦𝐞𝐬𝐬𝐨, 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐬𝐚 𝐟𝐢𝐫𝐦𝐚𝐭𝐚: 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐥’𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐬𝐯𝐞𝐧𝐝𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐟𝐮𝐭𝐮𝐫𝐨 𝐯𝐞𝐫𝐝𝐞
Il buongiorno di Giulio Cavalli
È tempo di chiamare le cose con il loro nome: l’Unione europea mostra una vigliaccheria strutturale nei confronti dell’ambiente, ritirandosi dietro la solita scusa della “competitività”. Il Consiglio europeo ha ufficializzato la frenata nell’attuazione del Green Deal: gli obiettivi climatici diventano «mezzi pragmatici e realistici», la riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040 viene svuotata da clausole di revisione e crediti internazionali, pronti a coprire ritardi strutturali.
La retorica ambientale cede il passo alla deregolamentazione. Diciannove Stati membri, Italia in prima fila, hanno chiesto una “semplificazione” normativa che si traduce nello smantellamento delle tutele ambientali e sanitarie. I governi rivendicano il prolungamento del motore a combustione oltre il 2035 e nuovi margini per i biocarburanti: la transizione ecologica viene trattata come un vezzo costoso da sacrificare sull’altare delle lobby industriali.
In pochi anni l’emergenza climatica, che era stata il cuore politico dell’Unione, è stata inghiottita da una sequenza di crisi: pandemia, guerra in Ucraina, fiammate sovraniste. Il Green Deal sopravvive come reliquia verbale mentre l’Europa firma contratti per il gas liquefatto americano, riapre centrali a carbone, indebolisce i vincoli sull’agricoltura. È un ritorno all’ideologia che nega la scienza, pur sapendo che l’attuazione piena delle normative ambientali esistenti potrebbe garantire risparmi annuali per 180 miliardi in costi sanitari e ambientali, contro gli appena 8 miliardi promessi dalla “semplificazione”.
La vigliaccheria europea non è assenza di dichiarazioni, ma rinuncia sistematica. Il tradimento non è episodico: è un metodo.
L’Europa che si vantava di essere faro climatico ha preferito l’ombra corta dei compromessi, scegliendo di arrendersi proprio mentre la scienza chiedeva coraggio.
... A 050 ...
... stamane ho compiuto una vera maratona per acquisire lo SPID, necessario per accedere - speriamo! - ad un finanziamento di circa Euro 10.000 - l'ultima spiaggia per salvare il nostro "buen retiro" dalle grinfie del bastardo di turno!!
giovedì 23 ottobre 2025
... ed il vuoto si riempie! ...
𝐈𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐳𝐳𝐚 𝐜'𝐞̀ 𝐥'𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞 𝐚𝐥 𝐠𝐨𝐯𝐞𝐫𝐧𝐨 𝐌𝐞𝐥𝐨𝐧𝐢
Articolo di Stefania Valbonesi
Le ultime scene pervenute dalle piazze italiane rimettono sul tavolo un grosso interrogativo, che ha cominciato a diventare argomento di discussione fuoriuscendo dai soliti circoli accademici o “d’area”, che ruota intorno a un concetto, “repressione”. Il tema in realtà è stato dibattuto conquistando a poco a poco una platea più ampia partendo da ciò che ha rappresentato un punto di svolta, ovvero l’approvazione del cosiddetto “Decreto Sicurezza”, ormai legge.
Una legge che ha sollevato vari interrogativi, prima di tutto di ordine costituzionale: è possibile che anche la disobbedienza civile, come i sit-in per strada o sui marciapiedi, lo sciopero della fame in carcere, le azioni degli attivisti climatici, il tutto preceduto dalla famosa norma anti-rave, possano diventare, da esternazione di opinioni e azioni di dissenso, reati? Ed è possibile che nello scontro fra cittadino e forze dell’ordine, nell’eventuale processo, la tutela degli agenti sia affidata allo Stato, mentre il cittadino paga di tasca sua? Dov’è finito il principio squisitamente liberale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? O forse c’è qualcuno che gode di un principio di diseguaglianza, ma a proprio favore?
Naturalmente gli interrogativi non si fermano qui, ma sono già abbastanza numerosi, numericamente e qualitativamente, per mettere in luce quanto la fiducia collettiva della comunità nelle istituzioni e nelle sue rappresentanze d’ordine possano trovarsi, per la prima volta dopo decenni in questo Paese, distanti. Uno stato d’animo che ben risulta, solo per fare un esempio, da alcune riflessioni di un cittadino che si è trovato, con migliaia di persone, a manifestare a Udine il proprio dissenso per la partita Italia-Israele. Al di là della condivisione o meno delle posizioni espresse infatti, c’è qualcosa di diverso che emerge dalle sue considerazioni inviate al giornale, e che riguarda un tema delicatissimo, ovvero quello delle relazioni Stato-Cittadino. Un tema che in tempi non sospetti veniva declinato dall’ex giudice Beniamino Deidda, nei suoi interventi sul sistema sicurezza inaugurato dal governo, come un rischio di frattura della fiducia fra popolo e istituzioni. Un vulnus grave, in un sistema democratico almeno.
“Sarà ingenuità o semplice fortuna – scrive il nostro lettore, manager aziendale – ma in una quindicina d’anni di cortei e manifestazioni manganellate addosso, piene, dritte, sanguigne, io non le avevo mai prese. Ieri sera a Udine è successo per la prima volta (…) È successo mentre con un minuscolo gruppo di manifestanti di mezza età ci nascondevamo dietro alla pensilina dell’autobus tentando di parare i colpi secchi dell’idrante sparato a fiotti sulla folla. È successo mentre pensavamo di essere al sicuro, immobili, inermi, con le braccia alte sul vetro di sostegno della balaustra e a decine di metri dal cordone di sicurezza della Polizia di Stato (….) Quello che resta invece è la nitida convinzione che in piazza sia morto l’ennesimo brandello di libertà al dissenso, ammutolito sotto la pioggia battente di zelo violento e cameratismo tossico istituzionalizzato (…)”.
E’ su questo punto, sulla questione strutturale che riguarda la frattura che si sta producendo fra una massa che sente di avere il diritto di esprimere il dissenso e un sistema che invece si fa sempre più funzionale alla erosione-negazione del suo esercizio, con continue giustificazioni legate all’attività di gruppuscoli violenti, che ci rivolgiamo al sociologo Vincenzo Scalia, professore associato di Sociologia della devianza dell’Università di Firenze. Il tema è: quanto può reggere una democrazia alla riqualificazione del dissenso come reato? Il problema, tutto sommato, riguarda anche il consenso, partendo da un segnale inquietante per ogni democrazia, che possiamo sintetizzare così: piazze piene, urne vuote.
Intanto, per chiarire un punto di cui molto si parla ma spesso si dà per scontato, il primo passo è capire di cosa si sta parlando. “La repressione può essere definita come l’insieme di quelle pratiche che mirano a rimuovere o addirittura a soffocare del tutto ogni tentativo di manifestazione o espressione di un punto di vista diverso. O quantomeno di ridurlo”, spiega il professor Scalia. In sintesi, possiamo anche dire che è il tentativo di annullare il dissenso, ovvero il “sentire diversamente” di qualcuno rispetto a qualcosa. “Nell’accezione in cui la stiamo intendendo, la repressione è fare ciò (ovvero attivare strumenti contro il dissenso) facendo leva su mezzi di coazione. La repressione psicologica è altro”.
Tenendo conto di questo, il secondo passo, per capire il meccanismo che induce la gente a diffidare della politica intesa anche come istituzioni, potrebbe essere il seguente: c’è corrispondenza fra repressione e disaffezione alla vita democratica, il cui momento maggiore in un sistema costituzionale liberal-democratico universale sono le elezioni? Ovviamente, il tema è complesso, ed è in questo senso che considerazioni come quelle riportate poco sopra possono far suonare l’allarme. Ma è possibile che la crisi parta proprio dalla restrizione dello spazio del dissenso?
“Comunque sia, si allarga sicuramente il divario fra popolo e rappresentanza politica. Più c’è possibilità di esprimere le proprie posizioni e anche di rivendicarle, maggiori sono le possibilità che il dissenso venga incorporato all’interno delle istanze politiche, maggiore è la legittimità che i cittadini attribuiscono alle istituzioni. Viceversa, se questo processo si innesca al contrario, è ovvio che si va incontro a una delegittimazione da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni”. Basta vedere ciò che succede ad esempio in Irlanda del Nord, quando la minoranza cattolica repubblicana veniva repressa, suggerisce il professore. “Con il Bloody Sunday, l’Ira, considerata dai più un residuato bellico, conosce di colpo una seconda esistenza. Se nel ’72 si diceva “IRA I Ran Away”, dopo il Bloody Sunday la partecipazione alla lotta armata cresce esponenzialmente. I neri americani, dopo l’omicidio di Martin Luther King, ingrossano le fila del Black Panther Party”.
Il paradosso insomma non è per niente un paradosso: l’esclusione violenta delle classi sociali che portano avanti richieste anche elementari come pace, lavoro, maggiore equità nella distribuzione della ricchezza e nelle chances, sicurezza tout court (anche questa è infatti nella sua declinazione ultima un’istanza sociale) crea rivalsa violenta. Gli esclusi dal sistema cercano di entrare nel sistema con altri mezzi. La debolezza apparente delle democrazie è anche la loro forza: essere capaci di inclusione sotto la credibilità di regole comuni. Ma se le regole vengono usate “contro”, classi sociali, gruppi di interesse, diritti, il magico gioco rischia di andare in frantumi.
Urne vuote segnale da non sottovalutare quindi? “Diciamo che il problema è più complesso di quanto appaia. La diserzione alle urne (evidente anche nell’ultima mandata elettorale della civilissima Toscana, ndr) può essere agganciato da un lato anche al riflusso che ha segnato il ritiro diffuso delle persone nel proprio privato in seguito alle sconfitte delle utopie dei movimenti degli anni Settanta; dall’altro lato, troviamo partiti che parlano di governo dell’esistente, di elettorato di opinione, creando una sfera che tende ad escludere fasce sempre più ampie di elettori. Ci chiediamo dunque il motivo per cui la gente vota di meno, ma va in piazza? Nelle piazze non c’è bisogno di una legge elettorale per partecipare, ci vanno tutti. Nelle urne ci sono leggi elettorali che ad esempio, mettono il limite della raccolta firme per presentare una lista, oltre al fatto che una campagna elettorale richiede non solo finanziamenti ma anche l’accesso a spazi che non sempre vengono concessi; di conseguenza, la gente va in piazza perché in piazza conta. Punto.
Almeno fino a quando non metteranno il divieto di adunata sediziosa”.
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