sabato 24 maggio 2025

... l'Arte è gratis? ...

L’Inno di Mameli in saldo: 35 euro secondo Giuli. 
 Nel grande teatro dell’assurdo che spesso è la politica italiana, l’ultimo atto si è consumato tra i velluti rossi della Fenice e i corridoi marmorei del Ministero della Cultura. Protagonista, manco a dirlo, il titolare del dicastero, Alessandro Giuli, già noto per l’eloquio magniloquente e l’indomita passione per simboli e liturgie, che questa volta si è superato, assegnando alla cultura un valore simbolico estremamente preciso: 35 euro lordi a testa, due giorni lavori e quindi 17 euro al giorno a testa per il coro. E l’eloquente deficiente si è pure stupito del rifiuto. Ha detto, imbronciato “molti lo farebbero gratis!” Per celebrare la Festa della Repubblica, il Ministero ha infatti chiesto all’orchestra e al coro del prestigioso teatro veneziano di suonare e cantare l’Inno di Mameli, da registrare in video e trasmettere su Rai1 in prima serata. Una proposta nobile, direte. Peccato che il compenso previsto fosse inferiore a quello di una comparsa in un cinepanettone, e il tono dell’invito più simile a quello di una leva obbligatoria che a una reale richiesta di collaborazione professionale. Il personale della Fenice – 145 tra musicisti e coristi – ha declinato con fermezza. Non tanto per orgoglio, quanto per dignità. D’altronde, suonare l’Inno d’Italia non è un karaoke improvvisato da bar di provincia, ma un’esecuzione che richiede prove, coordinamento, tempo e professionalità. Due giornate intere di lavoro per una somma che, al netto delle ritenute, sfiorava appena la soglia del simbolico. Della serie: tanto valeva chiedere di farlo gratis, magari per onor di Patria avrebbero anche accettato. Di fronte a tal oltraggio, il buon Giuli ha deciso di indossare l’elmetto dell’offeso. E, con tono da retore ferito nell’onore, ha dichiarato alla stampa: “L’Italia è piena di italiani disposti a cantare gratis l’Inno di Mameli. Io stesso l’ho fatto e lo rifarei.” Ecco servito il capolavoro retorico: chi rifiuta 35 euro per suonare l’Inno sarebbe un ingrato, forse addirittura un disfattista, o peggio, uno che non ama la propria nazione. Insomma, artisti, fatevi un esame di coscienza: non suonate per la paga, suonate per l’Italia. A nulla sono servite le proteste dei sindacati. Marco Trentin, della Cgil, ha ricordato al ministro che il lavoro si retribuisce, e che esistono contratti da rispettare, anche quando si tratta di arte. Ma nella logica onirico-burocratica del ministero, l’Inno doveva essere registrato, mandato in onda, ma senza disturbare troppo il bilancio. E chi osa rifiutare, viene tacciato di “distonia”, parola colta che però qui suona più come un’allergia al buon senso. Del resto, nel mondo incantato del Ministro, l’Inno nazionale è una sorta di pozione magica che può essere evocata a comando da chiunque – il panettiere, l’imbianchino, il posteggiatore – purché abbia fiato in gola e amor di patria a sufficienza. Il fatto che si tratti di un’esecuzione professionale, da registrare e mandare in onda in prima serata, pare dettaglio trascurabile. Tanto, l’arte non sfama, non produce, non si contabilizza. È aria fritta, decorazione, passatempo. Una cosa da fare per spirito civico, non per vile denaro. Incalzato dalle critiche, il ministro ha provato a rimediare arrampicandosi sugli specchi.

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