Dunque.
Primo. In Italia, nonostante ci siano norme che vietano di fumare negli uffici pubblici, c'è un ministro della Giustizia che fuma tranquillamente al chiuso, dentro il ministero, sotto una bandiera tricolore, con il suo staff a giustificarlo in maniera ridicola.
Secondo. Il punto non è che carletto nordio stia fumando dove non è consentito.
Il punto è che a farlo è il ministro della Giustizia.
Quello che dovrebbe essere il garante del rispetto delle regole, l'uomo delle leggi, dell'etica pubblica.
Terzo. Se il ministro della Giustizia si sente al di sopra della legge (non in un edificio pubblico pagato da chi versa le tasse e rispetta le regole) stravaccato sul divano con la sigaretta in mano e l'aria da Gesù Cristo, allora vale tutto.
E infatti, in Italia, si può alzare tranquillamente il braccio destro e farlo passare per artrosi cronica, si possono picchiare gli studenti o chiunque manifesti dissenso nei confronti del governo e si possono perfino comperare lauree come se fossero polli allo spiedo al mercato rionale di Strangolagalli.
Avanti così.
Fino all'ultima tirata.
Ve lo avevo indicato qualche giorno fa, ora facciamo il punto.
Il nuovo decreto Sicurezza è un insieme di norme repressive, un segnale politico, preciso e inquietante. Quattordici nuovi reati, pene inasprite per altri nove, aggravanti a pioggia.
Ma soprattutto, un impianto che parla la lingua della paura e della punizione, non certo quella della giustizia o della tutela dei diritti.
E la cosa che fa riflettere, o dovrebbe farlo, è che le critiche arrivano da mondi molto diversi, spesso tra loro distanti: l’Unione delle camere penali, l’Associazione nazionale magistrati, e addirittura i relatori speciali delle Nazioni Unite.
Proprio così: le Nazioni Unite hanno chiesto al governo italiano di revocare il decreto, adottato di fretta e senza confronto, perché mette a rischio libertà fondamentali come quella di riunione, di espressione, di difesa dei diritti umani.
Questo non è più solo un problema interno. È l’immagine dell’Italia nel mondo.
È la direzione che stiamo prendendo, passo dopo passo, decreto dopo decreto: quella di uno Stato che considera il dissenso una minaccia, e chi difende i diritti come un nemico.
Serve una risposta civile, ferma e collettiva.
Perché oggi tocca a chi protesta, a chi migra, a chi difende.
Ma domani?
Non è più tempo di aspettare. Vincenzo D'Agostino


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