Tra lo zar Usa e lo zar russo però c’è una differenza sostanziale. A Washington è già cominciata la corsa per baciargli la pantofola
C’è uno zar a Washington. Lo zar americano non si è ancora insediato nelle sue funzioni da presidente ma ha passato gli ultimi giorni a minacciare la Nato – esattamente come quell’altro – non escludendo di usare la forza per prendere la Groenlandia.
Anche questo – come quell’altro – ha accennato a non meglio specificate ragioni di sicurezza nazionale per descrivere come inevitabile l’annessione. A differenza di quell’altro non ha parlato di denazificazione, questo è vero. Forse perché al suo fianco c’è un plutocrate che è il più importante sostenitore del post-nazismo europeo.
C’è uno zar alla Casa Bianca che dopo aver minacciato l’invasione di un Paese Nato ha minacciato la Nato se non rimpinguerà le casse. Poi lo zar dai capelli carota ha spiegato che la Russia «è stata provocata dall’Ucraina», frase che dalle nostre parti viene bollata come filo-putinismo all’istante. Quindi lo zar americano – come ogni zar che si rispetti – è anche d’accordo con l’altro zar.
C’è uno zar americano che annuncia pubblicamente il desiderio di invadere Panama e che ha già indicato al successore di Trudeau la soluzione migliore per il Canada: annettersi agli Usa. In questo caso però è stato magnanimo: niente invasione, promette. Ma si sa, sono promesse da zar.
C’è uno zar a Washington che promette di perdonare coloro che hanno tentato il rovesciamento democratico del suo Stato, rivendendoli come patrioti.
Tra lo zar Usa e lo zar russo però c’è una differenza sostanziale. A Washington è già cominciata la corsa per baciargli la pantofola, pratica in cui eccelle la nostra presidente del Consiglio.
mercoledì 8 gennaio 2025
martedì 7 gennaio 2025
... un trio magico!! ...
Cara la mia dolce Dacia Maraini
(lei lo sa del perché scrivo questo)
di FILIPPO MARIA BATTAGLIA
05 Gennaio 2025
In Giappone visse i suoi primi anni.
«Mio padre, Fosco, era partito dopo avere vinto una borsa di studio internazionale, con la giovane moglie e la figlia di un anno, io. Abbiamo vissuto per molto tempo a Sapporo, nel gelido Hokkaido, in mezzo a persone accoglienti e solidali. Un’esperienza che mi ha aiutato a conservare amore e stima per i giapponesi nonostante ciò che accadde poco dopo».
Nel ’43 finiste in un campo di concentramento a Nagoya.
«Il Giappone era alleato col regime italiano. I miei genitori, separatamente, decisero con coraggio di non firmare l’adesione alla Repubblica sociale italiana: ci dichiararono traditori della patria e ci internarono».
Lo ha raccontato in «Vita mia»: furono mesi di inedia e malattie che provocavano improvvise emorragie.
«Per tenerci caldi, e anche per consolarci della fame, dormivamo abbracciati come una famiglia di scimmie su un albero spelato. Restammo a lungo in quella zona che sta fra la morte e la sopravvivenza dolorosa».
In quel campo, suo padre, uno dei grandi antropologi del ’900 italiano, si tagliò un dito e lo scagliò addosso al capo delle guardie.
«Si chiamava Kazuya, era tutto vestito di bianco. Quando si vide schizzare il sangue addosso, gli puntò contro una spada. Pensai che lo uccidesse, ma papà sapeva quello che faceva. Nella filosofia dei samurai, lo “yubikiri”, il taglio del dito, comportava creare una obbligazione al nemico. E infatti, dopo una settimana, Kazuya arrivò con una piccola capra. Fu una salvezza: il latte vitaminico della bestiola ci permise di sopravvivere».
Molti anni dopo la prigionia, sarebbe tornata per cercare quel campo.
«Non riuscii a trovarlo: avevano eliminato ogni traccia. Nessuno sapeva niente, nemmeno chi abitava nei dintorni. Ma anche in Italia è stato lo stesso: chi sa che ci sono stati dei campi in Giappone in cui i cittadini italiani contrari al fascismo sono stati internati?».
Tornaste in Italia nel ’47. Ad accogliervi, in Sicilia, c’era la famiglia di sua madre: gli Alliata di Salaparuta. Monarchici dal sangue blu.
«Erano stati molto potenti ai tempi del feudalesimo, ma nel dopoguerra si erano ridotti malissimo, salvo un ramo che aveva fatto un matrimonio con una latino-americana piena di soldi».
Sua madre Topazia era cresciuta insieme a Renato Guttuso.
«Tutti e due di Bagheria, e tutti e due amanti della pittura. Per molti anni si persero di vista, si ritrovarono nel dopoguerra a Roma».
Quando pensò «voglio fare la scrittrice»?
«Ho cominciato a leggere prestissimo. I libri in casa erano molti, ci passavo ore, anche di notte, tanto che di giorno cascavo dal sonno. A 13 anni cominciai a scrivere sul giornale della scuola, a 17 fondai una rivista. Da allora non ho più smesso».
L’esordio non fu facile: il suo primo romanzo, «La vacanza», stentò a essere pubblicato.
«Nessuno lo voleva. Solo un editore, Lerici, mi disse: “Se mi porta la prefazione di uno scrittore importante lo stampo”».
Accettò Alberto Moravia.
«Fu l’unico a leggerlo. E, per fortuna, andò bene: non ho più avuto bisogno di una prefazione prestigiosa».
La vostra storia iniziò poco dopo: restaste insieme per più di 15 anni.
«Alberto era umile, niente affatto preso dalla sua notorietà. L’ho molto amato per il carattere, la cultura immensa, l’ironia, la giovinezza di spirito, l’eleganza intellettuale».
Era considerato un seduttore.
«Era ricercato dalle donne per la sua gioia di vivere e per la sua capacità affabulatoria, ma non era un tombeur de femmes, e non aveva paura del talento femminile, come invece purtroppo accade a molti uomini. Lo dimostra il fatto che sposò Elsa Morante, una donna di grande talento e intelligenza».
Quando lo conobbe erano già separati?
«Sì. Elsa era stata innamorata prima di Luchino Visconti, poi di un giovane pittore, Bill Morrow, e ne raccontava a Moravia tutti i dettagli. Quando andai a vivere con Alberto, non si arrabbiò né si offese. Pretese solo che il loro matrimonio rimanesse un vincolo legale».
E lei?
«Accettai la scelta di Elsa come un dato del suo carattere: era portata all’assolutismo e a una certa fede nelle istituzioni religiose».
Di Moravia e Pasolini lei ha scritto che uno era tutto ragione, l’altro tutto sensualità.
«Pier Paolo provava un rifiuto anarcoide e rabbioso nei riguardi della ragione. Per lui contavano le sensazioni, le premonizioni, le improvvise intuizioni».
I suoi viaggi insieme a lui e Moravia furono memorabili.
«Alberto non si stancava mai. Una sera arrivammo in un villaggio del Centro Africa dopo otto ore su una land-rover coperta di polvere che non aveva fatto che saltare sui sassi. Sognavamo solo un letto per riposare. Entrati nel villaggio, sentimmo una musica, la gente danzava. Alberto mi tirò per un braccio dicendo: “Andiamo a ballare?”».
E Pasolini?
«Un giorno ci fermammo in un villaggio miserabile. Un vecchio a piedi scalzi ci offrì il suo riso in un sacchetto. Dopo averlo cotto, ci accorgemmo che era infarcito di insetti morti. Il primo istinto fu buttarlo via. Ma Pier Paolo disse di no: dovevamo mangiarlo perché l’uomo era stato così gentile da offrirci la sua ultima riserva. E così facemmo, cacciando in bocca una specie di pappa che puzzava di muffa».
Ma è vero che amò Maria Callas?
«Certo, anche se ovviamente in modo platonico. Pier Paolo aveva un problema con la madre. L’aveva talmente amata che trovava in ogni donna il suo spettro. Diceva spesso: “Fare l’amore con una donna sarebbe come farlo con mia madre”».
Qualche anno fa molti dei suoi libri, da «La lunga vita di Marianna Ucrìa» a «Bagheria», sono finiti in un Meridiano: è capitato a pochi scrittori viventi, e a pochissime scrittrici.
«Oggi le donne sono accettate come autrici ma, se si parla di prestigio, difficilmente entrano nella memoria istituzionale. E, quando si va nei luoghi dove si stabiliscono valori e modelli letterari per le prossime generazioni, scompaiono».
Mi dica allora un’autrice contemporanea che merita di essere letta.
«Più d’una: Silvia Avallone, Valeria Parrella, Claudia Durastanti, Chiara Valerio. Potrei continuare».
Ha un desiderio?
«Quello di invecchiare senza perdere il buon senso e la gioia di vivere».
https://www.lastampa.it/.../maraini_moravia_pasolini.../....
... C ...
Oltre ogni immaginazione. L'agenzia d'informazione Bloomberg fa sapere che la presidente del Consiglio Meloni avrebbe parlato, in occasione della visita a Trump, della firma di un contratto del valore di 1,5 miliardi di euro con Space X, la società di Elon Musk, per la fornitura di servizi di sicurezza nelle telecomunicazioni in particolare nei sistemi di criptaggio di comunicazioni governative e militari. In pratica, dopo aver affidato tutte le reti di comunicazione a fondi e società estere, il governo italiano avrebbe affidato alla società di Musk anche il controllo sui dati più sensibili, con l'effetto di mettere il miliardario nelle condizioni di conoscere ogni "segreto" sulla sicurezza del nostro paese. Di fronte al diffondersi di questa notizia, la Presidenza del Consiglio si è affannata a produrre un comunicato ufficiale in cui si smentiva la firma di un simile contratto, sostenendo però che sono in corso trattative in tal senso. Il solerte Musk, a quel punto, non ha esitato ad affermare che le trattative sono in fase assai avanzata. In realtà, la Presidenza del Consiglio ha dovuto smentire anche che il tema in questione fosse stato oggetto dei colloqui con Trump. Questa surreale vicenda fa emergere alcune cose ben chiare. La prima; l'Italia non ha più alcun controllo sulla propria rete di telecomunicazioni e sta trattando di affidare la propria sicurezza a un personaggio che sta sostenendo, ovunque, le forze più radicalmente antidemocratiche. La seconda; i legami personali di Giorgia Meloni con Musk hanno reso immediatamente credibile l'ipotesi dell'affidamento miliardario tanto da spingere Bloomberg a dare tale notizia come certa. In questo senso la presidente del Consiglio diventa lo strumento in mano a Musk per far crescere il valore delle proprie società anche solo con gli annunci. La terza; questo legame tra Meloni e Musk finisce per condizionare la politica estera italiana nei confronti di Trump verso il quale è evidente una sudditanza paranoica, corroborata proprio dall'asse Meloni-Musk-Trump. Il sovranismo, ma anche la ben più rilevante idea di sovranità sono state cancellate da una concezione personalistica dei rapporti internazionali, per cui sono "gli amici degli amici", e non le istituzioni statuali, a definire il perimetro della presenza estera italiana. Purtroppo per noi, si tratta di amicizie decisamente interessate che stanno svuotando la sostanza stessa dello Stato repubblicano, privato, appunto, degli strumenti fondamentali della sovranità.
E oltre alla gravità dell'atto in sé, tutto questo accade in totale spregio della risposta indiretta del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulle uscite di Musk e dei contenuti del suo discorso di fine anno.
Questi sono così patrioti che si inchinano al sistema economico dei nuovi oligarchi alla velocità della luce, specialmente se hanno il loro stesso identikit politico.
lunedì 6 gennaio 2025
... 6 gennaio 1980 ...
L'omicidio di Piersanti Mattarella: era il 6 gennaio 1980
Sono passati 45 anni da quando l'allora presidente della Regione Sicilia, fratello dell'attuale Presidente della Repubblica, fu ucciso a Palermo da un sicario con una serie di colpi di pistola.
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Il 6 gennaio 1980 viene ucciso a Palermo a colpi di pistola Piersanti Mattarella, allora Presidente della Regione Sicilia e fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per l’omicidio verranno condannati i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nené Geraci. A distanza di 43 anni da quel giorno, puoi guardare su discovery+ lo speciale In un altro Paese: Falcone, Borsellino e tante altre figure eroiche nella lotta alle mafie negli ultimi decenni di questo Paese.
È la mattina del 6 gennaio 1980, siamo in via della Libertà a Palermo. Piersanti Mattarella esce da casa per andare a messa con la sua famiglia. Va in garage a prendere la macchina, poi si ferma poco prima di uscire dal cancello per far salire la suocera e la moglie, Irma Chiazzese. All’improvviso sbuca un ragazzo incappucciato che si avvicina al Presidente della Regione Sicilia e inizia a sparare...
La pistola s’inceppa e il killer corre verso una Fiat 127 con a bordo un complice. Non scappa. Quel ragazzo col cappuccio in testa torna con un’altra arma e continua a sparare, stavolta ferendo a morte Piersanti Mattarella. Tra i primi ad arrivare sul posto c’è il fratello Sergio, immortalato in una storica foto di Letizia Battaglia. La rivendicazione di un gruppo neofascista porta tutti a parlare di un attentato terroristico. Successivamente indaga sul caso il giudice Giovanni Falcone secondo cui quella mattina in via della Libertà a Palermo c’erano i fascisti Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, processati anche per la Strage di Bologna del 2 agosto 1980. Per la magistratura di Palermo non ci sono però elementi sufficienti per condannarli per l’omicidio di Piersanti Mattarella. Eppure a confermare la tesi di Giovanni Falcone ci sono le confessioni di alcuni collaboratori di giustizia arrivate nel 1982 e le parole di Cristiano Fioravanti che parla del fratello Giusva come del killer di Piersanti Mattarella. Senza dimenticare la testimonianza di maggior rilievo, quella di Irma Chiazzese, vedova dell’allora Presidente della Regione siciliana, che in quella maledetta mattina del 6 gennaio 1980 riesce a vedere in faccia il killer.
domenica 5 gennaio 2025
... Torino 0 -- Parma 0 ...
Nel giorno della commemorazione di Aldo Agroppi il Toro non va oltre uno scialbo 0 a 0 contro un buon Parma ma urgono rinforzi.
Vanoli cambia modulo passando al 3-4-2-1 con Ricci promosso capitano ed il rientro dal primo minuto di Ilic. Parma con defezioni importanti e costretto a fare punti per restare aggrappati al trenino salvezza.
Toccante il minuto di silenzio per commemorare il grandissimo Aldo Agroppi sulle note di Elvis Prestley.
Il Toro viene da una serie di risultati positivi e dalla notizia sul vicinissimo arrivo di Beto da Liverpool.
Vanoli sceglie di cambiare schierando la difesa a 3 con Borna Sosa e Lazaro esterni di centrocampo, Karamoh preferito a Sanabria con Adams unica punta.
Parma aggressivo, poco Toro
La partita ha un sostanziale equilibrio tra le due squadre, il Toro non riesce ad essere particolarmente pericoloso nella prima mezz’ora tranne in un’ occasione con Adams. Lo scozzese colpisce di testa un bel traversone di un propositivo Lazaro ma il pallone è troppo centrale per la respinta agevole di Suzuki.
Il Parma non si chiude in difesa ed anzi prova a spaventare il Toro in diverse circostanze dove trova però un attento Milinkovic Savic.
Il Toro sembra più pimpante sulla corsia di destra dove Lazaro appare in buona forma ed in serata. La partita è vivace, Almqvist crea scompiglio sulla sinistra tanto da impegnare severamente Maripan in una diagonale miracolosa. Vanoli schierando la mediana a 5 chiede verticalizzazioni repentine per scavalcare il centrocampo ed imbeccare in velocità Che Adams.
Gli emiliani pressano alto e forte mettendo in difficoltà il palleggio dei granata. Cancellieri sulla destra crea quasi sempre superiorità numerica costringendo Borna Sosa a ripiegare costantemente. Ilic appare troppo timido nelle giocate e quasi mai tenta la giocata per verticalizzare.
Pecchia insiste nella verticalizzazione rapida con la palla che corre veloce mettendo in difficoltà i macchinosi difensori granata. Dopo 47 minuti l’arbitro Feliciano manda le squadre negli spogliatoi sullo 0 a 0.
Toro ancora a secco
Nella ripresa Vanoli cambia, fuori Ricci per Linetty per un fastidio muscolare mentre Pecchia non cambia nulla.
Il Toro sembra crederci di più, da una ripartenza dal basso i granata escono bene ma Vlasic dopo un tunnel su Sohm sbaglia l’ultimo passaggio. L’impressione è che manchi qualità proprio nel momento decisivo dell’azione.
Pecchia cerca di sparigliare il gioco inserendo Bonny al posto di Harnaut, 4-2-4 per tentare il colpo grosso. Il gioco del Toro è però troppo prevedibile ed i cambi di gioco improvvisi troppo imprecisi.
Vanoli dalla panchina chiede ai centrocampisti di abbassare il ritmo e di ragionare, l’idea quella di far scoprire i gialloblu ed imbucarli con Karamoh e Vlasic tra le due linee emiliane.
Il Parma non si scompone ed anzi si rende pericoloso con Mihaila al minuto 64, il tiro dal limite si stampa sul palo dal lato difeso da Milinkovic. Vanoli ne cambia altri 3 per tentare di dare una scossa ai suoi e che non sia serata per i granata lo si intuisce quando Vanja sbaglia un rilancio elementare con i piedi.
La qualità in campo è abbastanza mediocre e la sensazione che la partita si possa sbloccare per un episodio o su calcio piazzato. L’atteggiamento dei granata è troppo passivo indisponendo il pubblico presente, tanto che ad essere pericolosi sono gli emiliani. Sulla corsia di sinistra i gialloblu “maramaldeggiano” contro Pedersen e Vojvoda troppo lenti.
Il norvegese ex Sassuolo ci mette volontà ma i mezzi tecnici appaiono non di primissima qualità, tanto da sciupare almeno 3 buone occasioni sulla fascia destra. Vanoli inserisce Sanabria negli ultimi 5 minuti per tentare il colpo partita. A provarci però lo scozzese lesto nel controllare nell’area piccola e girarsi repentinamente ma il pallone viene ribattuto dall’attenta difesa emiliana.
Il Parma chiude in avanti la partita portando a casa un ottimo punto in casa di un Toro non proprio brillantissimo. Ora sabato ci sarà il derby che potrebbe essere l’ultimo per Urbano Cairo e per la gioia dei tanti tifosi granata stanchi di umiliazioni continue nella stracittadine.
Pazienza?...batti i pugni sul tavolo,arrabbiati,spingi per ottenere quel minimo che ti serve per avere una squadra decorosa....ma che hai paura?...ti rendi conto della situazione,o no?! Sabato c'è il derby, probabilmente l'ennesima sconfitta,se non ti muovi caro Vanoli,il prossimo anno rischi di tornare ad allenare in serie B.
PS. Non mi pronuncio sull'occasione di Karamouh......scandaloso come non abbia fatto gol!
... A ...
La vittoria di Trump negli Stati Uniti, ma anche la crisi dei partiti di sinistra in Europa: contesti diversi su cui si possono fare riflessioni comuni. Ecco l'analisi di uno psicologo sociale che sfata molti luoghi comuni
La vittoria di Trump negli Stati Uniti, da alcuni definita “incredibile” e la crisi della sinistra in Europa sono fenomeni diversi in quanto è diverso il contesto. Consentono tuttavia alcune riflessioni comuni.
Si può iniziare col ritenere che la vittoria di Trump confermi il fallimento di sondaggi e sondaggisti: avevano previsto quasi all’unanimità un risultato incerto, se non una probabile vittoria di Kamala Harris. Tale fallimento può essere dovuto a problemi metodologici; si veda, tra gli altri, la critica ai sondaggi di Giovanni Busino alla voce Opinione nella Enciclopedia Einaudi. È comunque sostenibile che il sentire e il pensare delle elettrici e degli elettori possa essere rilevato dai discorsi con le loro proposizioni e non da singole parole; tanto meno da risposte a domande a scelta multipla se non binaria, con i risultati sottoposti a elaborazioni statistiche più o meno raffinate che coprono la debolezza metodologica di fondo.
Si può anche ipotizzare che il fallimento dei sondaggi possa essere attribuito alla appartenenza dei sondaggisti a una élite, fallita in quanto ha perso qualsiasi contatto con quella che veniva chiamata ‘la massa’; in quanto cieca e sorda, incapace di comprendere il sentire e il pensare, i bisogni di elettrici ed elettori, tanto che la vittoria di Trump appare “incredibile”. Una élite afona, incapace di comunicare per la estraneità del suo linguaggio.
Si conferma nello stesso tempo, e di conseguenza, il successo delle non élites: gruppi e singoli individui che hanno il potere e lo usano per i loro fini; in Italia il defunto Berlusconi, ora la Meloni con i suoi supporter ed alleati, negli Stati Uniti i Musk, i Trump; opportunamente definiti ‘tycoon’, parola di origine giapponese che significa anche dominazione. Ovvero, si conferma la capacità di tali non élites di cogliere il sentire e il pensare delle elettrici e degli elettori, individuandone i bisogni per manipolarli con false promesse e soluzioni illusorie.
Si può inoltre ritenere che la vittoria di Trump confermi il potere delle nuove reti di comunicazione e di chi le possiede e controlla, i social network che intrigano in primo luogo i giovani prevalentemente estranei ai mass media tradizionali, giornali e televisione.
Mass media tradizionali che svolgono anch’essi un ruolo significativo nello spiegare vittorie e sconfitte elettorali. Si osserva infatti una distinzione tra giornali e reti televisive rivolte a un pubblico di livello culturale più elevato e giornali e reti televisive che, per brevità, potremmo definire ‘pop’. Se ci si riferisce all’Italia, tra i primi, La Repubblica, La Stampa, Messaggero, Corriere della Sera, la Terza Rete della Tv di Stato, La 7, che oltre a essere più critici nei confronti del governo, approfondiscono temi politici ed economici; tra i secondi, quelli pop, i giornali del gruppo Quotidiano Nazionale, (Nazione, Resto del Carlino), la prima e la seconda Rete della Tv di Stato, i canali del gruppo Mediaset; tutti favorevoli senza se e senza ma alla maggioranza al governo, glissano sulle sue difficoltà, e dedicano molto spazio alla cronache mondane e nere. Così, se i mass media tradizionali, compresi i giornali di partito o di parte possono solo confermare e rinforzare opinioni già formate, le nuove reti di comunicazione, i social, hanno campo libero nel trasformare, deformare, manipolare le opinioni.
Anche in riferimento al ruolo dei mass media tradizionali e nuovi, andrebbe preso in considerazione il problema posto dal cambiamento in atto del livello culturale del corpo elettorale. Al di là delle diversità tra Europa e Stati Uniti si può ipotizzare un generale progressivo abbassamento di tale livello culturale, soprattutto un processo di anomia dovuto alla rapidità dei cambiamenti oltre che alla crisi delle élites, della scuola, delle agenzie di socializzazione con la scomparsa dei vecchi partiti, in Italia la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che svolgevano una funzione educativa e di formazione. Una manifestazione di tale anomia è la sfiducia e diffidenza verso gli esperti – emersa prepotentemente nel periodo del Covid – compresi insegnanti e medici; sfiducia e diffidenza che talora si manifestano con aggressività.
Si pone, ultimo non per importanza, il problema dell’astensionismo da spiegare nelle sue molteplici cause. Tra queste la sfiducia verso le istituzioni a partire da quelle in più diretto rapporto con i cittadini: i Comuni con la polizia locale, gli uffici tributari, le/gli assistenti sociali. Sarebbe interessante verificare se l’astensionismo è più elevato dove tali istituzioni funzionano peggio.
Di fronte alla complessità di questi e altri problemi, colpiscono le spiegazioni della crisi e degli insuccessi elettorali della sinistra sovente date da giornalisti, opinionisti, esperti vari; spiegazioni che non sono altro che slogan ripetitivi: “la sinistra non fa opposizione”, “è chiusa nelle Ztl”, “è arrogante, antipatica”, o più semplicemente “l’opposizione non esiste”; e così via cantando o talkshoweggiando. Solo slogan, in quanto pretendono di spiegare senza essere spiegati. Alcuni studiosi, volendo approfondire l’argomento, attribuiscono gli insuccessi della sinistra – della Harris come della nostrana – all’aver “rinunciato alla stella polare dell’eguaglianza a favore di quella dell’inclusione”, così tra gli ultimi Ricolfi estrapolando da Bobbio (La Stampa, 10 Novembre ‘24). La sinistra inoltre sarebbe stata coinvolta o infettata dalla “crisi woke” con la sua cancel culture, dalle ridicolaggini del politicamente iper corretto ecc. Ma questi rischiano di essere dei “luoghi comuni”, common places come vengono definiti nella letteratura internazionale che si occupa del senso comune, del suo linguaggio e delle sue retoriche (M. Billig, Ideologia e opinione. Studi di Psicologia retorica, Laterza ditore, 1995). Se si analizzasse la comunicazione della sinistra in Italia, dei suoi leader, si potrebbe scoprire che i suoi contenuti ampiamente prevalenti riguardano l’uguaglianza e non l’inclusione. Può succedere però che anche un semplice riferimento ai diritti dei transgender o al genere come libera scelta possa avere un “effetto di salienza”, emergendo e catturando l’attenzione, ponendo in ombra, annullando quasi la pur prevalente comunicazione sull’eguaglianza o, ad esempio, sul salario minimo.
È paradossale, se non ridicolo, che a cascare in simili luoghi comuni non siano, come si ritiene usualmente, delle persone comuni (laymen) ma studiosi ed esperti.
È inoltre legittimo chiedersi perché “l’eguaglianza” e “l’inclusione” debbano essere considerate delle alternative: aut aut. Dopo aver respinto certe assurdità della cancel culture, che possono essere spiegate solo da un eccesso di ignoranza, dopo aver analizzato e individuato diritti che non possono essere considerati tali, perché non lottare per avere il pane e le rose?
La “incredibile” vittoria di Trump, le sconfitte della sinistra negli Stati Uniti e in Europa pongono quindi problemi che andrebbero indagati in primo luogo empiricamente, a partire dall’analisi dei sistemi elettorali e dei risultati, del loro andamento, di come si disgregano, della misura delle vittorie e delle sconfitte. Indagini e ricerche come quelle presentate nel recente volume curato da Marc Lazar, Crisis and Challenges of the European Left (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2024).
Sarebbe inoltre necessario condurre ricerche qualitative che rilevassero ed analizzassero il linguaggio, i discorsi, per (tentare di) rilevare il sentire e il pensare delle persone. Ricerche in grado di analizzare tra l’altro “i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo e nel comportamento elettorale delle donne” opportunamente indicati da Ricolfi come “uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni”.
Allo stesso modo si continua a ripetere autorevolmente che i “I dem stanno perdendo il favore dei lavoratori e della middle class e che non hanno fatto nulla per riconquistarlo… che le élites democratiche sono generalmente distanti dai lavoratori.” (Daron Agemoglu, premio Nobel per l’economia). Ma manca una analisi che spieghi perché questo è successo. Se la politica di Biden ha favorito i lavoratori perché non li ha riconquistati, non in misura sufficiente? Quali gli errori della sinistra? Quale il peso del suo atteggiamento, per altro non ben spiegato, indiscriminatamente a favore dell’immigrazione? Quando e come è successo che le élite democratiche, negli Stati Uniti come in Italia, hanno perso il contato con quelle che venivano definite ‘masse’? Una definizione fuorviante se fa pensare a un tutto indifferenziato o tendenzialmente omogeneo, essendo invece un insieme in continuo cambiamento di categorie e classi sociali (si veda su questo da ultimo G. Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza editore, 2024 e l’articolo di Brotini, ” Le classi sociali esistono. E anche il conflitto” in Left, dicembre 2024). A quali cambiamenti del contesto storico e culturale e delle (ex) masse può essere attribuita tale perdita di contatto? Può essere attribuita anche allo “stile”, alle modalità di comunicazione di certi leader della sinistra? Non trascurando il ruolo della comunicazione non verbale che è quella più diretta ed efficace. Pensando a quello che in un momento decisivo di cambiamento (gli anni 90 del secolo scorso) fu un leader della sinistra italiana, e a quanti lo attorniavano adulanti, si ricordano le scarpe di pregio esibite, i gusti culinari ostentatamente raffinati, la “barca” che non era più la barchetta familiare di Berlinguer. Comportamenti politicamente motivati forse dal voler conquistare la fiducia delle classi più elevate. Queste sono rimaste dove erano, le classi lavoratrici e medie si sono allontanate. Comunicazioni non verbali, stili di comportamento lontani e che allontanano, caratteristici talora di leader e opinion leader della sinistra; dettagli certo che tuttavia meriterebbero di essere considerati.
Si delinea in definitiva un ampio e complesso campo di ricerca per studiosi che, non limitandosi a criticare con livore la sinistra, volessero dare un contributo al suo riscatto.
L’autore: Francesco Paolo Colucci già professore ordinario di Psicologia sociale, Università di Milano Bicocca
sabato 4 gennaio 2025
10 anni senza Pino Daniele.
Il ricordo di Pino Daniele al Gambrinus
Si è svolto a Napoli, in piazza Trieste e Trento, all'esterno dei locali del Caffè storico Gambrinus l'evento 'Nuje stamm' vicino a te', organizzato per ricordare Pino Daniele a dieci anni dalla sua prematura scomparsa. Una iniziativa, promossa da Francesco Emilio Borrelli, Antonio e Arturo Sergio, Massimiliano Rosati e Michele Sergio, a cui hanno assistito napoletani e turisti.
Durante l'evento è stato distribuito il famoso e tradizionale «Pinuccio» dolce prodotto e regalato, solo in occasione della celebrazione della nascita e della morte dello straordinario artista partenopeo, dai laboratori del Gambrinus. «Sono tante le canzoni di Pino che ci hanno lasciato un messaggio prezioso per il futuro della città - ha dichiarato Borrelli. Pensiamo, ad esempio a Napul'è che invita a smetterla con i comportamenti incivili e strafottenti nei confronti del nostro territorio. Il cambiamento dipende da noi e questo invito dobbiamo coglierlo a pieno. Pino ha cantato la città amandola, ma anche criticandola quando era giusto farlo. A dieci anni dalla sua scomparsa resta un enorme vuoto e noi gli renderemo omaggio oggi e per sempre».
Particolarmente emozionati sono apparsi Massimiliano Rosati e Michele Sergio: «Vogliamo ricordare Pino non solo perché è stato un grandissimo artista, ma per tutte le emozioni che ci ha lasciato e per tutto ciò che ha fatto per la nostra città. Lo festeggiamo dedicandogli un dolcetto, che abbiamo chiamato Pinuccio, per ricordarlo in maniera 'dolce'. Ricordiamo anche il nostro legame con una sua canzone in particolare, 'na tazzulella 'e cafè', che ci invita a costruire una Napoli migliore e un'Italia migliore».
Uno dei ricordi più belli legati alle reazione della morte di Pino Daniele, riguarda la partita Napoli Juve, subito successiva. I tifosi del Napoli, infatti, prima del fischio d'inizio, all'ingresso in campo della squadre, iniziarono a cantare Napule è, mostrando uno stadio e un'intera città in lacrime per la morte di Pino Daniele.
La società italiana degli autori ha celebrato i decennale pubblicando le prime immagini delle bozze di “Again”, brano postumo presentato in esclusiva allo Stadio Maradona.
venerdì 3 gennaio 2025
... GENOCIDIO ... e DITTATURA!!
COMUNITÀ EBRAICHE ITALIANE CONTRO PAPA FRANCESCO E AMNESTY INTERNATIONAL
Oggi i bombardamenti israeliani su Gaza hanno causato 67 morti ma i rappresentanti delle Comunità ebraiche italiane attaccano Papa Francesco e Amnesty International - Italia.
Proseguono purtroppo anche nel 2025 gli attacchi dei rappresentanti delle Comunità Ebraiche italiane nei confronti di chi condanna i crimini israeliani e chiede di fermare il massacro a Gaza. La presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Noemi Di Segni attacca persino Papa Francesco, reo di aver accusato Israele di 'crudeltà' verso i bambini palestinesi e di aver chiesto di smetterla di 'colonizzare i popoli con le armi'.
Al contrario della presidente Noemi Di Segni noi pensiamo che da biasimare sia la complicità del nostro governo e dell'Unione Europea con Netanyahu ed esprimiamo la nostra solidarietà a Papa Francesco. Di Segni, dichiarando che ora diventa difficile invitare Papa Francesco in sinagoga, di fatto identifica l'ebraismo con Israele e il suo governo criminale.
Ci pare che questo sia un atteggiamento che alimenta l'antisemitismo.
Anche Amnesty International ha ricevuto l'anatema in queste ore.
Il presidente della Comunità ebraica di Venezia Dario Calimani ha chiesto di vietare un evento all'Ateneo Veneto promosso da Amnesty sul genocidio in corso a Gaza.
Comprendiamo che possa dare fastidio che lo stato ebraico sia accusato di genocidio ma il modo migliore per evitarlo è che la Comunità ebraica italiana si unisca alle tante voci di ebrei che in tutto il mondo si dissociano dai crimini di Netanyahu e chiedono il cessate il fuoco e la fine dell'occupazione. Non è accettabile l'accusa rivolta a Amnesty international di fomentare l'odio.
Facciamo presente che le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani - tra cui Amnesty e Human Rights Watch - hanno pubblicato rapporti in cui si definisce genocidio quello che Israele sta portando avanti a Gaza e che la stessa Corte Internazionale di Giustizia ha definito plausibile l'accusa di genocidio su cui è stato aperto un procedimento su iniziativa del Sud Africa.
Facciamo presente a Dario Calimani che nessuno identifica gli ebrei italiani con Israele e fortunatamente ci sono nel nostro paese e in tutto il mondo tante voci che si sono schierate contro i crimini di Netanyahu con appelli e partecipando a manifestazioni.
Purtroppo da Roma a Venezia a Milano sono i rappresentanti delle Comunità ebraiche che scelgono di indentificarsi con Israele difendendo l'indifendibile.
Ricordiamo che in passato voci autorevolissime come Primo Levi e Natalia Ginzburg condannarono con nettezza i crimini di Sharon. Oggi pare che sia indice di antisemitismo condannare i crimini di un governo di fascisti e criminali come quello Netanyahu.
Esprimiamo la nostra solidarietà alla presidente dell'Ateneo Veneto Antonella Magaraggia che non ha ceduto a queste assurde richieste di censura.
Un pacifista storico del nostro paese, Ŕaniero La Valle ha scritto una lettera aperta alle Comunità Ebraiche - che ho sottoscritto - che spero prima o poi apra un confronto costruttivo.
Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista
#stopgenocidio #AmnestyInternational
Il 3 gennaio 1925 si chiudeva una lunga stagione di libertà in Italia: con un celebre discorso alla Camera, il capo del governo Benito Mussolini si assumeva la responsabilità "politica, morale e storica" del delitto Matteotti.
Il parlamentare socialista era stato rapito e ucciso da sicari fascisti il 10 giugno dell'anno precedente. Per alcuni mesi il governo autoritario di Mussolini pareva essere sull'orlo della fine, fu salvato dalle divisioni politiche dei suoi oppositori e dal sostegno determinante di re Vittorio Emanuele III.
Nel 1925 la "riscossa" mussoliniana porterà alla dittatura, a vent'anni di feroce e oppressiva dittatura che portò il nostro Paese alla disastrosa sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.
Nonostante ciò, oggi, in Italia ci sono ancora tante, troppe persone che tendono a minimizzare, riabilitare o esaltare il periodo fascista. Ci sono forze politiche che si continuano a definire "eredi" di quel triste periodo e altre che non vi hanno fatto i conti davvero fino in fondo.
In Consiglio Comunale a Ferrara abbiamo cercato di fare un piccolo, importante, passo avanti votando all'unanimità un documento che impegna tutte le forze politiche a promuovere i valori democratici e antifascisti della nostra Costituzione.
Per arrivare ad un nuovo "patriottismo costituzionale" però servono azioni concrete in quella direzione: gesti simbolici, come eliminare la fiamma tricolore dai simboli di partito, e impegni sostanziali sul rispetto dei principi inderogabili di solidarietà sociale, politica ed economica verso tutte le persone presenti in Italia.
L'anno che verrà è appena iniziato, speriamo che porti una prima e importante novità: chiudere i conti con un passato che non passa, senza dimenticare che in un mondo complicato e pieno di pulsioni autoritarie difendere la democrazia è ancora nostra responsabilità... politica, morale, storica.
#italia #passatoepresente #3gennaio #fascismo #democrazia
giovedì 2 gennaio 2025
... Ciao Aldo! ...
Malato da tempo, si è spento nella sua Piombino all'età di 80 anni. Calciatore, allenatore, opinionista: sempre anticonformista. Per lui il granata era davvero una seconda pelle
Noooo😭...Aldo...
Mancherai un mondo... ora gioca con i nostri Invincibili che ti accoglieranno in squadra con loro!!!
Sei stato, sei e rimarrai per sempre un vero granata...
Dalle 200 presenze nel Torino alla panchina nella Fiorentina
"La mia vita in maglia granata è stata meravigliosa e non ho rimpianti per non aver giocato in grandi club", diceva delle sue oltre 200 presenze a Torino
Era da giorni ricoverato in ospedale e nella mattinata di giovedì è morto Aldo Agroppi, ex calciatore, su tutti, del Torino ed ex allenatore che aveva compiuto 80 anni ad aprile. Intorno alle 11 la salma sarà portata alla sala del commiato della Pubblica assistenza di Piombino.
Nato nella cittadina costiera in provincia di Livorno, è proprio con la maglia della squadra locale che è cresciuto calcisticamente. Ma il fulcro di tutta la sua carriera è colorato di granata, grazie alle sue oltre 200 presenze con la maglia del Torino, squadra con la quale ha esordito in Serie A nella stagione 1967-68. “La mia vita in maglia granata è stata meravigliosa e non ho rimpianti per non aver giocato in grandi club”, ha sempre dichiarato a chi gli chiedeva se avesse voluto fare l’ultimo grande salto tra le big. Anche se da centrocampista può vantare cinque presenze in Nazionale.
Più movimentata la sua carriera da allenatore, dove ha diretto diverse squadre importanti: tra i successi la promozione in Serie A alla guida del Pisa di Romeo Anconetani nel 1981-82, ad esempio, poi la massima serie con Perugia, Padova e Como, senza dimenticare l’approdo alla Fiorentina. Conclusa l’avventura da allenatore, per molti anni aveva fatto il commentatore, anche in Rai.
mercoledì 1 gennaio 2025
... 58° giornata ...
MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVIII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2025
Rimetti a noi i nostri debiti, concedici la tua pace
I. In ascolto del grido dell’umanità minacciata
1. All’alba di questo nuovo anno donatoci dal Padre celeste, tempo Giubilare dedicato alla speranza, rivolgo il mio più sincero augurio di pace ad ogni donna e uomo, in particolare a chi si sente prostrato dalla propria condizione esistenziale, condannato dai propri errori, schiacciato dal giudizio altrui e non riesce a scorgere più alcuna prospettiva per la propria vita. A tutti voi speranza e pace, perché questo è un Anno di Grazia, che proviene dal Cuore del Redentore!
2. Nel 2025 la Chiesa Cattolica celebra il Giubileo, evento che riempie i cuori di speranza. Il “giubileo” risale a un’antica tradizione giudaica, quando il suono di un corno di ariete (in ebraico yobel) ogni quarantanove anni ne annunciava uno di clemenza e liberazione per tutto il popolo (cfr Lv 25,10). Questo solenne appello doveva idealmente riecheggiare per tutto il mondo (cfr Lv 25,9), per ristabilire la giustizia di Dio in diversi ambiti della vita: nell’uso della terra, nel possesso dei beni, nella relazione con il prossimo, soprattutto nei confronti dei più poveri e di chi era caduto in disgrazia. Il suono del corno ricordava a tutto il popolo, a chi era ricco e a chi si era impoverito, che nessuna persona viene al mondo per essere oppressa: siamo fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre, nati per essere liberi secondo la volontà del Signore (cfr Lv 25,17.25.43.46.55).
3. Anche oggi, il Giubileo è un evento che ci spinge a ricercare la giustizia liberante di Dio su tutta la terra. Al posto del corno, all’inizio di quest’Anno di Grazia, noi vorremmo metterci in ascolto del «grido disperato di aiuto» [1] che, come la voce del sangue di Abele il giusto, si leva da più parti della terra (cfr Gen 4,10) e che Dio non smette mai di ascoltare. A nostra volta ci sentiamo chiamati a farci voce di tante situazioni di sfruttamento della terra e di oppressione del prossimo [2]. Tali ingiustizie assumono a volte l’aspetto di quelle che S. Giovanni Paolo II definì «strutture di peccato» [3], poiché non sono dovute soltanto all’iniquità di alcuni, ma si sono per così dire consolidate e si reggono su una complicità estesa.
4. Ciascuno di noi deve sentirsi in qualche modo responsabile della devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune, a partire da quelle azioni che, anche solo indirettamente, alimentano i conflitti che stanno flagellando l’umanità. Si fomentano e si intrecciano, così, sfide sistemiche, distinte ma interconnesse, che affliggono il nostro pianeta [4]. Mi riferisco, in particolare, alle disparità di ogni sorta, al trattamento disumano riservato alle persone migranti, al degrado ambientale, alla confusione colpevolmente generata dalla disinformazione, al rigetto di ogni tipo di dialogo, ai cospicui finanziamenti dell’industria militare. Sono tutti fattori di una concreta minaccia per l’esistenza dell’intera umanità. All’inizio di quest’anno, pertanto, vogliamo metterci in ascolto di questo grido dell’umanità per sentirci chiamati, tutti, insieme e personalmente, a rompere le catene dell’ingiustizia per proclamare la giustizia di Dio. Non potrà bastare qualche episodico atto di filantropia. Occorrono, invece, cambiamenti culturali e strutturali, perché avvenga anche un cambiamento duraturo [5].
II. Un cambiamento culturale: siamo tutti debitori
5. L’evento giubilare ci invita a intraprendere diversi cambiamenti, per affrontare l’attuale condizione di ingiustizia e diseguaglianza, ricordandoci che i beni della terra sono destinati non solo ad alcuni privilegiati, ma a tutti [6]. Può essere utile ricordare quanto scriveva S. Basilio di Cesarea: «Ma quali cose, dimmi, sono tue? Da dove le hai prese per inserirle nella tua vita? […] Non sei uscito totalmente nudo dal ventre di tua madre? Non ritornerai, di nuovo, nudo nella terra? Da dove ti proviene quello che hai adesso? Se tu dicessi che ti deriva dal caso, negheresti Dio, non riconoscendo il Creatore e non saresti riconoscente al Donatore» [7]. Quando la gratitudine viene meno, l’uomo non riconosce più i doni di Dio. Nella sua misericordia infinita, però, il Signore non abbandona gli uomini che peccano contro di Lui: conferma piuttosto il dono della vita con il perdono della salvezza, offerto a tutti mediante Gesù Cristo. Perciò, insegnandoci il “Padre nostro”, Gesù ci invita a chiedere: «Rimetti a noi i nostri debiti» ( Mt 6,12).
6. Quando una persona ignora il proprio legame con il Padre, incomincia a covare il pensiero che le relazioni con gli altri possano essere governate da una logica di sfruttamento, dove il più forte pretende di avere il diritto di prevaricare sul più debole [8]. Come le élites ai tempi di Gesù, che approfittavano delle sofferenze dei più poveri, così oggi nel villaggio globale interconnesso [9], il sistema internazionale, se non è alimentato da logiche di solidarietà e di interdipendenza, genera ingiustizie, esacerbate dalla corruzione, che intrappolano i Paesi poveri. La logica dello sfruttamento del debitore descrive sinteticamente anche l’attuale “crisi del debito”, che affligge diversi Paesi, soprattutto del Sud del mondo.
7. Non mi stanco di ripetere che il debito estero è diventato uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei Paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati [10]. A ciò si aggiunga che diverse popolazioni, già gravate dal debito internazionale, si trovano costrette a portare anche il peso del debito ecologico dei Paesi più sviluppati [11]. Il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia, di questa logica di sfruttamento, che culmina nella crisi del debito [12]. Prendendo spunto da quest’anno giubilare, invito la comunità internazionale a intraprendere azioni di condono del debito estero, riconoscendo l’esistenza di un debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo. È un appello alla solidarietà, ma soprattutto alla giustizia [13].
8. Il cambiamento culturale e strutturale per superare questa crisi avverrà quando ci riconosceremo finalmente tutti figli del Padre e, davanti a Lui, ci confesseremo tutti debitori, ma anche tutti necessari l’uno all’altro, secondo una logica di responsabilità condivisa e diversificata. Potremo scoprire «una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri» [14].
III. Un cammino di speranza: tre azioni possibili
9. Se ci lasciamo toccare il cuore da questi cambiamenti necessari, l’Anno di Grazia del Giubileo potrà riaprire la via della speranza per ciascuno di noi. La speranza nasce dall’esperienza della misericordia di Dio, che è sempre illimitata [15].
Dio, che non deve nulla a nessuno, continua a elargire senza sosta grazia e misericordia a tutti gli uomini. Isacco di Ninive, un Padre della Chiesa orientale del VII secolo, scriveva: «Il tuo amore è più grande dei miei debiti. Poca cosa sono le onde del mare rispetto al numero dei miei peccati, ma se pesiamo i miei peccati, in confronto al tuo amore, svaniscono come un nulla» [16]. Dio non calcola il male commesso dall’uomo, ma è immensamente «ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato» ( Ef 2,4). Al tempo stesso, ascolta il grido dei poveri e della terra. Basterebbe fermarsi un attimo, all’inizio di quest’anno, e pensare alla grazia con cui ogni volta perdona i nostri peccati e condona ogni nostro debito, perché il nostro cuore sia inondato dalla speranza e dalla pace.
10. Gesù, per questo, nella preghiera del “Padre nostro”, pone l’affermazione molto esigente «come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» dopo che abbiamo chiesto al Padre la remissione dei nostri debiti (cfr Mt 6,12). Per rimettere un debito agli altri e dare loro speranza occorre, infatti, che la propria vita sia piena di quella stessa speranza che giunge dalla misericordia di Dio. La speranza è sovrabbondante nella generosità, priva di calcoli, non fa i conti in tasca ai debitori, non si preoccupa del proprio guadagno, ma ha di mira solo uno scopo: rialzare chi è caduto, fasciare i cuori spezzati, liberare da ogni forma di schiavitù.
11. Vorrei, pertanto, all’inizio di quest’Anno di Grazia, suggerire tre azioni che possano ridare dignità alla vita di intere popolazioni e rimetterle in cammino sulla via della speranza, affinché si superi la crisi del debito e tutti possano ritornare a riconoscersi debitori perdonati.
Anzitutto, riprendo l’appello lanciato da S. Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo dell’anno 2000, di pensare a una «consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni» [17]. Riconoscendo il debito ecologico, i Paesi più benestanti si sentano chiamati a far di tutto per condonare i debiti di quei Paesi che non sono nella condizione di ripagare quanto devono. Certamente, perché non si tratti di un atto isolato di beneficenza, che rischia poi di innescare nuovamente un circolo vizioso di finanziamento-debito, occorre, nello stesso tempo, lo sviluppo di una nuova architettura finanziaria, che porti alla creazione di una Carta finanziaria globale, fondata sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli.
Inoltre, chiedo un impegno fermo a promuovere il rispetto della dignità della vita umana, dal concepimento alla morte naturale, perché ogni persona possa amare la propria vita e guardare con speranza al futuro, desiderando lo sviluppo e la felicità per sé e per i propri figli. Senza speranza nella vita, infatti, è difficile che sorga nel cuore dei più giovani il desiderio di generare altre vite. Qui, in particolare, vorrei ancora una volta invitare a un gesto concreto che possa favorire la cultura della vita. Mi riferisco all’eliminazione della pena di morte in tutte le Nazioni. Questo provvedimento, infatti, oltre a compromettere l’inviolabilità della vita, annienta ogni speranza umana di perdono e di rinnovamento [18].
Oso anche rilanciare un altro appello, richiamandomi a S. Paolo VI e a Benedetto XVI [19], per le giovani generazioni, in questo tempo segnato dalle guerre: utilizziamo almeno una percentuale fissa del denaro impiegato negli armamenti per la costituzione di un Fondo mondiale che elimini definitivamente la fame e faciliti nei Paesi più poveri attività educative e volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, contrastando il cambiamento climatico [20]. Dovremmo cercare di eliminare ogni pretesto che possa spingere i giovani a immaginare il proprio futuro senza speranza, oppure come attesa di vendicare il sangue dei propri cari. Il futuro è un dono per andare oltre gli errori del passato, per costruire nuovi cammini di pace.
IV. La meta della pace
12. Coloro che intraprenderanno, attraverso i gesti suggeriti, il cammino della speranza potranno vedere sempre più vicina la tanto agognata meta della pace. Il Salmista ci conferma in questa promessa: quando «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» ( Sal 85,11). Quando mi spoglio dell’arma del credito e ridono la via della speranza a una sorella o a un fratello, contribuisco al ristabilimento della giustizia di Dio su questa terra e mi incammino con quella persona verso la meta della pace. Come diceva S. Giovanni XXIII, la vera pace potrà nascere solo da un cuore disarmato dall’ansia e dalla paura della guerra [21].
13. Che il 2025 sia un anno in cui cresca la pace! Quella pace vera e duratura, che non si ferma ai cavilli dei contratti o ai tavoli dei compromessi umani [22]. Cerchiamo la pace vera, che viene donata da Dio a un cuore disarmato: un cuore che non si impunta a calcolare ciò che è mio e ciò che è tuo; un cuore che scioglie l’egoismo nella prontezza ad andare incontro agli altri; un cuore che non esita a riconoscersi debitore nei confronti di Dio e per questo è pronto a rimettere i debiti che opprimono il prossimo; un cuore che supera lo sconforto per il futuro con la speranza che ogni persona è una risorsa per questo mondo.
14. Il disarmo del cuore è un gesto che coinvolge tutti, dai primi agli ultimi, dai piccoli ai grandi, dai ricchi ai poveri. A volte, basta qualcosa di semplice come «un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito» [23]. Con questi piccoli- grandi gesti, ci avviciniamo alla meta della pace e vi arriveremo più in fretta, quanto più, lungo il cammino accanto ai fratelli e sorelle ritrovati, ci scopriremo già cambiati rispetto a come eravamo partiti. Infatti, la pace non giunge solo con la fine della guerra, ma con l’inizio di un nuovo mondo, un mondo in cui ci scopriamo diversi, più uniti e più fratelli rispetto a quanto avremmo immaginato.
15. Concedici, la tua pace, Signore! È questa la preghiera che elevo a Dio, mentre rivolgo gli auguri per il nuovo anno ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leader delle diverse religioni, ad ogni persona di buona volontà.
Rimetti a noi i nostri debiti, Signore,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e in questo circolo di perdono concedici la tua pace,
quella pace che solo Tu puoi donare
a chi si lascia disarmare il cuore,
a chi con speranza vuole rimettere i debiti ai propri fratelli,
a chi senza timore confessa di essere tuo debitore,
a chi non resta sordo al grido dei più poveri.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2024
FRANCESCO
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