martedì 5 marzo 2024

... 5 marzo 1922 ...

Il 5 marzo 1922 nasceva Pier Paolo Pasolini: «La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare». 



 Dopo l’abiura. Attualità e inattualità dell’ultimo Pasolini .

Scritto da Paolo Desogus 

 Nella vasta e articolata produzione dell’ultimo Pasolini L’abiura dalla “Trilogia della vita”[1] occupa una posizione del tutto particolare, e questo non soltanto per il solenne atto di sconfessione della poetica che ha ispirato i tre film realizzati tra il 1971 e il 1974, ovvero il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. Vi è in quelle parole anche un significato più largo, che coinvolge il percorso prima letterario e poi cinematografico dell’autore, soprattutto in riferimento al particolare rapporto dell’autore con i subalterni, considerati fino a quel momento come i più autentici depositari di un vitalismo irriducibile, poiché ancorato alla corporeità, alla dimensione biologica, insomma a ciò che persiste alle trasformazioni della storia. Secondo la poetica anteriore all’Abiura, mostrare il corpo, liberare la sua nuda espressività, le sue forme educate dal lento adattamento ai territori, ai costumi e alle abitudini delle realtà popolari escluse dai processi di trasformazione risponde a un’esigenza niente affatto impolitica o di ripiegamento verso l’individualità. Al contrario, in questo “fuori” rispetto alla storia, Pasolini cerca un’ultima radicale opposizione al neocapitalismo. Il “corpo popolare” raccontato attraverso le novelle del Decameron, dei Racconti di Canterbury e delle vicende delle Mille e una notte sarebbe infatti in grado di custodire un sentimento della vita e, anzi, un desiderio della vita che il consumismo con i suoi prodotti e i suoi miti non sarebbe stato in grado di soddisfare. La forza oppositiva del suo cinema e in particolare dei film della Trilogia risiederebbe infatti proprio nella capacità di mostrare, di dare evidenza fisica a tale riserva di umanità attraverso i visi, i gesti e l’espressività dei subalterni. L’esito è tuttavia opposto alle attese. Secondo l’autore, la libertà dei corpi espressa nella Trilogia avrebbe aperto il varco a un’ulteriore avanzata del neocapitalismo. “Tutto si è rovesciato” scrive Pasolini nell’Abiura. L’erotismo, il coito, i sessi mostrati nei suoi film, superando la censura, vengono fatti propri dal nuovo potere consumistico. Egli vive in questo senso la contraddizione di chi combattendo il vecchio moralismo borghese non ha in realtà fatto altro che favorire il progresso di un nuovo potere ancora più pervasivo e oppressivo, insomma di un “nuovo fascismo” capace di mercificare e assoggettare mediante i costumi e i riti del consumo quella forza vitale che fino a quel momento gli era parsa irriducibile e quindi intrinsecamente oppositiva. Pasolini e la trasformazione antropologica del Paese L’argomentazione attraverso cui conduce questa autocritica non si limita al presente, ma assume valore retroattivo e si spinge fino a mettere in discussione gran parte della sua opera precedente. Secondo l’autore, se il potere è potuto penetrare in questa realtà fuori dalla storia, questo significa che l’opposizione fondata sulla corporeità era vana sin dal principio: era illusorio credere nella radicale alterità del “corpo popolare” dal momento che la sua successiva trasformazione esisteva in potenza prima dell’involuzione consumistica. Abiurando alla Trilogia, Pasolini sconfessa quindi tutta quella parte della sua opera fondata sull’“estetica passione”, sull’attaccamento viscerale ai diseredati della terra, alla loro fisicità, alla violenza espressiva dei loro corpi, del loro dialetto, dei loro sentimenti. Anche quel mondo è oramai parte integrante dell’“universo orrendo” al quale aveva cercato di opporsi. È questa del resto l’epoca in cui nei suoi scritti giornalistici egli assume con rassegnazione il compimento della mutazione antropologica iniziata alla fine degli anni Cinquanta con i primi effetti del boom economico e proseguita, secondo la lettura offerta nelle pagine corsare, con le lotte degli studenti del 1968 e la battaglia per il divorzio del 1974. Suscitando non poche polemiche tra gli intellettuali di sinistra, nei suoi scritti corsari e luterani Pasolini afferma che i processi di emancipazione avrebbero finito per produrre solo una falsa tolleranza di cui beneficia il potere capitalistico. Quella del nuovo potere sarebbe infatti una strategia inclusiva e allo stesso tempo repressiva, capace cioè di assorbire e metabolizzare le forme di opposizione per depotenziarle sino a neutralizzarle del tutto. Di questa fase non deve sorprendere il problematico quanto paradossale giudizio verso il Partito Comunista Italiano. Pasolini riconosce infatti ai comunisti di essere l’unica forza conservatrice del Paese capace di mantenere un legame con le tradizioni delle classi popolari. La sua analisi assume nondimeno toni critici quando, come per il divorzio, le scelte del PCI avrebbero intrapreso la direzione di quel falso progresso che nasce dai comportamenti propagandati dalla società dei consumi e non in seno a una cultura laica e allo stesso tempo popolare. Pasolini si pone dunque in una posizione diametralmente opposta a quella delle formazioni collocate alla sinistra del PCI. Nella sua lettura la responsabilità del PCI non è quella di essere troppo arretrato, ma al contrario quella di essere troppo moderno, di non saper resistere a quegli impulsi progressisti frutto in realtà di una trasformazione che non emancipa le classi popolari, ma al contrario le ingabbia entro una forma di vita che annichilisce proprio quell’ethos comunitario e composito della realtà italiana, articolata in una pluralità di dialetti, tradizioni e costumi differenti. Alla luce di questa lettura, l’ultima produzione pasoliniana è segnata da un disperato pessimismo. L’autore giunge persino a disprezzare i corpi insieme a quell’universo popolare che in precedenza aveva ispirato i suoi scritti letterari e i suoi film. Due opere in particolare, entrambe del 1975, caratterizzano questa fase. La prima è il film Salò o le 120 giornate di Sodoma, in cui l’esperienza della Repubblica Sociale diviene la metafora del nuovo fascismo consumista. La seconda è La nuova gioventù e consiste in una riscrittura, o meglio in una profanazione, delle poesie friulane raccolte nel 1954 nella Meglio gioventù. Entrambe prendono di mira la corporeità: Salò con la brutale violenza che i gerarchi fascisti esercitano sui giovani proletari rapiti e condotti in una villa isolata dal conflitto bellico; La nuova gioventù con la violazione dell’antico dialetto usato in virtù della sua pura oralità come lingua letteraria per i primi componimenti. Servirsi di quella parlata, che prima di allora nessuno aveva mai usato per scrivere, era stato infatti il tentativo di fissare e dare forma scritta a una materia espressiva che nasceva direttamente dal corpo dei parlanti, dalla loro esperienza con la realtà. Ad ogni modo la violenza di Salò, ma soprattutto la profanazione operata ne La nuova gioventù costituiscono la forma cinematografica e letteraria dell’abiura pasoliniana. Numerosi critici si sono a questo proposito interrogati sul carattere della sua opera, giudicato in alcuni momenti reazionario, soprattutto in merito al suo sguardo disperato e lacerato rivolto verso i subalterni e la loro innocenza perduta. Tra questi il più celebre è senz’altro Italo Calvino che in un’intervista del 1974 critica duramente l’ipotesi di una mutazione antropologica che si sarebbe verificata nel paese e attribuisce a Pasolini un atteggiamento nostalgico per “la sua Italietta contadina”. Alla luce delle ulteriori trasformazioni verificatesi nel nostro paese è però oggi difficile negare a Pasolini l’esattezza della diagnosi, così come il torto dei suoi critici. Poco importa se essa sia nata dal sentimento del rimpianto del passato o addirittura da una pulsione reazionaria. Il dato che resta mostra che l’Italia ha effettivamente subito una trasformazione antropologica che ha mutato il paesaggio, la lingua, e che ha assoggettato le classi popolari e i loro desideri. Pasolini e la modernità L’interrogativo che l’analisi pasoliniana rilancia impone dunque di prendere seriamente in esame l’idea attuale di modernità, soprattutto ora che la recente crisi economica e le sempre più diffuse diseguaglianze hanno disatteso la promessa di benessere propagandata dalla società dei consumi. Alla fase inclusiva e tollerante del boom e delle lotte per l’emancipazione, segue ora una ulteriore strategia orientata a produrre forme di esclusione che sembravano essere state definitivamente superate, ma che in realtà appartengono alla logica del modello economico e sociale dominante, come appunto aveva osservato Pasolini. Quello che negli anni Settanta era parso a numerosi critici uno sguardo retrospettivo e nostalgico, tutto rivolto verso un passato e verso un’idea di umanità che non ha trovato compimento politico, getta oggi luce sul futuro, sulla necessità di rielaborare forme alternative di modernità di cui devono farsi carico i soggetti politici organizzati. Quello che forse non prevedeva Pasolini o che non ha manifestamente espresso è la crisi del rapporto tra classi popolari e gruppi dirigenti. Nonostante il suo sguardo lungo e profetico, anche per lo scrittore era certamente difficile immaginare la scomparsa senza eredi del maggior partito comunista d’occidente, capace di integrare la propria idea di socialismo nella democrazia. Lungi dall’assumere inconsistenti atteggiamenti antisistema, Pasolini nel suo articolo più famoso, Il romanzo delle stragi, scriveva: «Credo nei “princìpi formali” della democrazia, credo nel parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista», ovvero l’ottica di chi gramscianamente crede che i gruppi subalterni, abbiano al proprio interno le risorse per educare se stesse all’arte di governo. Interrogarsi sulla modernità in questo senso significa chiedersi in che modo è possibile ricostruire una realtà organizzata in grado di riportare i ceti popolari nella vita democratica dopo la loro esclusione barattata con un precario benessere. Non bisogna tuttavia aspettarsi di trovare nell’opera pasoliniana la formula per risolvere i grandi interrogativi che la sua opera oggi pone alle residue forze della sinistra. Nell’Abiura così come negli altri scritti del 1975 l’autore critica la direzione intrapresa dalla modernità a partire dal boom economico, e lo fa con gli strumenti dello scrittore e del regista cinematografico, dunque badando alle forme espressive, come appunto la lingua, i dialetti, i volti e i paesaggi di cui si serviva. Quello che mostra la sua opera è il profondo nesso tra la dimensione sociale e quella individuale, tra questione antropologica e corporeità, tra la necessità delle forme di mediazione politica e il vitalismo e polimorfo del desiderio. L’importanza accordata dall’ultimo Pasolini a questi temi ha spinto numerosi studiosi a istituire un parallelismo tra la sua opera e quella di Michel Foucault, con particolare attenzione agli studi sulla biopolitica. Più che di un Pasolini foucaultiano si dovrebbe parlare di un Pasolini che si muove verso Foucault o comunque verso alcuni aspetti del suo pensiero. Nel suo ultimo periodo di attività si osserva infatti un progressivo allargamento di prospettiva: in questione non è più solo l’esercizio coercitivo e omologante del potere o il suo falso permissivismo, in questione sono anche gli effetti sul bios che i suoi dispositivi economici, sociali e giuridici producono. Occorre tuttavia osservare che, a differenza di Foucault, non si rileva in Pasolini una rinuncia alle prerogative del politico in favore di un ripiegamento verso le forme individuali della cura di sé – questo, si badi, non si riscontra nemmeno nella fase più tormentata dell’Abiura, che è paradossalmente quella in cui l’autore ha ritrovato un più saldo rapporto con il PCI. Anche la questione intima della corporeità è da lui vissuta sempre entro la dimensione sociale di apertura all’alterità. La sua disperazione così come il suo feroce attacco alla società dei consumi, all’omologazione, al nuovo potere, nascono dalla sempre più estesa restrizione degli spazi di un ethos collettivo che trova nell’eros, nella congiunzione con l’altro il suo fondamento. [

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