Ugo Zamburru
28 Agosto 2020
Poche persone sono riuscite a cambiare il mondo come Franco Basaglia. Sul “dottore dei matti” e la sua lunga marcia cominciata nel manicomio di Gorizia nel 1961, tutto è stato scritto, ma, a quarant’anni dalla morte, non possiamo non rilevare che molto, troppo è stato dimenticato. Eppure, ricordarlo potrà sembrare perfino banale, nei mesi in cui un virus del terrore ha preso il dominio del mondo, la società sembra volersi fare manicomio e mai ci si era spinti a negare tanto la dimensione umana dei “malati” e dei corpi delle vittime del Covid, quanto sarebbe importante far vivere la pienezza di un grande insegnamento come quello di Basaglia: cercare un lessico, un ponte, mettere tra parentesi la malattia per cercare la persona? Basaglia non ha sancito, si spera una volta per sempre, solo come, visto da vicino, nessuno è normale e che chiunque può diventare “matto” nell’istituzione totale. Ha capito e mostrato, soprattutto, come anche le persone dalla salute mentale più fragile possano diventare soggetti della propria liberazione. Basaglia non nega la follia. Dice che non sappiamo cosa sia e che possiamo solo metterci in posizione di ascolto dell’altro e sentire cosa risuona dentro di noi. Ugo Zamburru, psichiatra del Dipartimento di salute mentale a Torino, grande appassionato di vicende e rivoluzioni latinoamericane e nostro antichissimo compagno di speranze ribelli, lo ricorda a modo suo, citando un vecchio insegnamento zapatista che forse a Basaglia sarebbe piaciuto: quel che conta non è che i deboli diventino più forti, ma che – affermando i diritti e le dignità di tutti – i deboli, forti proprio della propria debolezza, possano vivere insieme a chi non lo è. In altri termini e in sole cinque parole: camminare al passo degli ultimi
Quarant’anni fa, il 29 agosto 1980, moriva Franco Basaglia. Tredici anni prima era morto Ernesto Che Guevara. Di loro si parla tantissimo, con uno spartiacque nitido: da una parte i furibondi detrattori, dall’altro gli entusiasti sostenitori. Io cito Gramsci: «odio gli indifferenti!». E non posso non schierarmi apertamente con Franco Basaglia e con il pensiero che lo ha guidato.
Due medici, Basaglia e il Che. Due visionari che mettevano la libertà, i diritti e la giustizia sociale al centro del loro agire.
Ma, come diceva il Che, entrambi erano visionari pratici. Uno ha partecipato all’incredibile vittoria della rivoluzione cubana, un pugno di uomini sbarcato dal piroscafo Granma che ha sconfitto un esercito agguerrito, ben armato e finanziato dalla CIA. L’altro, accompagnato da un manipolo di giovani collaboratori, ha cambiato la storia della psichiatria e ha sancito la fine di quell’orrendo e violento luogo che era il manicomio.
Lasciamo stare il Che e torniamo a Basaglia, a quella che possiamo definire la sua «lunga marcia attraverso le istituzioni», iniziata nel manicomio di Gorizia nel 1961, perfezionata in quello di Trieste e terminata con la legge 180 del 13 maggio 1978, quella che sancì la fine degli ospedali psichiatrici. Non fu un semplice cambio di rotta, ma una rivoluzione morale, culturale e intellettuale: al di là delle modalità organizzative (i centri territoriali di salute mentale, le strutture residenziali e semiresidenziali, i reparti psichiatrici negli ospedali generali, le équipes multiprofessionali) è un nuovo modo di concepire il rapporto con la follia, sancendone per prima cosa i diritti.
Nel 1964, a Londra, Basaglia presenta una relazione dal titolo «La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione». Cita una frase di Antonin Artaud, che durante il suo ricovero in manicomio ammoniva i medici, o meglio il potere di cui erano il braccio armato, con queste parole: «Possiate ricordarvene domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di conversare con questi uomini, nei confronti dei quali, riconoscetelo, non avete altra superiorità che la forza» e conclude affermando che la distruzione del manicomio è un fatto necessario e urgente, se non semplicemente ovvio. Ovvero, la scoperta della libertà è la cosa più ovvia cui la psichiatria potesse giungere.
Ecco la rivoluzione di Basaglia: cercare un lessico, un ponte con le persone, mettere tra parentesi la malattia per cercare la persona. Sostituire il principio di libertà a quello di autorità, attraverso le comunità terapeutiche, ovvero le grandi assemblee all’interno del manicomio che, da luogo di segregazione e oggettivazione, diventa luogo di partecipazione, di ripresa della propria soggettività e, con essa, dei propri diritti. Ma anche doveri: Basaglia non è interessato a santificare il folle, quanto a farlo uscire dall’ozio dello statuto di matto per farlo entrare nel neg-ozio dell’inclusione sociale e dei diritti.
Basaglia non nega la follia. Dice semplicemente che esiste, ma non sappiamo cosa sia e possiamo solo metterci in posizione di ascolto dell’altro e sentire cosa risuona dentro di noi. Un suo allora giovane collaboratore scriveva che di fronte agli impasse, ai vicoli ciechi, Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a far guardare da una altro punto di vista, a capovolgere le situazioni.
Basaglia non è però solo un narratore della realtà del folle, come sono i fenomenologi, riesce a essere anche un trasformatore, decide che la realtà del folle deve essere trasformata, prima ancora che narrata. Per lui la persona che incontra lo psichiatra ha, come prima necessità, non la cura della malattia ma un rapporto umano, di risposte reali, di denaro, di una casa, di una famiglia, insomma di tutto ciò di cui noi medici che lo “curiamo” abbiamo bisogno! E questo non è solo un compito dello psichiatra, ma della politica e in definitiva della società.
Benedetto Saraceno, psichiatra che ha diretto la sezione di salute mentale dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) in un libro recente (Sulla povertà della psichiatria) scrive che l’obiettivo della riabilitazione in salute mentale non è l’autonomia, ma la partecipazione. Non dobbiamo pensare che i deboli diventino forti e quindi autonomi, ma che i deboli possano stare con i forti, con gli stessi diritti, pur restando deboli. Quello che il subcomandante Marcos dalle montagne del sud est messicano, guidando l’esercito zapatista di liberazione nazionale, definisce «camminare al passo degli ultimi».
Mi perdo nelle mille suggestioni e nei brividi che mi dà ripensare al pensiero e all’opera di Franco Basaglia, ma mi fermo qui consigliandovi la lettura almeno di due libri. Uno è un suo testo e si intitola Conferenze brasiliane, una raccolta di pensieri e intuizioni geniali; l’altro è di Piero Cipriano, del 2018, e si intitola Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (qui potete leggerne la bella prefazione di Pier Aldo Rovatti, ndr). E su youtube andate a vedere La città dei matti, fedele e appassionante ricostruzione della storia basagliana.
Basaglia, proprio durante il suo viaggio in Brasile, affermava che in realtà l’esperienza sua e dei suoi collaboratori, che aveva portato l’OMS a definire l’esperienza di Trieste come esempio guida per la psichiatria mondiale, purtroppo non rispecchiava il pensiero e l’agire della maggioranza degli psichiatri. Oggi non resta molto del suo insegnamento, ma esistono tracce importanti da coltivare, il discorso sulla recovery, gli uditori di voci e Ron Coloeman, l’open dialogue, il contrasto alla imperante psichiatria biologista e al modello medicocentrico. Chi vuole può approfondire.
Non mi dilungo. Concludo con un pensiero di speranza: che questi semi di utopie sappiano unirsi e costruire la città che cura, la comunità competente che sa essere anche la comunità dei fragili. Ma non deleghiamo: la salute mentale è una cosa troppo seria per lasciarla solo agli psichiatri, che devono esserci, ed esserci in un certo modo, ma non essere abbandonati dalle istituzioni che propongono modelli teorici e poi organizzativi senza costrutto. O troppo “potenti” o troppo soli.
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