mercoledì 11 settembre 2019

... blue girl ...

La chiamavano “Blue girl” perché era una tifosa dell’Esteghlal, la squadra tutta blu di Teheran (quella rossa è il Persepolis), e per andarla a vedere allo stadio Azadi si vestiva da uomo ed evitava i controlli: le donne, nella Repubblica islamica d’Iran, non hanno accesso allo stadio quando ci sono partite di calcio. A marzo, la “Blue girl”, cioè la trentenne Sahar Khodayari, esperta di tecnologia, era stata scoperta, arrestata, mandata in prigione per tre giorni e poi rilasciata in vista di una sentenza della corte prevista in questi giorni. Per paura di essere incarcerata per sei mesi, Sahar si è data fuoco tre giorni fa e ieri è morta in seguito alle complicazioni per le ustioni. Non era ancora stata stabilita la pena e i sostenitori del regime iraniano non fanno che precisare questo fatto, come a dire: è stata avventata lei, poteva aspettare e magari le cose si sistemavano. Ma sui diritti delle donne – sui diritti in generale – in Iran non si sistema mai nulla, anche se abbiamo smesso di parlarne e stiamo soltanto dietro alle minacce sul nucleare e ai posizionamenti dei vari paesi sull’arricchimento dell’uranio, sulle sanzioni, sui modi per continuare a fare affari. La morte della “Blue girl” ha causato nelle ultime ore cordoglio e buoni propositi: c’è chi, come Ando Teymourian, il primo cristiano a diventare capitano della Nazionale dell’Iran, chiede che lo stadio proibito sia dedicato proprio a Sahar e chi chiede alla Fifa di boicottare il calcio iraniano. Come abbiamo già scoperto in altre occasioni in passato, queste iniziative sono temporanee, il tempo dello scandalo e poi via: se la comunità internazionale è la prima a essere diventata cinicamente realista, non si può chiedere al mondo del calcio e dello sport di prenderne il posto. Ma intanto che la luce è accesa sulle immagini delle bende di Sahar e sui suoi selfie felici rubati allo stadio, segniamoci le parole della parlamentare Parvaneh Salahshouri: “Siamo tutti responsabili”.

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