A Silvana Mauri –
Milano
Roma, 10 febbraio 1950
Carissima Silvana,
avevo deciso di riscriverti questa mattina, perché mi ero pentito della mia ultima lettera, un po’ troppo piena di disperazione; spero che tu me l’abbia perdonata. Oggi, senza una ragione, ero meno oppresso, avevo qualche linea di meno di sconforto. Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi. Sai, abito vicino al ghetto, a due passi dalla chiesa di Cola di Rienzo: ti ricordi? Ho rifatto ormai due o tre volte quel nostro giro del ’47, e anche se non ho più ritrovato quel cielo e quell’aria – dal tremendo grigio del ghetto al bianco di San Pietro in Montorio; l’ebrea seduta vicina a una catena contro la porta scura; il temporale con l’odore di resina, e poi Via Giulia e palazzo Farnese, quel palazzo Farnese che non si ripeterà più, come se la luce dopo il temporale lo avesse scolpito in un velo – mi sono stordito e consolato.
Anche adesso ho la testa ronzante dei gridi di Campo dei Fiori, mentre spioveva. Ma questo calore che mi invade come un riposo, lo devo alla tua lettera: è qui sporca di rossetto e di crema, del carnevale di Versuta e dei fiori di Piazza di Spagna. A quei tempi, nel ’47 è cominciata la mia discesa, che è divenuta precipizio dopo Lerici : giudicarmi ancora non mi riesce, neanche, come sarebbe facile, giudicarmi male, ma penso che fosse inevitabile. Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l’ho fatto in parte nelle mie poesie. Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più nemmeno pensare: le parole hanno come perso il loro senso. Posso solo dirti che la vita ambigua – come tu dici bene – che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all’etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza.
Per questo io qualche volta – e in questi ultimi tempi spesso – sono gelido, «cattivo», le mie parole «fanno male». Non è un atteggiamento «maudit», ma l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un’educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale… Questa mia tradizione di onestà e di rettezza – che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale – mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto. Devi immaginare il mio caso un po’ come quello di Fabio, senza psichiatri, sacerdoti, cure e sintomi e crisi, ma che, com’è di Fabio, mi ha allontanato, assentato. Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale resistenza, possono trarre in inganno… Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una volta… Scusami – volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno – come in fondo ho ingannato te, e anche altri amici che ora parlano di un vecchio Pier Paolo, o di un Pier Paolo da rinnovarsi. Io non so di preciso che cosa intendere per ipocrisia, ma ormai ne sono terrorizzato. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare dicesse San Paolo… Io credo – a questo proposito – di desiderare di vivere a Roma, proprio perché qui non ci sarà né un vecchio né un nuovo Pier Paolo. Coloro che come me hanno avuto il destino di non amare secondo la norma, finiscono per sopravalutare la questione dell’amore. Uno normale può rassegnarsi – la terribile parola – alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso ossessionante il bisogno di amare: la funzione ha reso ipertrofico l’organo, quando, adolescente, l’amore mi pareva una chimera irraggiungibile: poi quando con l’esperienza la funzione ha ripreso le sue giuste proporzioni e la chimera è stata sconsacrata fino alla pili miserabile quotidianità, il male era ormai inoculato, cronico e inguaribile. Mi trovavo con un organo mentale enorme per una funzione ormai trascurabile: tanto che è di ieri – con tutte le mie disgrazie e i miei rimorsi – una incontenibile disperazione per un ragazzo seduto su un muretto e lasciato indietro per sempre e per ogni luogo dal tram in corsa. Come vedi ti parlo con estrema sincerità e non so con quanto poco pudore. Qui a Roma posso trovare meglio che altrove il modo di vivere ambiguamente, mi capisci?, e, nel tempo stesso, il modo di essere compiutamente sincero, di non ingannare nessuno, come finirebbe col succedermi a Milano: forse ti dico questo perché sono sfiduciato, e colloco te sola nel piedestallo di chi sa capire e compatire: ma è che finora non ho trovato nessuno che fosse sincero come io vorrei. La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. E l’unico modo per farmi perdonare da quel ragazzo spaventosamente onesto e buono che qualcuno in me continua a essere. Ma di tutto questo – che continuerà a rimanerti un po’ oscuro, perché detto troppo confusamente e rapidamente – potremo parlarne con più agio. Credo dunque che resterò a Roma – questa nuova Casarsa – tanto più che non ho intenzione non solo di conoscere, ma neanche di vedere i letterati, persone che mi hanno sempre atterrito perché richiedono sempre delle opinioni, mentre io non ce n’ho. Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una cosa e l’altra disperatamente. Ma, allora, mi chiederai se quello che mi è successo – punizione, come tu dici giustamente – non mi è servito a nulla. Sì, mi è servito, ma non a cambiarmi o tanto meno a redimermi: mi è servito a capire che avevo toccato il fondo, che l’esperienza era esaurita e che potevo ricominciare daccapo ma senza ripetere gli stessi errori; mi sono liberato dalla mia riserva di perversione malvagia e fossile, ora mi sento più leggero e la libidine è una croce, non più un peso che mi trascina verso il fondo.
Ho riletto quello che ti ho scritto finora e ne sono molto scontento: forse lo troverai ancora un po’ agghiacciante, come la lettera dopo Lerici, ma tieni presente che allora cominciavo la mia discesa verso la sfiducia, l’incredulità, il disgusto, mentre ora ne sto risalendo, o almeno spero. Tu potrai individuare quanto di patologico e febbrile sussista nelle mie parole, che traccie vi lasci la mia disperazione di questi giorni. Altre frasi non dovrai prenderle alla lettera. Per es. «Roma, questa nuova Casarsa» è una frase che non deve farti cadere le braccia, anche se è un po’ odiosa: c’è stata anche una Casarsa buona, ed è questa che voglio riacquistare. Quest’ultima crisi della mia vita, crisi esteriore, che è il grafico di quella interiore che io rimandavo di giorno in giorno, ha ristabilito, spero, un certo equilibrio. Ci sono dei momenti in cui la vita è aperta come un ventaglio, vi si vede tutto, e allora è fragile, insicura e troppo vasta. Nelle mie affermazioni e nelle mie confessioni cerca di intravedere questa totalità. La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è cosi: e io, come te, non mi rassegno. Da certe tue parole («… tra cose che ti sono costate dolore, se veramente ti sono costate dolore») mi par di capire che anche tu, come molti altri, sospetti dell’estetismo o del compiacimento nel mio caso. Invece ti sbagli, in questo ti sbagli assolutamente. Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico. non me la sono mai sentita dentro. Solo in quest’ultimo anno mi sono lasciato un po’ andare: ma ero affranto, le mie condizioni famigliari erano disastrose, mio padre infuriava ed era malvagio fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odia un mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca di una gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l’unico scampo. Ne sono stato punito senza pietà. Ma anche di questo parleremo, oppure te ne scriverò con più calma, ora ho troppe cose da dirti. Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta quell’attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra come un fossile.
Non aveva un nome allora, ma era cosi forte e irresistibile che dovetti inventarglielo io : fu «teta veleta», e te lo scrivo tremando tanto mi fa paura questo terribile nome inventato da un bambino di tre anni innamorato di un ragazzo di tredici, questo nome da feticcio, primordiale, disgustoso e carezzevole. Da allora tutta una storia che ti lascio immaginare, se lo puoi. Verso i diciannove anni, poco prima che noi due ci conoscessimo, ho avuto una crisi che è stata a un pelo di essere identica a quella di Fabio: si è risolta invece in una non gravissima nevrosi, in un esaurimento, in un ossessivo pensiero di suicidio (che spesso mi riprende ancora) e poi nella guarigione. Nel ’42 a Bologna, ti ricordi?, ero sano come un pesce, ormai, e completo come un albero. Ma era una floridezza che non doveva durare.
Tu sei stata per me qualcosa di speciale e di diverso da tutto il resto: cosi eccezionale che non vi trovo nessuna spiegazione, neanche una di quelle spiegazioni larvali e cosi concrete che noi afferriamo nel nostro monologo intcriore: nelle nostre astute manovre del pensiero. Da quando mi hai aperto la porta a Bologna, pochi giorni dopo che io avevo conosciuto Fabio, e mi sei apparsa sotto la figura di una «madonna del duecento» (credo di avertelo detto), alla Malg.LetteLa Troi, a Milano, dopo la guerra, da Bompiani, a Versuta, a Roma, tu sei stata sempre per me la donna che avrei potuto amare, l’unica che mi ha fatto capire che cosa sia la donna, e l’unica che fino a un certo limite ho amato. Tu capisci cos’è quel limite: ma ora devo dirti che qualche volta, non so né come né quando l’ho varcato, timidamente, pazzescamente, ma l’ho varcato. Se vuoi pensare a una situazione simile, pensa alla «Porta stretta»: ma io non ti ho mai detto niente della mia tenerezza, perché non mi fidavo di me. Non farmi aggiungere altro, capiscimi. Nel mio ultimo biglietto ti ho scritto che tu eri l’unica, fra tutti i miei amici, con cui mi riusciva di confidarmi: e questo semplicemente perché sei l’unica che io ami veramente, fino al sacrificio. Per te, per esserti d’aiuto o di conforto, farei qualsiasi cosa senza la minima ombra d’indecisione o di egoismo.
Ora qui la tua lettera, se la guardo, mi commuove ferocemente, mi sento le lacrime agli occhi: penso a quello che ho perduto, allo spreco della mia vita nella quale non ho saputo accogliere te.
Non posso più continuare questa lettera: le altre cose che dovevo dirti te le scriverò domani. Potrei continuare solo se potessi abbandonarmi, ma non posso, deve sciogliersi in me ancora tanto gelo. Perdonami se ti ho scritto un’altra lettera odiosa, ma se potessi scrivere con bontà, con tutta la bontà di una volta, allora questa lettera non sarebbe stata necessaria. Sono furioso contro di me e la mia impotenza, mentre vorrei dirti tutta la mia tenerezza e il mio affetto.
Ti abbraccio Pier Paolo
(in P.P.Pasolini. Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1986, pp. 388-393)
PIENEZZA UMANA
Dichiarazione del Presidente Mattarella nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini
[testo integrale]:
«Pier Paolo Pasolini ha impresso un segno importante nella cultura italiana e la sua lezione continua a parlarci con il linguaggio affilato dei suoi scritti e delle sue immagini, con l’assoluta originalità delle sue visioni, con quell’attenzione alle marginalità - cifra distintiva della sua opera - che in lui esprimeva un desiderio di pienezza umana.
Ricordarlo a cento anni dalla nascita, con il ricco programma di iniziative predisposte, ci pone di fronte a un patrimonio di intuizioni e valori che ancora possono aiutarci nel confronto con la modernità, suo rovello, oltre che bersaglio del suo pensiero critico.
Pasolini aveva le sue radici nel Novecento. In quel dopoguerra, in cui si è affermata l’idea di uguaglianza sostanziale, unitamente a quelle di libertà e democrazia. Gli è appartenuta la dimensione dell’impegno civile dell’intellettuale, a servizio della società.
È stato un uomo di cultura poliedrico. Pochi, come Pasolini, si sono conquistati spazi così rilevanti nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nella saggistica, nel giornalismo. La poesia è stata forse il tratto espressivo che più lo ha distinto.
Il linguaggio e le idee di Pasolini, così come l’intera sua vita, hanno continuamente messo alla prova convenzioni consolidate, provocando polemiche che non di rado gli sono costate emarginazioni ed esclusioni. La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l’umanità, travestiti da maggiori ricchezze, rappresenta tuttora una testimonianza su cui riflettere».
Roma, 5 marzo 2022
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