Negli ultimi giorni, persino nelle ultime ore prima dell’inizio del conflitto, i governi e le diplomazie continuarono a comportarsi come se la pace fosse ancora possibile. I consigli dei ministri delle maggiori potenze europee tennero frenetiche riunioni straordinarie. Gli ambasciatori ricevettero concitati dispacci, chiesero udienza ai governi presso i quali erano accreditati, avanzarono proposte, suggerirono conferenze quadripartite come quella che un anno prima, a Monaco, aveva regalato all’Europa una pace breve e illusoria. A Londra, a Parigi, a Roma esistevano ancora persone che tentavano disperatamente di riannodare il filo spezzato dei rapporti tedesco-polacchi. Qualcuno, senza dubbio sarebbe stato pronto, come nell’incontro quadripartito di Monaco, a sfamare Hitler con un’altra libbra di carne. Era tutto inutile. Il primo ad accorgersi che i giochi erano fatti e che non vi sarebbero stati, per la diplomazia europea, «tempi supplementari», fu l’ambasciatore d’Italia a Berlino Bernardo Attolico. Tentò di convincere Ribbentrop a ricevere l’ambasciatore polacco ed ebbe il dubbio onore di una udienza con il Führer da cui ricevette il testo delle inaccettabili e umilianti proposte che la Germania aveva inviato alla Polonia. Tentò un’ultima carta e propose la mediazione dell’Italia. Ma Hitler, con falsa cortesia, disse che non voleva mettere il Duce in una situazione imbarazzante. Ma allora, chiese Attolico, «è tutto finito?». La risposta fu, freddamente, «sì».
Che la guerra fosse stata decisa da tempo e destinata a scoppiare nella notte fra il 31 agosto e il 1˚ settembre è dimostrato dagli incidenti che i tedeschi avevano minuziosamente inscenato per giustificare il conflitto. I più macabri e grotteschi furono quelli di Gleiwitz e Hohlinden, due cittadine tedesche a breve distanza dalla frontiera polacca. A Gleiwitz un drappello di SS in uniforme polacca entrò negli uffici della radio locale alle otto della sera del 31 agosto, rinchiuse gli addetti tedeschi nelle cantine e annunciò trionfalmente agli ascoltatori della piccola emittente, in polacco, che la stazione era stata «conquistata ». Per dare un tocco di verità alla menzogna un altro drappello di SS portò sul luogo un cittadino polacco, da tempo prigioniero della Gestapo, e lo uccise. La polizia, più tardi, trovò altri due cadaveri che non furono mai identificati.
Nella sede della dogana di Hohlinden, più o meno alla stessa ora, andò in scena un copione ancora più sanguinoso. Quando la vicenda venne alla luce, durante i processi di Norimberga, i giudici appresero che l’edificio della dogana era stato «espugnato» da un altro drappello di SS in uniforme polacca. Distrussero l’edificio, spararono parecchie salve di proiettili e si lasciarono docilmente arrestare dalla polizia del Reich. Ma sul posto, dopo la farsa, cominciò la mattanza. Trasportati da un campo di concentramento, sei prigionieri dovettero recitare la parte delle vittime. Furono uccisi, gettati sul luogo del delitto, esposti ai flash dei fotografi e, perché nessuno potesse riconoscerli, sfigurati. Sembra, a onore del vero, che la Wehrmacht, pronta ad eseguire gli ordini del comando supremo e a entrare in territorio polacco, ignorasse di questi spudorati pretesti.
La vera guerra, quella dei bollettini ufficiali cominciò alle quattro e quarantacinque del mattino del 1˚ settembre con le bordate di una nave di battaglia, la Schleswig Hollstein, contro la guarnigione polacca di Westerplatte, accanto a Danzica. I polacchi reagirono, difesero vigorosamente la cittadella di Gdynia, tentarono un contrattacco e, prima di soccombere, tennero in scacco i tedeschi per cinque giorni. Vi furono altri scontri e altre resistenze, ma la Wehrmacht e la Luftwaffe (come scrive Donald C. Watt in un bel libro sul 1939 pubblicato da Leonardo vent’anni fa) «avevano una schiacciante superiorità numerica in tutti gli elementi decisivi: negli uomini, negli armamenti, nell’addestramento e nella tattica; di fatto in tutto tranne che nel coraggio ». La guerra sarebbe durata forse più a lungo se i polacchi, come scrive B.H. Liddel Hart nella sua Storia della Seconda guerra mondiale , avessero concentrato le loro forze dietro due grandi fiumi, la Vistola e il San. Ma la strategia di Varsavia fu dettata da una combinazione di considerazioni economiche ed errori politici. I polacchi volevano conservare il controllo delle miniere di carbone della Slesia, vicino alla frontiera tedesca, e credettero di poter contare sull’immediata assistenza militare della Francia e della Gran Bretagna. Non compresero che né Londra né Parigi erano allora in condizione di sguarnire il fronte occidentale. E non capirono soprattutto che la loro sorte era stata decisa a Mosca il 23 agosto quando Ribbentrop e Molotov, sotto lo sguardo benedicente di Stalin, avevano firmato il patto di non aggressione tedesco-sovietico. I polacchi ignoravano in quel momento che un protocollo segreto, firmato nelle stesse ore, prevedeva la spartizione del loro Paese. Ma non potevano ignorare che l’Urss aveva dato alla Germania, con il patto di non aggressione, una formale «licenza di uccidere».
A Roma il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano trascorse l’intera giornata del 31 agosto nel tentativo di organizzare una nuova conferenza quadripartita. Parlò al telefono con Attolico e ricevette gli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna. Quando informò Mussolini, verso le nove della sera, che ogni tentativo era stato inutile, questi ne rimase «impressionato» e disse: «È la guerra. Però domani faremo una dichiarazione in Gran Consiglio che noi non marciamo». Il giorno dopo, mentre in Polonia si combatteva, Ciano annotò nel suo diario: «Il Duce è calmo. Ormai ha preso la decisione del non intervento e la lotta che ha agitato il suo spirito durante queste ultime settimane è cessata». Vi fu un Consiglio dei ministri alle tre del pomeriggio durante il quale venne approvato l’ordine del giorno con cui l’Italia annunciava al mondo la sua «non belligeranza ». Tutti i ministri, sembra, approvarono con un sospiro di sollievo e qualcuno disse a Ciano, abbracciandolo, che aveva «reso un gran servigio al Paese». Ancora più profondo fu il sospiro di sollievo degli italiani. Cominciò così un felice interludio durante il quale potemmo sperare che l’Italia non avrebbe commesso l’errore di gettarsi in una guerra che il suo popolo non desiderava e a cui le sue forze armate erano del tutto impreparate. L’interludio finì il 10 giugno 1940.
Sergio Romano. Corriere
Che la guerra fosse stata decisa da tempo e destinata a scoppiare nella notte fra il 31 agosto e il 1˚ settembre è dimostrato dagli incidenti che i tedeschi avevano minuziosamente inscenato per giustificare il conflitto. I più macabri e grotteschi furono quelli di Gleiwitz e Hohlinden, due cittadine tedesche a breve distanza dalla frontiera polacca. A Gleiwitz un drappello di SS in uniforme polacca entrò negli uffici della radio locale alle otto della sera del 31 agosto, rinchiuse gli addetti tedeschi nelle cantine e annunciò trionfalmente agli ascoltatori della piccola emittente, in polacco, che la stazione era stata «conquistata ». Per dare un tocco di verità alla menzogna un altro drappello di SS portò sul luogo un cittadino polacco, da tempo prigioniero della Gestapo, e lo uccise. La polizia, più tardi, trovò altri due cadaveri che non furono mai identificati.
Nella sede della dogana di Hohlinden, più o meno alla stessa ora, andò in scena un copione ancora più sanguinoso. Quando la vicenda venne alla luce, durante i processi di Norimberga, i giudici appresero che l’edificio della dogana era stato «espugnato» da un altro drappello di SS in uniforme polacca. Distrussero l’edificio, spararono parecchie salve di proiettili e si lasciarono docilmente arrestare dalla polizia del Reich. Ma sul posto, dopo la farsa, cominciò la mattanza. Trasportati da un campo di concentramento, sei prigionieri dovettero recitare la parte delle vittime. Furono uccisi, gettati sul luogo del delitto, esposti ai flash dei fotografi e, perché nessuno potesse riconoscerli, sfigurati. Sembra, a onore del vero, che la Wehrmacht, pronta ad eseguire gli ordini del comando supremo e a entrare in territorio polacco, ignorasse di questi spudorati pretesti.
La vera guerra, quella dei bollettini ufficiali cominciò alle quattro e quarantacinque del mattino del 1˚ settembre con le bordate di una nave di battaglia, la Schleswig Hollstein, contro la guarnigione polacca di Westerplatte, accanto a Danzica. I polacchi reagirono, difesero vigorosamente la cittadella di Gdynia, tentarono un contrattacco e, prima di soccombere, tennero in scacco i tedeschi per cinque giorni. Vi furono altri scontri e altre resistenze, ma la Wehrmacht e la Luftwaffe (come scrive Donald C. Watt in un bel libro sul 1939 pubblicato da Leonardo vent’anni fa) «avevano una schiacciante superiorità numerica in tutti gli elementi decisivi: negli uomini, negli armamenti, nell’addestramento e nella tattica; di fatto in tutto tranne che nel coraggio ». La guerra sarebbe durata forse più a lungo se i polacchi, come scrive B.H. Liddel Hart nella sua Storia della Seconda guerra mondiale , avessero concentrato le loro forze dietro due grandi fiumi, la Vistola e il San. Ma la strategia di Varsavia fu dettata da una combinazione di considerazioni economiche ed errori politici. I polacchi volevano conservare il controllo delle miniere di carbone della Slesia, vicino alla frontiera tedesca, e credettero di poter contare sull’immediata assistenza militare della Francia e della Gran Bretagna. Non compresero che né Londra né Parigi erano allora in condizione di sguarnire il fronte occidentale. E non capirono soprattutto che la loro sorte era stata decisa a Mosca il 23 agosto quando Ribbentrop e Molotov, sotto lo sguardo benedicente di Stalin, avevano firmato il patto di non aggressione tedesco-sovietico. I polacchi ignoravano in quel momento che un protocollo segreto, firmato nelle stesse ore, prevedeva la spartizione del loro Paese. Ma non potevano ignorare che l’Urss aveva dato alla Germania, con il patto di non aggressione, una formale «licenza di uccidere».
A Roma il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano trascorse l’intera giornata del 31 agosto nel tentativo di organizzare una nuova conferenza quadripartita. Parlò al telefono con Attolico e ricevette gli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna. Quando informò Mussolini, verso le nove della sera, che ogni tentativo era stato inutile, questi ne rimase «impressionato» e disse: «È la guerra. Però domani faremo una dichiarazione in Gran Consiglio che noi non marciamo». Il giorno dopo, mentre in Polonia si combatteva, Ciano annotò nel suo diario: «Il Duce è calmo. Ormai ha preso la decisione del non intervento e la lotta che ha agitato il suo spirito durante queste ultime settimane è cessata». Vi fu un Consiglio dei ministri alle tre del pomeriggio durante il quale venne approvato l’ordine del giorno con cui l’Italia annunciava al mondo la sua «non belligeranza ». Tutti i ministri, sembra, approvarono con un sospiro di sollievo e qualcuno disse a Ciano, abbracciandolo, che aveva «reso un gran servigio al Paese». Ancora più profondo fu il sospiro di sollievo degli italiani. Cominciò così un felice interludio durante il quale potemmo sperare che l’Italia non avrebbe commesso l’errore di gettarsi in una guerra che il suo popolo non desiderava e a cui le sue forze armate erano del tutto impreparate. L’interludio finì il 10 giugno 1940.
Sergio Romano. Corriere
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