Fino a qualche anno fa, dicendo lavoro, si sapeva bene di che cosa stavamo parlando. Lavoro deriva dal latino labor, che significa sforzo, fatica, sofferenza. Si stava parlando, dunque, della fatica dei padri e delle madri, delle loro schiene piegate e del riscatto sociale e politico che, nel tempo, i lavoratori avevano conquistato, strappando salario e diritti.
Dire che la Repubblica è fondata sul lavoro significava dire, settantacinque anni fa, che finalmente quelle persone erano importanti tanto quanto i professori, i banchieri, i notai, i signori, perché a dare cittadinanza alle persone non era più il rango sociale, non la reverenza verso i più forti. Era il lavoro, il contributo concreto, materiale, che ognuno di noi può dare al bene comune.
Oggi i braccianti di Quarto Stato ci sembrano figure di un passato lontanissimo. Come l’operaio di Charlie Chaplin in Tempi moderni, prigioniero degli ingranaggi di fabbrica. La rivoluzione finanziaria e la rivoluzione tecnologica hanno cambiato il mondo. La rivoluzione finanziaria ha spostato una enorme quantità di ricchezza lontano dal lavoro. I soldi non si fanno più solamente producendo beni, si fanno soprattutto con i soldi.
La nuova ricchezza è una specie di gigantesca spremuta di soldi. È stato calcolato che il capitale finanziario sia sette volte più grande del Pil mondiale, ovvero di tutto ciò che il pianeta terra produce ogni anno lavorando. La finanza è un pianeta sette volte più grande del pianeta del lavoro.
E poi c’è stata la rivoluzione tecnologica, che ha spazzato via molte delle tremende fatiche del passato, ma anche molti mestieri e posti di lavoro. Io faccio il giornalista, e solo trent’anni fa, per fare un giornale, ci volevano centinaia di operai, tipografi, linotipisti, telescriventisti, e camionisti che portavano le copie in giro per il paese. Oggi bastano un pugno di giornalisti e una serie di clic sulla tastiera del computer.
Potremmo dire: beh sì, c’è meno lavoro. Ma almeno è diminuita la fatica. Non ne sarei tanto sicuro. La fatica classica, diciamo la fatica antica, quella dei braccianti, dei muratori, dei facchini, dei rider, delle pulizie, la fanno soprattutto gli immigrati. Basta una sola parola, “badanti”, perché ognuno di noi prenda atto che senza le persone immigrate noi non sapremmo più come cavarcela. Ci vorrebbe un nuovo Pellizza che rifacesse Quarto Stato. Accanto ai braccianti dipingesse le badanti, le infermiere, e le preziose signore che puliscono le nostre case, i nostri negozi, le nostre aziende. Non è vero che il mondo è diventato immateriale. Il mondo va ancora avanti a forze di braccia e di gambe. Il corpo umano è ancora, e di gran lunga, la macchina più utilizzata.
E poi c’è una fatica nuova. Mai vista prima. Che non spezza la schiena, ma rischia di piegare l’anima. È la fatica dei ragazzi che mandano decine, centinaia di curriculum, e non ricevono risposte. Che hanno titoli di studio inutilizzabili, come se lo studio fosse una valuta fuori corso. Che se ne vanno a cercare lavoro all’estero, come i nonni e i bisnonni analfabeti che partivano con la valigia legata con lo spago. I ragazzi hanno il trolley e parlano bene, ma rispetto agli italiani di fine Ottocento portano sulla schiena un peso micidiale. Avevano le pezze al culo, i nostri nonni, quando salivamo sui bastimenti, ma erano sicuri, sicurissimi che ci fosse un futuro. Non ci potevano essere dubbi sul fatto che, di generazione in generazione, si andava a migliorare. Ora abbiamo i pantaloni griffati, ma che il futuro sia migliore è tutt’altro che una certezza.
Dunque, buon primo maggio a chi fa fatica. La vecchia fatica, quella che fa sudare, e la nuova fatica, quella di chi passa il tempo a guardare sullo smartphone se qualcuno ha letto il suo curriculum.
Buon Primo Maggio!
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Michele Serra
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