Pasolini, sei ore e trentacinque minuti prima della morte.
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Oggi sono in molti a credere che c'è bisogno di uccidere
STAMPA SERA
Anno 107 - Numero 245
Lunedì 3 Novembre 1975
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
Roma, 2 novembre.
Sono le quattro e un quarto di sabato pomeriggio. Sopra il citofono della palazzina di via Eufrate, all'Eur, c'è scritto «Dr. P. Pasolini». E' una strana casa, uno strano luogo per vivere, perché ha due facce. Guardo davanti e vedo, sopra quella targhetta, la palazzina confortevole, senza stile e senza gusto che è il condominio dell'Eur, il quartiere residenziale più ambito di Roma. Volto le spalle alla palazzina, e oltre la strada vedo quel vuoto strano e angoscioso che circonda Roma. Un vuoto che non è né città né campagna. Il verde sono cespugli, non alberi, passano strade che non si vedono. La campagna di Fiumicino è proprio là davanti, senza una faccia, come la periferia di Roma e i suoi desolati misteri.
Nella strada deserta incrociano due motociclisti giovani, uno in tuta azzurra e splendore di cerniere lampo, entrambi col casco e la visiera scura davanti alla faccia. I due motociclisti vanno e vengono come se facessero a gara a chi sta più in equilibrio evitando di accelerare. Con la macchina accosto due volte. Per due volte le facce nascoste dal casco non rispondono alla domanda sulla strada e sul numero. Accelerano lievemente, due ragazzi che guidano bene. Quando esco, due ore più tardi, vedo ancora la tuta blu, la moto, le gambe ferme e divaricate, lontano, in mezzo alla strada. Ma ormai è buio, è un frammento d'immagine inquadrata dai fari, mentre faccio marcia indietro, con la paura eccessiva di sbagliare, di cadere indietro nel vuoto, nel punto dove Roma finisce.
Fra i libri
Dentro, al primo piano, al fondo di una scala buia, di un pianerottolo buio (nei condomini rispettabili si risparmia la luce) c'è Pasolini. Mi aspetta, seduto di fianco, ben coperto nello stanzone gelido, un ambiente sproporzionato che nei condomini si chiama «salone di rappresentanza». Pasolini è su una poltrona, e la poltrona su una moquette che non è grande abbastanza per coprire tutto quel marmo. Accanto c'è un enorme camino spento. L'unica difesa sembrano i libri, tanti libri sul tavolo basso e per terra, come una trincea provvisoria. Davanti c'è un volumetto spagnolo («Conversaciones con P. P. Pasolini»). Lui ha in mano Sciascia, «La scomparsa di Majorana».
Nel libro spagnolo, aperto, mi pare con un gesto brusco, che ha forzato la legatura, faccio in tempo a leggere la fine di una domanda: «Tenerezza, nostalgia, violenza, avventura, solitudine, avversione, odio, a momenti, eppure anche dolcezza... Sono questi i sentimenti che le vengono dal ricordo del padre? ».
E l'inizio di una risposta: «Sì, un po' di tutto. Devo ammettere che c'è in me una grande contraddizione, la nostalgia ma anche il malessere... ». Incominciamo a parlare. — E' bello, è bello il Majorana di Sciascia. E' bello perché ha visto il mistero ma non ce lo dice, hai capito? C'è una ragione per quella scomparsa. Ma lui sa che in questi casi un'indagine non rivela mai niente. E' un libro bello proprio perché non è una indagine ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai chiarire.
Pasolini abita nel suo maglione, nei suoi stivaletti, nelle ossa dure della sua faccia, nelle mani che apre e chiude inavvertitamente come per un esercizio, abita nel suo corpo ben difeso e in guardia. E' lì che bisogna cercarlo e stanarlo, e in quegli occhi sempre in guardia, nonostante l'amicizia, la dolcezza o il sorriso. Non nella casa, non negli oggetti, che si sono accumulati qui intorno, o nell'altra che sta finendo, al mare, o in quella di campagna, che dicono sembri un castello. E' circondato di oggetti che potrebbero sparire di colpo, senza toccarlo.
Unica gioia
Stando con lui si capisce che i suoi articoli, i suoi «Scritti corsari», anche nei momenti più acuti del paradosso sono assolutamente sinceri. Toccava le cose come un prestigiatore, facendo apparire quel che voleva, persuaso che non esistono. Qualcuno doveva sapere che solo colpendolo al corpo, con tutta la violenza possibile, si poteva finirlo. Il cervello ottuso che ha risposto all'impulso di un folle mandato (maturato dentro o fuori di lui? Non ce lo diranno mai) doveva avere percepito la forza di quella sfida.
— Ho la vita di un gatto — diceva Pasolini. E allora rideva offrendosi al rischio di vivere con una specie di gioia che forse era la sua unica gioia. Temeva la protezione degli oggetti, temeva la protezione della ideologia, persino la protezione dei pensieri saggi, del buon senso. Rompeva ogni volta l'involucro per sentire in faccia solitudine e rischio, due cose che lo riguardavano profondamente. Tutto, detto o non detto, sembrava esprimere in lui questa idea fissa: tanto non c'è niente da fare, non la scampi. E allora perché proteggersi, perché adattarsi ai camminamenti delle cose mezze fatte, mezze dette, mezze accettate? Giocava col privilegio (del cinema, del successo) come il mago Houdini con catene sempre più dure, bauli sempre più fondi e rischi sempre più «inevitabili». In questo gioco terribile diventava profeta. Uno strano profeta, agile, in guardia, proprio perché disarmato e separato da ogni forma di protezione e alleanze.
— Hai fatto il film sulla Repubblica di Salò proprio prima del delitto del Circeo.
— Sì, e adesso mi fa impressione guardarlo, il mio film prima ci pensi come a una intuizione, che per quanto terribile ha la pace e l'armonia delle cose pensate. Poi ci lavori, e il cinema è tecnica, scena dopo scena, un'inquadratura dopo l'altra, e questo lavoro è come una enorme routine, dilata i tempi, ti macina nei dettagli, sei alla catena di montaggio del tuo stesso prodotto. Poi guardi, vedi quello che è successo. Quello che è successo è "anche" quello che hai fatto o voluto. Ma c'è qualcosa che vedi per la prima volta. Io ho sentito disagio e paura.
— Hai fatto il film pensando a "quella" Salò, alla tetra storia di allora, o i tuoi incubi su questa violenza sono in avanti, qualcosa che viene dopo?
— Ma non vedi che gli assassini del Circeo cercavano disperatamente una divisa, un travestimento? Che avrebbero dato chissà che cosa per avere in mano un ordine, una ragione, un'idea che desse un senso al loro massacro? Non lo sapevano, ma erano già travestiti. Travestiti da nuovi assassini.
Ultima sera
Pasolini parlava, verso le cinque, mentre veniva sera, tirandosi sempre più dentro di sé, con gli occhi sempre più lucidi, con quella specie di disperata felicità di chi sa di più perché viene fra la parte in luce del mondo — la razionalità, l'immaginare, il creare, il dibattere, le polemiche, i confronti dell'intelligenza — e la zona tetra in cui si vede da vicino, senza le maschere, una faccia vera e tremenda. Pasolini si era dedicato, come a una ossessione, alla descrizione di quella faccia. La vedeva venire vicina. Era, in modo misterioso ma vero, l'identikit del suo o dei suoi assassini.
Pasolini parlava, rispondendo attento, puntiglioso, alle domande di una lunga intervista, per Tuttolibri. E intanto sembrava constatare in sé nel suo essere vivo, testimone disperato di cose che sapeva da solo, l'unica garanzia, l'unico segno.
— Io dico che le vostre obiezioni sono sbagliate perché non vi siete accorti che dai codici della malavita, come da quelli che chiamate « politica » è ormai esclusa l'umanità. Oggi «si deve uccidere», voi non avete idea in quanti siano a crederlo. La morte è un comportamento di massa.
Però non era triste. Non lo angosciava quel panorama vuoto della città che finisce davanti alle sue finestre, nei cespugli di Fiumicino. Pasolini si alza, mette da parte con cura le pagine che abbiamo scritto. E va a farsi uccidere.
Mancavano sei ore e trentacinque minuti al massacro.
Furio Colombo.
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