IL CORONAVIRUS POTREBBE ESSERE LA GRANDE OCCASIONE PER UN MONDO MALATO
Pubblicato 31/03/2020
DI COSTANZA OGNIBENI
Quando sarà finita: sarà sicuramente questo, il tormentone che accompagnerà la primavera 2020, la frase che ci proietta in scenari che ancora non siamo in grado di immaginare. E quello che poco rassicura è che anche gli esperti non riescono a esserci d’aiuto. Il mondo che dipingono dopo il Coronavirus ha tratti indefiniti, nebulosi. Si parla di riaprire alcune attività, ma con la massima cautela, e mantenendo sempre il cosiddetto metro di distanza. Si parla di mantenerne chiuse altre, tra cui bar, ristoranti, luoghi dove solitamente si svolgono eventi e convegni. Le mascherine, quelle dovremo continuare a indossarle, e lungi da noi l’idea di poter avere un contatto fisico con qualche estraneo, e invero anche con quella parte dei nostri affetti con cui la quarantena non abbiamo potuto condividerla. Ragion per cui, bando anche a centri estetici e parrucchieri. E il grande interrogativo che tutti attanaglia è se quella appena descritta sia una situazione di passaggio o la descrizione di un nuovo mondo post-pandemia.
Si è detto che per la ripresa della totale normalità, ovvero tornare a vivere esattamente come prima della catastrofe, ogni paese dovrà aspettare un numero di mesi cinque volte maggiore a quelli in cui ha dovuto applicare il lock down. Se, quindi, i battenti sono rimasti chiusi ad esempio per tre mesi, ne occorreranno quindici per tornare al “come eravamo”. Ma si è detto anche che il mondo post pandemia non sarà come il “pre”; sarà un mondo che manterrà la sua identità globalizzata, grazie al supporto della tecnologia, ma allo stesso tempo riscoprirà il proprio essere “local”, poiché i viaggi a lungo raggio e la facilità con cui entravamo in contatto con altre culture rischierebbe di scatenare nuove epidemie, dato che – sembrerebbe – è proprio per colpa di queste commistioni che si è verificato quello a cui, percossi e attoniti, stiamo continuando ad assistere.
Quello di cui tuttavia gli esperti ancora una volta non tengono conto, è il cambiamento profondo che questa tragedia può aver provocato nella nostra mente, nel nostro modo di pensare e di conseguenza di approcciarci alla realtà. Quando ad esempio andiamo a fare la spesa, assistiamo a chilometriche e pazienti file, composte da persone che con fare rassegnato, ma è preferibile definire partecipato, attendono il proprio turno. Chi sfoglia un libro, chi fa una telefonata, mentre lenti incedono, proiettati verso qualcosa che fino a non più di sessanta giorni prima svolgevano nel tempo di un click. Rispetto delle regole? Paura di un’ammenda? Sono davvero le forze dell’ordine le artefici di questo contegno? Senza le quali “la belva”, tenuta a bada ancora una volta, si scatenerebbe dando vita a scenari apocalittici?
La corsa per il guadagno e per l’accumulo del tempo si è fermata insieme a quella per il denaro. Entrare in un punto vendita era un’azione talmente scontata, che il progresso stava nel cercare di svolgerla nel minor tempo possibile. E allora sono arrivate le casse automatiche, poi sono arrivati i dispositivi che scansionano il codice a barre man mano che si fa la spesa, e si sarebbe sicuramente arrivati a qualche altra diavoleria, atta ad accorciare ulteriormente le tempistiche rendendo la spesa un rituale da svolgere in tempi record, se nel frattempo non fosse arrivato “il mostro invisibile”. Il tutto, peraltro, in totale contrapposizione con le grandi multinazionali del food, pronte a mettere in campo qualsiasi marchingegno pur di attirare il consumatore all’interno del punto vendita e farlo stazionare per più tempo possibile, in una schizofrenica corsa fatta di riduzione dei tempi e aumento del consumo. Una necessità di correre, di guadagnare tempo attraverso un abbattimento dei minuti dedicati a ciò che è stato arbitrariamente collocato nella categoria dell’inutile, oltre che preservare il proprio potere di acquisto attraverso il risparmio. Ma per poi far cosa, con quel tempo guadagnato? E per far cosa, con quei soldi risparmiati?
Quella schiera paziente di individui che, silenziosi e cordiali, avanzano per poter fare l’unica cosa loro concessa fuori dalle mura domestiche – al di là ovviamente delle poche categorie ancora operative rimaste; quelle strade così vuote, compensate da appartamenti mai pieni come in questo periodo, creano uno sconvolgimento nella percezione della realtà di cui probabilmente nemmeno ci rendiamo conto. Ridurre alle poche azioni essenziali le proprie 16 ore di veglia, lasciando appesi alla stampella gli abiti da lavoro per rimanere tutto il giorno avvolti in comode tute di cotone, crea inevitabilmente un cambio di percezione delle cose che probabilmente prenderà forma attraverso nuove immagini. Immagini che, magari, potranno emergere nelle famose otto ore di sonno, quando coscienza e comportamento vengono messi da parte per lasciare posto a qualcos’altro. È confermato da più parti che tali immagini non sono emanazione degli dei, né tantomeno registrazioni della realtà o invenzioni tout court che prescindono da essa. Sono, piuttosto, pensieri. Pensieri che probabilmente non sappiamo nemmeno di avere, pensieri sedimentati in qualche angolo della nostra mente che emergono quando le attività del corpo sono ridotte ai minimi termini. Pensieri che si manifestano attraverso immagini che derivano da una rielaborazione della realtà, del vissuto (per approfondimenti si rimanda alla Teoria della Nascita di Massimo Fagioli). E trovarci di fronte a un nuovo vissuto, a una realtà mai affrontata prima, non può che portarci a elaborare nuovi pensieri, nuove percezioni, e quindi nuove immagini. Un cambiamento che avviene dunque nella nostra mente, in primis, che porterà inevitabilmente a un cambiamento della realtà. La vera sfida sarà non rinnegare quelle immagini; la vera sfida sarà mantenere quanto questa realtà, certamente difficile da accettare ma senza dubbio eccezionale, è stata in grado di far emergere.
Uno strappo impossibile da ricucire, una frattura che forse era necessaria. Ed è una storia molto triste da raccontare, quella di un giustiziere che per interrompere un meccanismo impazzito, per risvegliarci da un torpore indotto, ha dovuto mietere vittime in tutto il globo. Sarebbe stato bello risvegliarci in un mattino di sole dove le falle di un sistema sanitario sventrato, le crepe create da una società che non si è mai occupata del cosiddetto inutile – ovvero la cultura – o degli inutili – ovvero gli artisti – né tantomeno delle categorie più deboli; il vuoto lasciato da chi non si è mai voluto occupare di finanziare la ricerca “perché producevamo le scarpe più belle del mondo”, fossero stati colmati da una presa di consapevolezza, da una rivoluzione delle idee trasformatasi in prassi politica. Ma oggi, ci ritroviamo a dire che se qualcosa lo avremo capito sarà grazie e per colpa di questo maledetto Covid-19.
E non ci sarà nessun filo da riprendere perché, che ci piaccia o no, è esistito un mondo prima e ne esisterà uno dopo il Coronavirus. E che mondo sarà dipenderà solo da come saremo riusciti a separarci dallo stato precedente, se con fantasia, e quindi facendo tesoro di quanto siamo riusciti a imparare da questa chiusura forzata, o annullando tutto quanto, facendo come se nulla sia stato.
lunedì 6 aprile 2020
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