mercoledì 12 febbraio 2020

... 12 febbraio 1980 ...

Sette proiettili per il professore
 di GIAMPAOLO PANSA

 ROMA - Nell'atrio della facoltà di Scienze politiche, in quell'angolo, accanto alla grande porta vetrata, c'è un lenzuolo di tela grossa, e sotto il lenzuolo qualcosa che da lontano sembra un fagotto o un animale abbattuto. Poi ti avvicini e vedi che il lenzuolo ha lasciato scoperta la fronte di un uomo, e con la fronte un ciuffo di capelli grigi e un paio di occhiali dalle lenti spezzate. Da sotto il telo esce un rivolo di sangue, un rivolo brillante nel sole, mentre la vetrata chiusa rimbomba per il tam-tam dei fotografi che gridano furiosi: "Fatece entrà!". Tutto ciò che resta di Vittorio Bachelet, 54 anni ancora da compiere, ucciso ieri mattina dieci minuti prima di mezzogiorno nella città universitaria di Roma, da quella banda di macellai che si firmano Brigate rosse. Bachelet insegnava in questo ateneo Diritto amministrativo, ma era soprattutto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura che ha come presidente Pertini. Un uomo, dunque di prima fila della nostra democrazia, e anche un insegnante e un padre di famiglia. Adesso di lui rimane soltanto quel corpo sotto il lenzuolo, circondato dai bossoli dei proiettili che gli hanno dato la morte. Sette proiettili che gli hanno dato la morte. Sette proiettili calibro 32 Winchester per un altro assassinio politico, il più grave dopo il delitto Moro. Proprio dall'aula intitolata a Moro, l'aula 11 di Scienze politiche, comincia l'ultima giornata del professor Bachelet. Attorno a lui, vittima inconsapevole, c'è una scenografia perfetta. Sembra costruita apposta per un film politico da concludere nel sangue. Un sole splendido di primavera. I pini marittimi. I marmi fascisti dello Studium Urbis. Le pompose scritte in latino. "Iustitia omnium est domina et regina virtutum". Bachelet varca i cancelli dell'ateneo poco dopo le 10 del mattino. Ha la sua solita andatura tranquilla, da uomo alto, corpulento, le lenti da miope, l'espressione mite e un po' distratta. Per lui è un giorno di lavoro come un altro. (...) La lezione non ha storia. Alle 11,30 tutto è finito e Bachelet se ne va. L'aula "Moro" è al pianterreno di Scienze politiche. Il professore comincia a salire lentamente lo scalone che lo porterà al grande atrio rialzato, quello della vetrata, invaso da un bel sole caldo. Accanto a lui c'è la sua assistente, la professoressa Bindi. Dietro, un paio di allievi, poi altri giovani. Sono le 11 e 50 e Bachelet mette il piede sull'ultimo gradino della scala. Conversa con la Bindi e non fa caso ad una giovane donna. Costei sta proprio al centro della vetrata, anzi la tiene socchiusa per metà. Ad un tratto, la sconosciuta si fa avanti. Raggiunge Bachelet alle spalle. Lo afferra con una mano e lo costringe a voltarsi. Partono i primi tre colpi di pistola, tutti al ventre del professore, a canna quasi schiacciata contro la vittima. La dottoressa Bindi urla, mentre la giovane donna arretra velocemente. Allora si fa avanti un uomo. Giovanissimo, poco più di un ragazzo. Impugna anch'egli una pistola. Il killer si china su Bachelet e gli spara qualche altro proiettile. Uno è diretto alla nuca ed è il colpo di grazia. Da questo istante tutto si confonde. Bachelet rantola accanto alla vetrata. Attorno a lui si agitano decine di studenti che renderanno poi testimonianze contraddittorie. Qualcuno sostiene: "Il ragazzo terrorista camminava alle spalle di Bachelet e aveva addirittura seguito la sua lezione". Un altro dirà di aver sentito gridare: "Ci sono delle bombe, scappate, scappate!". Nel cortile di Scienze politiche c'è il caos. Adesso molti fuggono davvero, gridando. I killer ripiegano con calma e vengono raccolti su di un'auto "A 112" che se ne va dal cancello di viale Regina Elena. Una uscita secondaria protetta da una catena che poi verrà scoperta tranciata. Una cosa è certa: gli assassini hanno agito con straordinaria freddezza. (...) Suona il mezzogiorno. Il cadavere del professore è in quell'angolo accanto alla vetrata, non ancora coperto dal lenzuolo. I cancelli della città universitaria vengono chiusi, ma ormai è troppo tardi: chi doveva fuggire, è fuggito. Lo Studium Urbis è preso d'assalto dalle Alfette blu in servizio di Stato. Per primo arriva Pertini e passa impietrito al centro di quella marea di giovani che, ad un tratto, lo applaudono con furia, commossi, quasi disperati. (...) Noi siamo sullo scalone d'ingresso, dietro la vetrata chiusa. Fotografi e cronisti tempestano per entrare. Un momento difficile da dimenticare. Qualcuno piange. E c'è chi dice, angosciato: "Questo è un avvertimento diretto a Pertini, la risposta al discorso di Marghera". Passa il ministro dell'Interno, Rognoni. Passa, stravolta, la figlia di Bachelet, Maria Grazia. La moglie del professore, Maria Teresa, viene fatta entrare da un altro ingresso. Si china sgomenta su quel corpo. Piange. Accarezza il viso del marito ucciso. Poi c'è un lungo parlare fra le due donne, un brusio sommesso e straziante nel grande silenzio dell'atrio. Fuori, tra la folla, accorrono i colleghi di Bachelet.(...) Un bersaglio persino troppo facile, nella babele dello Studium Urbis. E in questa babele arriva anche Fanfani, vecchio amico di Bachelet. Sosta terreo dinanzi al cadavere, poi viene ospitato nell'Istituto di studi economici. Forse non si accorge che la targa d'ingresso è stata corretta con la vernice in "stupri economici". (...) Lo sguardo della signora poi si fissa su Lama che vien su con Marianetti, Trentin e Giovannini. Ecco una vendetta della storia. Cacciato dai violenti nel febbraio del 1977, adesso Lama torna in questa università per inchinarsi davanti ad un altro dei tanti, troppi morti di violenza. (...) Alle 14,33, un'altra voce, una voce da burocrate della morte, detterà al nostro giornale questo annuncio: "Ascoltatemi bene. Qui Brigate rosse. Bachelet l'abbiamo giustiziato noi. Presto seguirà comunicato". (13 febbraio 1980)

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