mercoledì 8 gennaio 2025

... D ...

C’è uno zar a Washington. 

 Tra lo zar Usa e lo zar russo però c’è una differenza sostanziale. A Washington è già cominciata la corsa per baciargli la pantofola C’è uno zar a Washington. Lo zar americano non si è ancora insediato nelle sue funzioni da presidente ma ha passato gli ultimi giorni a minacciare la Nato – esattamente come quell’altro – non escludendo di usare la forza per prendere la Groenlandia. Anche questo – come quell’altro – ha accennato a non meglio specificate ragioni di sicurezza nazionale per descrivere come inevitabile l’annessione. A differenza di quell’altro non ha parlato di denazificazione, questo è vero. Forse perché al suo fianco c’è un plutocrate che è il più importante sostenitore del post-nazismo europeo. C’è uno zar alla Casa Bianca che dopo aver minacciato l’invasione di un Paese Nato ha minacciato la Nato se non rimpinguerà le casse. Poi lo zar dai capelli carota ha spiegato che la Russia «è stata provocata dall’Ucraina», frase che dalle nostre parti viene bollata come filo-putinismo all’istante. Quindi lo zar americano – come ogni zar che si rispetti – è anche d’accordo con l’altro zar. C’è uno zar americano che annuncia pubblicamente il desiderio di invadere Panama e che ha già indicato al successore di Trudeau la soluzione migliore per il Canada: annettersi agli Usa. In questo caso però è stato magnanimo: niente invasione, promette. Ma si sa, sono promesse da zar. C’è uno zar a Washington che promette di perdonare coloro che hanno tentato il rovesciamento democratico del suo Stato, rivendendoli come patrioti. Tra lo zar Usa e lo zar russo però c’è una differenza sostanziale. A Washington è già cominciata la corsa per baciargli la pantofola, pratica in cui eccelle la nostra presidente del Consiglio.

martedì 7 gennaio 2025

... un trio magico!! ...

Cara la mia dolce Dacia Maraini 
 (lei lo sa del perché scrivo questo) 

 di FILIPPO MARIA BATTAGLIA 

05 Gennaio 2025 

In Giappone visse i suoi primi anni. 
«Mio padre, Fosco, era partito dopo avere vinto una borsa di studio internazionale, con la giovane moglie e la figlia di un anno, io. Abbiamo vissuto per molto tempo a Sapporo, nel gelido Hokkaido, in mezzo a persone accoglienti e solidali. Un’esperienza che mi ha aiutato a conservare amore e stima per i giapponesi nonostante ciò che accadde poco dopo». Nel ’43 finiste in un campo di concentramento a Nagoya. «Il Giappone era alleato col regime italiano. I miei genitori, separatamente, decisero con coraggio di non firmare l’adesione alla Repubblica sociale italiana: ci dichiararono traditori della patria e ci internarono». Lo ha raccontato in «Vita mia»: furono mesi di inedia e malattie che provocavano improvvise emorragie. «Per tenerci caldi, e anche per consolarci della fame, dormivamo abbracciati come una famiglia di scimmie su un albero spelato. Restammo a lungo in quella zona che sta fra la morte e la sopravvivenza dolorosa». In quel campo, suo padre, uno dei grandi antropologi del ’900 italiano, si tagliò un dito e lo scagliò addosso al capo delle guardie. «Si chiamava Kazuya, era tutto vestito di bianco. Quando si vide schizzare il sangue addosso, gli puntò contro una spada. Pensai che lo uccidesse, ma papà sapeva quello che faceva. Nella filosofia dei samurai, lo “yubikiri”, il taglio del dito, comportava creare una obbligazione al nemico. E infatti, dopo una settimana, Kazuya arrivò con una piccola capra. Fu una salvezza: il latte vitaminico della bestiola ci permise di sopravvivere». Molti anni dopo la prigionia, sarebbe tornata per cercare quel campo. «Non riuscii a trovarlo: avevano eliminato ogni traccia. Nessuno sapeva niente, nemmeno chi abitava nei dintorni. Ma anche in Italia è stato lo stesso: chi sa che ci sono stati dei campi in Giappone in cui i cittadini italiani contrari al fascismo sono stati internati?». Tornaste in Italia nel ’47. Ad accogliervi, in Sicilia, c’era la famiglia di sua madre: gli Alliata di Salaparuta. Monarchici dal sangue blu. «Erano stati molto potenti ai tempi del feudalesimo, ma nel dopoguerra si erano ridotti malissimo, salvo un ramo che aveva fatto un matrimonio con una latino-americana piena di soldi». Sua madre Topazia era cresciuta insieme a Renato Guttuso. «Tutti e due di Bagheria, e tutti e due amanti della pittura. Per molti anni si persero di vista, si ritrovarono nel dopoguerra a Roma». Quando pensò «voglio fare la scrittrice»? «Ho cominciato a leggere prestissimo. I libri in casa erano molti, ci passavo ore, anche di notte, tanto che di giorno cascavo dal sonno. A 13 anni cominciai a scrivere sul giornale della scuola, a 17 fondai una rivista. Da allora non ho più smesso». L’esordio non fu facile: il suo primo romanzo, «La vacanza», stentò a essere pubblicato. «Nessuno lo voleva. Solo un editore, Lerici, mi disse: “Se mi porta la prefazione di uno scrittore importante lo stampo”». Accettò Alberto Moravia. «Fu l’unico a leggerlo. E, per fortuna, andò bene: non ho più avuto bisogno di una prefazione prestigiosa». La vostra storia iniziò poco dopo: restaste insieme per più di 15 anni. «Alberto era umile, niente affatto preso dalla sua notorietà. L’ho molto amato per il carattere, la cultura immensa, l’ironia, la giovinezza di spirito, l’eleganza intellettuale». Era considerato un seduttore. «Era ricercato dalle donne per la sua gioia di vivere e per la sua capacità affabulatoria, ma non era un tombeur de femmes, e non aveva paura del talento femminile, come invece purtroppo accade a molti uomini. Lo dimostra il fatto che sposò Elsa Morante, una donna di grande talento e intelligenza». Quando lo conobbe erano già separati? «Sì. Elsa era stata innamorata prima di Luchino Visconti, poi di un giovane pittore, Bill Morrow, e ne raccontava a Moravia tutti i dettagli. Quando andai a vivere con Alberto, non si arrabbiò né si offese. Pretese solo che il loro matrimonio rimanesse un vincolo legale». E lei? «Accettai la scelta di Elsa come un dato del suo carattere: era portata all’assolutismo e a una certa fede nelle istituzioni religiose». Di Moravia e Pasolini lei ha scritto che uno era tutto ragione, l’altro tutto sensualità. «Pier Paolo provava un rifiuto anarcoide e rabbioso nei riguardi della ragione. Per lui contavano le sensazioni, le premonizioni, le improvvise intuizioni». I suoi viaggi insieme a lui e Moravia furono memorabili. «Alberto non si stancava mai. Una sera arrivammo in un villaggio del Centro Africa dopo otto ore su una land-rover coperta di polvere che non aveva fatto che saltare sui sassi. Sognavamo solo un letto per riposare. Entrati nel villaggio, sentimmo una musica, la gente danzava. Alberto mi tirò per un braccio dicendo: “Andiamo a ballare?”». E Pasolini? «Un giorno ci fermammo in un villaggio miserabile. Un vecchio a piedi scalzi ci offrì il suo riso in un sacchetto. Dopo averlo cotto, ci accorgemmo che era infarcito di insetti morti. Il primo istinto fu buttarlo via. Ma Pier Paolo disse di no: dovevamo mangiarlo perché l’uomo era stato così gentile da offrirci la sua ultima riserva. E così facemmo, cacciando in bocca una specie di pappa che puzzava di muffa». Ma è vero che amò Maria Callas? «Certo, anche se ovviamente in modo platonico. Pier Paolo aveva un problema con la madre. L’aveva talmente amata che trovava in ogni donna il suo spettro. Diceva spesso: “Fare l’amore con una donna sarebbe come farlo con mia madre”». Qualche anno fa molti dei suoi libri, da «La lunga vita di Marianna Ucrìa» a «Bagheria», sono finiti in un Meridiano: è capitato a pochi scrittori viventi, e a pochissime scrittrici. «Oggi le donne sono accettate come autrici ma, se si parla di prestigio, difficilmente entrano nella memoria istituzionale. E, quando si va nei luoghi dove si stabiliscono valori e modelli letterari per le prossime generazioni, scompaiono». Mi dica allora un’autrice contemporanea che merita di essere letta. «Più d’una: Silvia Avallone, Valeria Parrella, Claudia Durastanti, Chiara Valerio. Potrei continuare». Ha un desiderio? «Quello di invecchiare senza perdere il buon senso e la gioia di vivere». https://www.lastampa.it/.../maraini_moravia_pasolini.../....

... C ...

Oltre ogni immaginazione. L'agenzia d'informazione Bloomberg fa sapere che la presidente del Consiglio Meloni avrebbe parlato, in occasione della visita a Trump, della firma di un contratto del valore di 1,5 miliardi di euro con Space X, la società di Elon Musk, per la fornitura di servizi di sicurezza nelle telecomunicazioni in particolare nei sistemi di criptaggio di comunicazioni governative e militari. In pratica, dopo aver affidato tutte le reti di comunicazione a fondi e società estere, il governo italiano avrebbe affidato alla società di Musk anche il controllo sui dati più sensibili, con l'effetto di mettere il miliardario nelle condizioni di conoscere ogni "segreto" sulla sicurezza del nostro paese. Di fronte al diffondersi di questa notizia, la Presidenza del Consiglio si è affannata a produrre un comunicato ufficiale in cui si smentiva la firma di un simile contratto, sostenendo però che sono in corso trattative in tal senso. Il solerte Musk, a quel punto, non ha esitato ad affermare che le trattative sono in fase assai avanzata. In realtà, la Presidenza del Consiglio ha dovuto smentire anche che il tema in questione fosse stato oggetto dei colloqui con Trump. Questa surreale vicenda fa emergere alcune cose ben chiare. La prima; l'Italia non ha più alcun controllo sulla propria rete di telecomunicazioni e sta trattando di affidare la propria sicurezza a un personaggio che sta sostenendo, ovunque, le forze più radicalmente antidemocratiche. La seconda; i legami personali di Giorgia Meloni con Musk hanno reso immediatamente credibile l'ipotesi dell'affidamento miliardario tanto da spingere Bloomberg a dare tale notizia come certa. In questo senso la presidente del Consiglio diventa lo strumento in mano a Musk per far crescere il valore delle proprie società anche solo con gli annunci. La terza; questo legame tra Meloni e Musk finisce per condizionare la politica estera italiana nei confronti di Trump verso il quale è evidente una sudditanza paranoica, corroborata proprio dall'asse Meloni-Musk-Trump. Il sovranismo, ma anche la ben più rilevante idea di sovranità sono state cancellate da una concezione personalistica dei rapporti internazionali, per cui sono "gli amici degli amici", e non le istituzioni statuali, a definire il perimetro della presenza estera italiana. Purtroppo per noi, si tratta di amicizie decisamente interessate che stanno svuotando la sostanza stessa dello Stato repubblicano, privato, appunto, degli strumenti fondamentali della sovranità. E oltre alla gravità dell'atto in sé, tutto questo accade in totale spregio della risposta indiretta del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulle uscite di Musk e dei contenuti del suo discorso di fine anno. Questi sono così patrioti che si inchinano al sistema economico dei nuovi oligarchi alla velocità della luce, specialmente se hanno il loro stesso identikit politico.

lunedì 6 gennaio 2025

... 6 gennaio 1980 ...

L'omicidio di Piersanti Mattarella: era il 6 gennaio 1980 

Sono passati 45 anni da quando l'allora presidente della Regione Sicilia, fratello dell'attuale Presidente della Repubblica, fu ucciso a Palermo da un sicario con una serie di colpi di pistola. Share Il 6 gennaio 1980 viene ucciso a Palermo a colpi di pistola Piersanti Mattarella, allora Presidente della Regione Sicilia e fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per l’omicidio verranno condannati i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nené Geraci. A distanza di 43 anni da quel giorno, puoi guardare su discovery+ lo speciale In un altro Paese: Falcone, Borsellino e tante altre figure eroiche nella lotta alle mafie negli ultimi decenni di questo Paese. È la mattina del 6 gennaio 1980, siamo in via della Libertà a Palermo. Piersanti Mattarella esce da casa per andare a messa con la sua famiglia. Va in garage a prendere la macchina, poi si ferma poco prima di uscire dal cancello per far salire la suocera e la moglie, Irma Chiazzese. All’improvviso sbuca un ragazzo incappucciato che si avvicina al Presidente della Regione Sicilia e inizia a sparare... La pistola s’inceppa e il killer corre verso una Fiat 127 con a bordo un complice. Non scappa. Quel ragazzo col cappuccio in testa torna con un’altra arma e continua a sparare, stavolta ferendo a morte Piersanti Mattarella. Tra i primi ad arrivare sul posto c’è il fratello Sergio, immortalato in una storica foto di Letizia Battaglia. La rivendicazione di un gruppo neofascista porta tutti a parlare di un attentato terroristico. Successivamente indaga sul caso il giudice Giovanni Falcone secondo cui quella mattina in via della Libertà a Palermo c’erano i fascisti Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, processati anche per la Strage di Bologna del 2 agosto 1980. Per la magistratura di Palermo non ci sono però elementi sufficienti per condannarli per l’omicidio di Piersanti Mattarella. Eppure a confermare la tesi di Giovanni Falcone ci sono le confessioni di alcuni collaboratori di giustizia arrivate nel 1982 e le parole di Cristiano Fioravanti che parla del fratello Giusva come del killer di Piersanti Mattarella. Senza dimenticare la testimonianza di maggior rilievo, quella di Irma Chiazzese, vedova dell’allora Presidente della Regione siciliana, che in quella maledetta mattina del 6 gennaio 1980 riesce a vedere in faccia il killer.

... B ...

domenica 5 gennaio 2025

... Torino 0 -- Parma 0 ...

Nel giorno della commemorazione di Aldo Agroppi il Toro non va oltre uno scialbo 0 a 0 contro un buon Parma ma urgono rinforzi. Vanoli cambia modulo passando al 3-4-2-1 con Ricci promosso capitano ed il rientro dal primo minuto di Ilic. Parma con defezioni importanti e costretto a fare punti per restare aggrappati al trenino salvezza. Toccante il minuto di silenzio per commemorare il grandissimo Aldo Agroppi sulle note di Elvis Prestley. Il Toro viene da una serie di risultati positivi e dalla notizia sul vicinissimo arrivo di Beto da Liverpool. Vanoli sceglie di cambiare schierando la difesa a 3 con Borna Sosa e Lazaro esterni di centrocampo, Karamoh preferito a Sanabria con Adams unica punta. Parma aggressivo, poco Toro La partita ha un sostanziale equilibrio tra le due squadre, il Toro non riesce ad essere particolarmente pericoloso nella prima mezz’ora tranne in un’ occasione con Adams. Lo scozzese colpisce di testa un bel traversone di un propositivo Lazaro ma il pallone è troppo centrale per la respinta agevole di Suzuki. Il Parma non si chiude in difesa ed anzi prova a spaventare il Toro in diverse circostanze dove trova però un attento Milinkovic Savic. Il Toro sembra più pimpante sulla corsia di destra dove Lazaro appare in buona forma ed in serata. La partita è vivace, Almqvist crea scompiglio sulla sinistra tanto da impegnare severamente Maripan in una diagonale miracolosa. Vanoli schierando la mediana a 5 chiede verticalizzazioni repentine per scavalcare il centrocampo ed imbeccare in velocità Che Adams. Gli emiliani pressano alto e forte mettendo in difficoltà il palleggio dei granata. Cancellieri sulla destra crea quasi sempre superiorità numerica costringendo Borna Sosa a ripiegare costantemente. Ilic appare troppo timido nelle giocate e quasi mai tenta la giocata per verticalizzare. Pecchia insiste nella verticalizzazione rapida con la palla che corre veloce mettendo in difficoltà i macchinosi difensori granata. Dopo 47 minuti l’arbitro Feliciano manda le squadre negli spogliatoi sullo 0 a 0. Toro ancora a secco Nella ripresa Vanoli cambia, fuori Ricci per Linetty per un fastidio muscolare mentre Pecchia non cambia nulla. Il Toro sembra crederci di più, da una ripartenza dal basso i granata escono bene ma Vlasic dopo un tunnel su Sohm sbaglia l’ultimo passaggio. L’impressione è che manchi qualità proprio nel momento decisivo dell’azione. Pecchia cerca di sparigliare il gioco inserendo Bonny al posto di Harnaut, 4-2-4 per tentare il colpo grosso. Il gioco del Toro è però troppo prevedibile ed i cambi di gioco improvvisi troppo imprecisi. Vanoli dalla panchina chiede ai centrocampisti di abbassare il ritmo e di ragionare, l’idea quella di far scoprire i gialloblu ed imbucarli con Karamoh e Vlasic tra le due linee emiliane. Il Parma non si scompone ed anzi si rende pericoloso con Mihaila al minuto 64, il tiro dal limite si stampa sul palo dal lato difeso da Milinkovic. Vanoli ne cambia altri 3 per tentare di dare una scossa ai suoi e che non sia serata per i granata lo si intuisce quando Vanja sbaglia un rilancio elementare con i piedi. La qualità in campo è abbastanza mediocre e la sensazione che la partita si possa sbloccare per un episodio o su calcio piazzato. L’atteggiamento dei granata è troppo passivo indisponendo il pubblico presente, tanto che ad essere pericolosi sono gli emiliani. Sulla corsia di sinistra i gialloblu “maramaldeggiano” contro Pedersen e Vojvoda troppo lenti. Il norvegese ex Sassuolo ci mette volontà ma i mezzi tecnici appaiono non di primissima qualità, tanto da sciupare almeno 3 buone occasioni sulla fascia destra. Vanoli inserisce Sanabria negli ultimi 5 minuti per tentare il colpo partita. A provarci però lo scozzese lesto nel controllare nell’area piccola e girarsi repentinamente ma il pallone viene ribattuto dall’attenta difesa emiliana. Il Parma chiude in avanti la partita portando a casa un ottimo punto in casa di un Toro non proprio brillantissimo. Ora sabato ci sarà il derby che potrebbe essere l’ultimo per Urbano Cairo e per la gioia dei tanti tifosi granata stanchi di umiliazioni continue nella stracittadine.
Pazienza?...batti i pugni sul tavolo,arrabbiati,spingi per ottenere quel minimo che ti serve per avere una squadra decorosa....ma che hai paura?...ti rendi conto della situazione,o no?! Sabato c'è il derby, probabilmente l'ennesima sconfitta,se non ti muovi caro Vanoli,il prossimo anno rischi di tornare ad allenare in serie B. 

PS. Non mi pronuncio sull'occasione di Karamouh......scandaloso come non abbia fatto gol!

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La vittoria di Trump negli Stati Uniti, ma anche la crisi dei partiti di sinistra in Europa: contesti diversi su cui si possono fare riflessioni comuni. Ecco l'analisi di uno psicologo sociale che sfata molti luoghi comuni La vittoria di Trump negli Stati Uniti, da alcuni definita “incredibile” e la crisi della sinistra in Europa sono fenomeni diversi in quanto è diverso il contesto. Consentono tuttavia alcune riflessioni comuni. Si può iniziare col ritenere che la vittoria di Trump confermi il fallimento di sondaggi e sondaggisti: avevano previsto quasi all’unanimità un risultato incerto, se non una probabile vittoria di Kamala Harris. Tale fallimento può essere dovuto a problemi metodologici; si veda, tra gli altri, la critica ai sondaggi di Giovanni Busino alla voce Opinione nella Enciclopedia Einaudi. È comunque sostenibile che il sentire e il pensare delle elettrici e degli elettori possa essere rilevato dai discorsi con le loro proposizioni e non da singole parole; tanto meno da risposte a domande a scelta multipla se non binaria, con i risultati sottoposti a elaborazioni statistiche più o meno raffinate che coprono la debolezza metodologica di fondo. Si può anche ipotizzare che il fallimento dei sondaggi possa essere attribuito alla appartenenza dei sondaggisti a una élite, fallita in quanto ha perso qualsiasi contatto con quella che veniva chiamata ‘la massa’; in quanto cieca e sorda, incapace di comprendere il sentire e il pensare, i bisogni di elettrici ed elettori, tanto che la vittoria di Trump appare “incredibile”. Una élite afona, incapace di comunicare per la estraneità del suo linguaggio. Si conferma nello stesso tempo, e di conseguenza, il successo delle non élites: gruppi e singoli individui che hanno il potere e lo usano per i loro fini; in Italia il defunto Berlusconi, ora la Meloni con i suoi supporter ed alleati, negli Stati Uniti i Musk, i Trump; opportunamente definiti ‘tycoon’, parola di origine giapponese che significa anche dominazione. Ovvero, si conferma la capacità di tali non élites di cogliere il sentire e il pensare delle elettrici e degli elettori, individuandone i bisogni per manipolarli con false promesse e soluzioni illusorie. Si può inoltre ritenere che la vittoria di Trump confermi il potere delle nuove reti di comunicazione e di chi le possiede e controlla, i social network che intrigano in primo luogo i giovani prevalentemente estranei ai mass media tradizionali, giornali e televisione. Mass media tradizionali che svolgono anch’essi un ruolo significativo nello spiegare vittorie e sconfitte elettorali. Si osserva infatti una distinzione tra giornali e reti televisive rivolte a un pubblico di livello culturale più elevato e giornali e reti televisive che, per brevità, potremmo definire ‘pop’. Se ci si riferisce all’Italia, tra i primi, La Repubblica, La Stampa, Messaggero, Corriere della Sera, la Terza Rete della Tv di Stato, La 7, che oltre a essere più critici nei confronti del governo, approfondiscono temi politici ed economici; tra i secondi, quelli pop, i giornali del gruppo Quotidiano Nazionale, (Nazione, Resto del Carlino), la prima e la seconda Rete della Tv di Stato, i canali del gruppo Mediaset; tutti favorevoli senza se e senza ma alla maggioranza al governo, glissano sulle sue difficoltà, e dedicano molto spazio alla cronache mondane e nere. Così, se i mass media tradizionali, compresi i giornali di partito o di parte possono solo confermare e rinforzare opinioni già formate, le nuove reti di comunicazione, i social, hanno campo libero nel trasformare, deformare, manipolare le opinioni. Anche in riferimento al ruolo dei mass media tradizionali e nuovi, andrebbe preso in considerazione il problema posto dal cambiamento in atto del livello culturale del corpo elettorale. Al di là delle diversità tra Europa e Stati Uniti si può ipotizzare un generale progressivo abbassamento di tale livello culturale, soprattutto un processo di anomia dovuto alla rapidità dei cambiamenti oltre che alla crisi delle élites, della scuola, delle agenzie di socializzazione con la scomparsa dei vecchi partiti, in Italia la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che svolgevano una funzione educativa e di formazione. Una manifestazione di tale anomia è la sfiducia e diffidenza verso gli esperti – emersa prepotentemente nel periodo del Covid – compresi insegnanti e medici; sfiducia e diffidenza che talora si manifestano con aggressività. Si pone, ultimo non per importanza, il problema dell’astensionismo da spiegare nelle sue molteplici cause. Tra queste la sfiducia verso le istituzioni a partire da quelle in più diretto rapporto con i cittadini: i Comuni con la polizia locale, gli uffici tributari, le/gli assistenti sociali. Sarebbe interessante verificare se l’astensionismo è più elevato dove tali istituzioni funzionano peggio. Di fronte alla complessità di questi e altri problemi, colpiscono le spiegazioni della crisi e degli insuccessi elettorali della sinistra sovente date da giornalisti, opinionisti, esperti vari; spiegazioni che non sono altro che slogan ripetitivi: “la sinistra non fa opposizione”, “è chiusa nelle Ztl”, “è arrogante, antipatica”, o più semplicemente “l’opposizione non esiste”; e così via cantando o talkshoweggiando. Solo slogan, in quanto pretendono di spiegare senza essere spiegati. Alcuni studiosi, volendo approfondire l’argomento, attribuiscono gli insuccessi della sinistra – della Harris come della nostrana – all’aver “rinunciato alla stella polare dell’eguaglianza a favore di quella dell’inclusione”, così tra gli ultimi Ricolfi estrapolando da Bobbio (La Stampa, 10 Novembre ‘24). La sinistra inoltre sarebbe stata coinvolta o infettata dalla “crisi woke” con la sua cancel culture, dalle ridicolaggini del politicamente iper corretto ecc. Ma questi rischiano di essere dei “luoghi comuni”, common places come vengono definiti nella letteratura internazionale che si occupa del senso comune, del suo linguaggio e delle sue retoriche (M. Billig, Ideologia e opinione. Studi di Psicologia retorica, Laterza ditore, 1995). Se si analizzasse la comunicazione della sinistra in Italia, dei suoi leader, si potrebbe scoprire che i suoi contenuti ampiamente prevalenti riguardano l’uguaglianza e non l’inclusione. Può succedere però che anche un semplice riferimento ai diritti dei transgender o al genere come libera scelta possa avere un “effetto di salienza”, emergendo e catturando l’attenzione, ponendo in ombra, annullando quasi la pur prevalente comunicazione sull’eguaglianza o, ad esempio, sul salario minimo. È paradossale, se non ridicolo, che a cascare in simili luoghi comuni non siano, come si ritiene usualmente, delle persone comuni (laymen) ma studiosi ed esperti. È inoltre legittimo chiedersi perché “l’eguaglianza” e “l’inclusione” debbano essere considerate delle alternative: aut aut. Dopo aver respinto certe assurdità della cancel culture, che possono essere spiegate solo da un eccesso di ignoranza, dopo aver analizzato e individuato diritti che non possono essere considerati tali, perché non lottare per avere il pane e le rose? La “incredibile” vittoria di Trump, le sconfitte della sinistra negli Stati Uniti e in Europa pongono quindi problemi che andrebbero indagati in primo luogo empiricamente, a partire dall’analisi dei sistemi elettorali e dei risultati, del loro andamento, di come si disgregano, della misura delle vittorie e delle sconfitte. Indagini e ricerche come quelle presentate nel recente volume curato da Marc Lazar, Crisis and Challenges of the European Left (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2024). Sarebbe inoltre necessario condurre ricerche qualitative che rilevassero ed analizzassero il linguaggio, i discorsi, per (tentare di) rilevare il sentire e il pensare delle persone. Ricerche in grado di analizzare tra l’altro “i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo e nel comportamento elettorale delle donne” opportunamente indicati da Ricolfi come “uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni”. Allo stesso modo si continua a ripetere autorevolmente che i “I dem stanno perdendo il favore dei lavoratori e della middle class e che non hanno fatto nulla per riconquistarlo… che le élites democratiche sono generalmente distanti dai lavoratori.” (Daron Agemoglu, premio Nobel per l’economia). Ma manca una analisi che spieghi perché questo è successo. Se la politica di Biden ha favorito i lavoratori perché non li ha riconquistati, non in misura sufficiente? Quali gli errori della sinistra? Quale il peso del suo atteggiamento, per altro non ben spiegato, indiscriminatamente a favore dell’immigrazione? Quando e come è successo che le élite democratiche, negli Stati Uniti come in Italia, hanno perso il contato con quelle che venivano definite ‘masse’? Una definizione fuorviante se fa pensare a un tutto indifferenziato o tendenzialmente omogeneo, essendo invece un insieme in continuo cambiamento di categorie e classi sociali (si veda su questo da ultimo G. Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza editore, 2024 e l’articolo di Brotini, ” Le classi sociali esistono. E anche il conflitto” in Left, dicembre 2024). A quali cambiamenti del contesto storico e culturale e delle (ex) masse può essere attribuita tale perdita di contatto? Può essere attribuita anche allo “stile”, alle modalità di comunicazione di certi leader della sinistra? Non trascurando il ruolo della comunicazione non verbale che è quella più diretta ed efficace. Pensando a quello che in un momento decisivo di cambiamento (gli anni 90 del secolo scorso) fu un leader della sinistra italiana, e a quanti lo attorniavano adulanti, si ricordano le scarpe di pregio esibite, i gusti culinari ostentatamente raffinati, la “barca” che non era più la barchetta familiare di Berlinguer. Comportamenti politicamente motivati forse dal voler conquistare la fiducia delle classi più elevate. Queste sono rimaste dove erano, le classi lavoratrici e medie si sono allontanate. Comunicazioni non verbali, stili di comportamento lontani e che allontanano, caratteristici talora di leader e opinion leader della sinistra; dettagli certo che tuttavia meriterebbero di essere considerati. Si delinea in definitiva un ampio e complesso campo di ricerca per studiosi che, non limitandosi a criticare con livore la sinistra, volessero dare un contributo al suo riscatto. L’autore: Francesco Paolo Colucci già professore ordinario di Psicologia sociale, Università di Milano Bicocca