lunedì 30 settembre 2019
... chiarimenti ...
Ciao Patricia,
non so se cestinerai subito questa Email o ti fermerai un attimo a leggerla ma è importante per me comunicarti alcune cose: prima di tutto mi capita spesso di guardare il tuo ritratto rimasto sull'account Whatsapp e questo forse ti farà piacere, ma veniamo al dunque: quando tu mi hai chiesto aiuto perché il tuo frigo "era vuoto" sono caduto letteralmente dalle nuvole dove ero, grazie a te ... ho avuto la netta sensazione di essere un limone da spremere, un pollo da spennare, il solito vecchietto da intontire di belle frasi per poi pelarlo a dovere e lì è scattata la mia reazione di disgusto: una sequela di richieste di denaro, pur conoscendo le mie difficoltà economiche, e poi l'assegno: un ottimo mezzo per mettermi nei guai: oggi ho fatto un giro su internet e viene caldamente sconsigliato ai turisti di recarsi nel Mali! I terroristi imperversano, anche intorno alla capitale e ci sono stati di recente degli attentati - ma ti fidi a restare ancora lì con un bambino di cinque anni? Non ci crederai ma io oggi pensavo a te sola in quell'ambiente non proprio raccomandabile. In un periodo in cui la Finanza setaccia tutte le operazioni un po' strane con questa triangolazione Francia- Italia- Mali io li inviterei a nozze e mi rovinerei quel po' di reputazione bancaria che mi rimane, dopo aver richiesto ben TRE PRESTITI! Se accetti un mio consiglio appena puoi prendi un aereo magari low cost e vai direttamente in Francia a riscuotere il tuo credito! L'amore è una cosa seria che non è fatta di continue rimesse di denaro ma di vicinanza, di complicità, di dedizione. Puoi insultarmi e trattarmi male se vuoi ma spero che tu legga il mio messaggio, ed il fatto che ti abbia scritto la dice lunga sull'effetto che hai fatto su di me.
Ti mando un saluto che veloce parte da questa città per arrivare a quella terra a me sconosciuta che spero non ti sia nemica.
non so se cestinerai subito questa Email o ti fermerai un attimo a leggerla ma è importante per me comunicarti alcune cose: prima di tutto mi capita spesso di guardare il tuo ritratto rimasto sull'account Whatsapp e questo forse ti farà piacere, ma veniamo al dunque: quando tu mi hai chiesto aiuto perché il tuo frigo "era vuoto" sono caduto letteralmente dalle nuvole dove ero, grazie a te ... ho avuto la netta sensazione di essere un limone da spremere, un pollo da spennare, il solito vecchietto da intontire di belle frasi per poi pelarlo a dovere e lì è scattata la mia reazione di disgusto: una sequela di richieste di denaro, pur conoscendo le mie difficoltà economiche, e poi l'assegno: un ottimo mezzo per mettermi nei guai: oggi ho fatto un giro su internet e viene caldamente sconsigliato ai turisti di recarsi nel Mali! I terroristi imperversano, anche intorno alla capitale e ci sono stati di recente degli attentati - ma ti fidi a restare ancora lì con un bambino di cinque anni? Non ci crederai ma io oggi pensavo a te sola in quell'ambiente non proprio raccomandabile. In un periodo in cui la Finanza setaccia tutte le operazioni un po' strane con questa triangolazione Francia- Italia- Mali io li inviterei a nozze e mi rovinerei quel po' di reputazione bancaria che mi rimane, dopo aver richiesto ben TRE PRESTITI! Se accetti un mio consiglio appena puoi prendi un aereo magari low cost e vai direttamente in Francia a riscuotere il tuo credito! L'amore è una cosa seria che non è fatta di continue rimesse di denaro ma di vicinanza, di complicità, di dedizione. Puoi insultarmi e trattarmi male se vuoi ma spero che tu legga il mio messaggio, ed il fatto che ti abbia scritto la dice lunga sull'effetto che hai fatto su di me.
Ti mando un saluto che veloce parte da questa città per arrivare a quella terra a me sconosciuta che spero non ti sia nemica.
domenica 29 settembre 2019
... 75 anni fa ...
"La nostra pietà per loro significhi che tutti gli uomini e le donne sappiano vigilare perché mai più il nazifascismo risorga". E' la scritta, semplice eppure piena di significati, che dopo 75 anni accoglie chi si arrampica fino al cimitero di Casaglia, sopra Marzabotto, sull'Appennino Bolognese. Uno dei luoghi dove è avvenuta una delle più grandi e feroci stragi di civili di tutta la seconda guerra mondiale, quella che in Italia ha causato più vittime.
Fra l'estate e l'autunno del 1944 la ritirata delle truppe tedesche, ormai sconfitte, lasciò dietro di sé una gigantesca scia di sangue. Fra il 29 settembre e il 5 ottobre la marcia della morte guidata dal maresciallo Kesselring per fare 'terra bruciata' attraversò le colline e le montagne attorno a Marzabotto, lasciando dietro di sé circa 800 morti.
Fu una strage, come hanno riconosciuto numerosi atti processuali, premeditata, decisa a tavolino, eseguita con fredda metodicità, che non risparmiò donne, invalidi, bambini: nessuna rappresaglia, nessuna vendetta. Solo l'intenzione di distruggere e uccidere. L'obiettivo delle Ss era quello di stroncare le formazioni partigiane che combattevano per la liberazione, con la logica dell'equiparazione dei civili alle formazioni in armi. Considerando, quindi, anche donne, bambini e anziani, come dei nemici da sterminare.
Sui monti di Marzabotto era attiva la brigata partigiana 'Stella Rossa'. Prima di attaccarla Kesselring ordinò al maggiore Walter Reder di organizzare una vasta operazione di rastrellamento fra le valli del Reno e del Setta. Un'operazione militare in grande stile, condotta, però, contro nemici disarmati.
Il 29 settembre 1944 la gente, impaurita, si riunì nella piccola chiesa di Casaglia e cominciò a recitare il rosario. I nazifascisti entrarono in chiesa, freddarono con una raffica don Ubaldo Marchioni e raccolsero sul sagrato tutti gli altri che uccisero, poi, con fredda metodicità: 195 vittime, le prime di una settimana di sangue, costellata da decine e decine di altri eccidi in villaggi e cascinali. Con una ferocia inconsueta: il corpo, decapitato, di un altro prete, don Giovanni Fornasini, fu ritrovato solo nell'inverno successivo, sotto la neve. Marzabotto, Grizzana, Vado di Monzuno, Castellano. Ovunque lo stesso copione, che rispondeva a ordini precisi: "uccidere tutti, distruggere tutto".
Lucia Sabbioni aveva 15 anni. Sopravvisse solo perché, quando vide i tedeschi che finivano con il fuoco quelli che si lamentavano, ebbe la freddezza di fingersi morta. Ai pochi sopravvissuti sono rimasti ricordi e incubi per tutta la vita.
Ma a loro si deve il racconto del fatto che molti di quei giovani con la divisa delle Ss parlavano in italiano, con un forte accento dell'Appennino bolognese: furono i fascisti locali, infatti, a guidare con grande precisione i militari nazisti in ritirata.
Oggi Marzabotto e Monte Sole sono un luogo di memoria. Da anni è attiva la scuola di Pace, che organizza iniziative e incontri, ogni 25 aprile migliaia di persone, soprattutto giovani, vi si radunano per un festoso pellegrinaggio sui luoghi dove è nata la Costituzione e molte delle più alte cariche istituzionali tedesche vi sono venute in visita, per ricordarsi il motivo principale per il quale è nato il sogno europeo.
Gli interminabili decenni che i familiari hanno dovuto aspettare perché giustizia fosse fatta, l'insopportabile silenzio infranto solo nel 1994 quando si spalancarono le ante dell'armadio della vergogna di palazzo Celsi e tornarono alla luce quasi 700 fascicoli sui crimini compiuti da nazisti e fascisti, rimangono un peso che questa piccola comunità d'Appennino ha dovuto sopportare per tanto tempo. Come le scariche di mitra, che i pochi sopravvissuti hanno sentito risuonare nelle loro teste e nei loro incubi per tutta la vita. E che sembrano quasi tornare a minacciare, 75 anni dopo, i sentieri in mezzo ai castagni di Marzabotto, ogni volta che l'odio e l'intolleranza sembrano provare a prendere il sopravvento sul dialogo e la pace.
sabato 28 settembre 2019
... pensando a Patricia ...
La Francia sottrae all’Africa 10 miliardi di Euro all’anno
di Andrea Costa
– Dicono: i francesi sono più ricchi degli italiani, quindi possono sforare, sforare sforare e tanto meglio se lo faranno anche oltre il 3% per soccorrere i poveri, per soccorrere chi è rimasto indietro, per aiutare le vittime del feticismo del debito pubblico. Debito rigidissimo per la Grecia, debito rigidissimo per l’Italia, debito rigido per la Spagna, debito rigido per il Portogallo, debito flessibile per gli amici. Quello che non ci si chiede mai è: ma la Francia da dove prende questa montagna di soldi? Per non porgere le terga alla commissione europea, il governo italiano è stato costretto, per il prossimo triennio, a sottrarsi alla logica di porre il lato B davanti al calcio già in canna. E per evitare la temutissima procedura di infrazione, una roba che solo a pronunciarla fa tremare le vene ai polsi, ha dovuto negoziare la propria politica economica. Pensate: la procedura di infrazione, che manco avessero detto la recisione dell’arteria femorale. Però non importa, andiamo avanti, facciamo finta che si tratti di cosa buona e giusta, ma cerchiamo di capire per quale ragione, al contrario di altri paesi UE, la Francia può permettersi di fare ciò che vuole. La risposta per certi aspetti è perfino banale: i francesi emettono debito sapendo di poterlo sostenere. Il problema è che la sostenibilità di queste operazioni (che peraltro fanno tutti gli Stati per mantenersi) riconduce ad un’arma segreta, o perlomeno ad un’arma semi sconosciuta, una specie di super missile che in questo caso corrisponde a una moneta battuta da Tesoro francese al di fuori del sistema europeo, e con la funzione di regolare i rapporti commerciali con 14 ex colonie africane. Si tratta di una specie di turbo finanziario concesso soltanto alla Francia da parte dell’Unione Europea, una divisa super fotonica e privilegiata e “spintaneamente” imposta alle 14 ex colonie, di cui non dispone nessun altro paese facente parte del pollaio Ue: si tratta della Guinea Bissau e della Repubblica Centroafricana e poi di altri 12 stati (Benin, Burkina, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon), stati questi che utilizzano la valuta CFA, stampata in una città della Francia, e ora legata al valore dell’euro ma che fu istituita all’inizio della seconda guerra mondiale. Cosa prevede l’accordo? Come denuncia da anni il leader panafricano, Mohamed Konarè, la Francia garantisce: a) la convertibilità illimitata del Franco CFA e del Franco delle Comore in qualsiasi valuta straniera; b) il tasso fisso fisso di parità con la valuta francese (prima il Franco, poi l’euro); c) i trasferimenti di capitale all’interno dell’area valutaria gratuiti. Il problema è che in cambio di questi primi tre principi, il 50% delle riserve valutarie dei Paesi della zona monetaria del franco CFA e il 65% delle riserve del franco delle Comore sono depositate in un conto di transazione della Banque de France a Parigi. Tanto per capirci, se tizio volesse investire 1000 € per un progetto in Senegal dovrebbe farlo con il franco CFA e la Francia tratterrà il 50% del valore del cambio. Proprio così. In altre parole, la Francia trattiene le riserve in franchi CFA (Franco delle Colonie Francesi d’Africa coniato nel 1945) presso la Banque de France, e queste riserve sono stimate in circa 10 miliardi di euro (4,6 miliardi per CEMAC – Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale – a gennaio 2016 e 5,1 miliardi per WAEMU – West African Economic and Monetary Union – a dicembre 2015). La fonte è il prestigioso Le Monde, che conferma il meccanismo messo in piedi dalla Francia. Conferma che arriva anche dalla comunità scientifica composta da numerosi economisti. Come ad esempio il professor Massimo Amato dell’Università Bocconi di Milano, e come conferma anche un servizio di Raidue firmato da Filippo Barone, mandato coraggiosamente in onda nelle tenebre della notte. La cifra totale che, insomma, i francesi trovano ogni anno sotto il tappeto, è di 10 miliardi di euro, un doping monetario come denunciato anche da Claudio Messora di Byoblu che lungi dall’essere il risultato di politiche economiche, oppure di emissione di titoli pubblici, è in realtà frutto di una tassa dei ricchi imposta ai poveri per sostenere la crescita economica francese. Si spiega così, o perlomeno si spiega in parte, il motivo per cui nonostante le varie crisi susseguitesi negli anni, l’Eliseo è sempre riuscito a mantenere un rapporto deficit Pil più basso rispetto a quello di altri paesi, come ad esempio l’Italia. Tutto questo, come è facile intuire, a scapito dell’economia dei paesi in cui è in vigore questa divisa, la quale, essendo molto forte ed avendo un tasso di cambio pari al 50%, praticamente strozza ogni forma di credito, il che equivale a creare i presupposti del disastro. E non è che i francesi non lo sappiano, anzi lo sanno benissimo. E infatti se ne guardano bene dal rinegoziare gli accordi con i paesi africani, e si guardano bene anche dal difendersi dagli attacchi della Germania della Merkel, la quale più volte ha cercato di mettere in discussione questo sistema parallelo, senza peraltro riuscirci, ma ottenendo in cambio la sopravvivenza dell’asse carolingio. Tant’è vero che non c’è traccia di una revisione dei trattati, né per l’anno in corso, né per quello successivo, e a quanto pare neppure per quelli a venire. La Francia, insomma, usa il pugno di ferro. Ma anche la maschera di ferro. Questi trattati non si toccano. Questa moneta non si tocca. La nostra divisa non è in discussione. Punto. Il problema è la ricaduta sui paesi africani, che è paradossale e drammatica. Tra le altre cose, non ultima quella di non avere una propria moneta sovrana, gli africani lamentano di essere costretti ad usare la divisa francese, che però ha un valore talmente alto da non essere prestabile per mancanza di garanzie finanziarie o materiali, perché nessuna banca sarà mai disposta a erogare credito senza garanzie, e poiché l’Africa non ha una banca centrale, nessuno riesce a mettere le mani su questa valuta per creare sviluppo. In sostanza, gli africani sono ancora schiavi, e non solo perché non hanno una loro valuta, ma perché sono costretti ad acquistarla dalla Francia, lasciando ai francesi il 50% del valore degli scambi. Libertè egalitè, ma i soldi a me. A Dakar, ad esempio, le banche non prestano soldi, manco per sbaglio. Perché i soldi a Dakar servono a difendere il cambio fisso, e in ogni caso anche quando (raramente) i prestiti vengono erogati, il tasso di interesse varia dal 15 al 25%. Il sistema di cambio del sistema CFA, quindi, costringere gli istituti di credito a non finanziare alcuna attività, ma senza il microcredito queste terre continueranno ad essere povere in eterno pur essendo tra le più ricche del mondo per quanto riguarda le materie prime tra le quali l’uranio che la Francia preleva per alimentare le sue centrali nucleari. Così la povertà avanza, la gente vive di stenti, il lavoro non c’è, la sanità è rudimentale. Tutto è precario. La vita è scandita da un orizzonte temporale di 12 ore invece di 24. Le condizioni sono terribili, in alcuni paesi manca sia l’acqua che l’elettricità, e perfino alcuni generi alimentari come ad esempio le cipolle che vengono importate dall’Olanda a costi altissimi. E allora perché stupirsi se poi migliaia di persone si riversano sulle coste del Mediterraneo, pagando pure il pizzo ai trafficanti di carne umana i quali poi investono immediatamente quei denari per comprare armi e droga. “Quello che chiede l’Africa – dice Mohamed Konaré – è una moneta propria, una divisa libera dai vincoli con la Francia, una banca centrale. Le persone muoiono nel deserto. E il paradosso, è che l’Africa pur essendo ricca di materie prime, si trova nella miseria più assoluta. Noi africani chiediamo semplicemente di poter stare nelle nostre terre, ma liberi dalla politica monetaria imposta dell’Occidente”. Qui l’Unione Europea mostra il volto feroce, quello di un’entità geografica ma non politica, quella di un bambino senza genitori, quello di un orfano per il quale è difficile distinguere il bene dal male, quello avido degli istinti monetari e finanziari. Nel marzo 2008 Jacques Chirac affermava: “Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo”. Il predecessore di Chirac, François Mitterand, già nel 1957 profetizzava che “senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21esimo secolo”. Più modestamente Riccardo Cocciante nel 1974 pennellava, a sua insaputa, il ritratto di questa Europa: “E adesso siediti su quella seggiola, stavolta ascoltami senza interrompere, è tanto tempo che volevo dirtelo. Vivere insieme a te è stato inutile, tutto senza allegria, senza una lacrima, niente da aggiungere ne da dividere, nella tua trappola ci son caduto anch’io, avanti il prossimo, gli lascio il posto mio”. Bella senz’anima. Avanti il prossimo.
Fonte: electoradio via Controinformazione
di Andrea Costa
– Dicono: i francesi sono più ricchi degli italiani, quindi possono sforare, sforare sforare e tanto meglio se lo faranno anche oltre il 3% per soccorrere i poveri, per soccorrere chi è rimasto indietro, per aiutare le vittime del feticismo del debito pubblico. Debito rigidissimo per la Grecia, debito rigidissimo per l’Italia, debito rigido per la Spagna, debito rigido per il Portogallo, debito flessibile per gli amici. Quello che non ci si chiede mai è: ma la Francia da dove prende questa montagna di soldi? Per non porgere le terga alla commissione europea, il governo italiano è stato costretto, per il prossimo triennio, a sottrarsi alla logica di porre il lato B davanti al calcio già in canna. E per evitare la temutissima procedura di infrazione, una roba che solo a pronunciarla fa tremare le vene ai polsi, ha dovuto negoziare la propria politica economica. Pensate: la procedura di infrazione, che manco avessero detto la recisione dell’arteria femorale. Però non importa, andiamo avanti, facciamo finta che si tratti di cosa buona e giusta, ma cerchiamo di capire per quale ragione, al contrario di altri paesi UE, la Francia può permettersi di fare ciò che vuole. La risposta per certi aspetti è perfino banale: i francesi emettono debito sapendo di poterlo sostenere. Il problema è che la sostenibilità di queste operazioni (che peraltro fanno tutti gli Stati per mantenersi) riconduce ad un’arma segreta, o perlomeno ad un’arma semi sconosciuta, una specie di super missile che in questo caso corrisponde a una moneta battuta da Tesoro francese al di fuori del sistema europeo, e con la funzione di regolare i rapporti commerciali con 14 ex colonie africane. Si tratta di una specie di turbo finanziario concesso soltanto alla Francia da parte dell’Unione Europea, una divisa super fotonica e privilegiata e “spintaneamente” imposta alle 14 ex colonie, di cui non dispone nessun altro paese facente parte del pollaio Ue: si tratta della Guinea Bissau e della Repubblica Centroafricana e poi di altri 12 stati (Benin, Burkina, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon), stati questi che utilizzano la valuta CFA, stampata in una città della Francia, e ora legata al valore dell’euro ma che fu istituita all’inizio della seconda guerra mondiale. Cosa prevede l’accordo? Come denuncia da anni il leader panafricano, Mohamed Konarè, la Francia garantisce: a) la convertibilità illimitata del Franco CFA e del Franco delle Comore in qualsiasi valuta straniera; b) il tasso fisso fisso di parità con la valuta francese (prima il Franco, poi l’euro); c) i trasferimenti di capitale all’interno dell’area valutaria gratuiti. Il problema è che in cambio di questi primi tre principi, il 50% delle riserve valutarie dei Paesi della zona monetaria del franco CFA e il 65% delle riserve del franco delle Comore sono depositate in un conto di transazione della Banque de France a Parigi. Tanto per capirci, se tizio volesse investire 1000 € per un progetto in Senegal dovrebbe farlo con il franco CFA e la Francia tratterrà il 50% del valore del cambio. Proprio così. In altre parole, la Francia trattiene le riserve in franchi CFA (Franco delle Colonie Francesi d’Africa coniato nel 1945) presso la Banque de France, e queste riserve sono stimate in circa 10 miliardi di euro (4,6 miliardi per CEMAC – Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale – a gennaio 2016 e 5,1 miliardi per WAEMU – West African Economic and Monetary Union – a dicembre 2015). La fonte è il prestigioso Le Monde, che conferma il meccanismo messo in piedi dalla Francia. Conferma che arriva anche dalla comunità scientifica composta da numerosi economisti. Come ad esempio il professor Massimo Amato dell’Università Bocconi di Milano, e come conferma anche un servizio di Raidue firmato da Filippo Barone, mandato coraggiosamente in onda nelle tenebre della notte. La cifra totale che, insomma, i francesi trovano ogni anno sotto il tappeto, è di 10 miliardi di euro, un doping monetario come denunciato anche da Claudio Messora di Byoblu che lungi dall’essere il risultato di politiche economiche, oppure di emissione di titoli pubblici, è in realtà frutto di una tassa dei ricchi imposta ai poveri per sostenere la crescita economica francese. Si spiega così, o perlomeno si spiega in parte, il motivo per cui nonostante le varie crisi susseguitesi negli anni, l’Eliseo è sempre riuscito a mantenere un rapporto deficit Pil più basso rispetto a quello di altri paesi, come ad esempio l’Italia. Tutto questo, come è facile intuire, a scapito dell’economia dei paesi in cui è in vigore questa divisa, la quale, essendo molto forte ed avendo un tasso di cambio pari al 50%, praticamente strozza ogni forma di credito, il che equivale a creare i presupposti del disastro. E non è che i francesi non lo sappiano, anzi lo sanno benissimo. E infatti se ne guardano bene dal rinegoziare gli accordi con i paesi africani, e si guardano bene anche dal difendersi dagli attacchi della Germania della Merkel, la quale più volte ha cercato di mettere in discussione questo sistema parallelo, senza peraltro riuscirci, ma ottenendo in cambio la sopravvivenza dell’asse carolingio. Tant’è vero che non c’è traccia di una revisione dei trattati, né per l’anno in corso, né per quello successivo, e a quanto pare neppure per quelli a venire. La Francia, insomma, usa il pugno di ferro. Ma anche la maschera di ferro. Questi trattati non si toccano. Questa moneta non si tocca. La nostra divisa non è in discussione. Punto. Il problema è la ricaduta sui paesi africani, che è paradossale e drammatica. Tra le altre cose, non ultima quella di non avere una propria moneta sovrana, gli africani lamentano di essere costretti ad usare la divisa francese, che però ha un valore talmente alto da non essere prestabile per mancanza di garanzie finanziarie o materiali, perché nessuna banca sarà mai disposta a erogare credito senza garanzie, e poiché l’Africa non ha una banca centrale, nessuno riesce a mettere le mani su questa valuta per creare sviluppo. In sostanza, gli africani sono ancora schiavi, e non solo perché non hanno una loro valuta, ma perché sono costretti ad acquistarla dalla Francia, lasciando ai francesi il 50% del valore degli scambi. Libertè egalitè, ma i soldi a me. A Dakar, ad esempio, le banche non prestano soldi, manco per sbaglio. Perché i soldi a Dakar servono a difendere il cambio fisso, e in ogni caso anche quando (raramente) i prestiti vengono erogati, il tasso di interesse varia dal 15 al 25%. Il sistema di cambio del sistema CFA, quindi, costringere gli istituti di credito a non finanziare alcuna attività, ma senza il microcredito queste terre continueranno ad essere povere in eterno pur essendo tra le più ricche del mondo per quanto riguarda le materie prime tra le quali l’uranio che la Francia preleva per alimentare le sue centrali nucleari. Così la povertà avanza, la gente vive di stenti, il lavoro non c’è, la sanità è rudimentale. Tutto è precario. La vita è scandita da un orizzonte temporale di 12 ore invece di 24. Le condizioni sono terribili, in alcuni paesi manca sia l’acqua che l’elettricità, e perfino alcuni generi alimentari come ad esempio le cipolle che vengono importate dall’Olanda a costi altissimi. E allora perché stupirsi se poi migliaia di persone si riversano sulle coste del Mediterraneo, pagando pure il pizzo ai trafficanti di carne umana i quali poi investono immediatamente quei denari per comprare armi e droga. “Quello che chiede l’Africa – dice Mohamed Konaré – è una moneta propria, una divisa libera dai vincoli con la Francia, una banca centrale. Le persone muoiono nel deserto. E il paradosso, è che l’Africa pur essendo ricca di materie prime, si trova nella miseria più assoluta. Noi africani chiediamo semplicemente di poter stare nelle nostre terre, ma liberi dalla politica monetaria imposta dell’Occidente”. Qui l’Unione Europea mostra il volto feroce, quello di un’entità geografica ma non politica, quella di un bambino senza genitori, quello di un orfano per il quale è difficile distinguere il bene dal male, quello avido degli istinti monetari e finanziari. Nel marzo 2008 Jacques Chirac affermava: “Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo”. Il predecessore di Chirac, François Mitterand, già nel 1957 profetizzava che “senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21esimo secolo”. Più modestamente Riccardo Cocciante nel 1974 pennellava, a sua insaputa, il ritratto di questa Europa: “E adesso siediti su quella seggiola, stavolta ascoltami senza interrompere, è tanto tempo che volevo dirtelo. Vivere insieme a te è stato inutile, tutto senza allegria, senza una lacrima, niente da aggiungere ne da dividere, nella tua trappola ci son caduto anch’io, avanti il prossimo, gli lascio il posto mio”. Bella senz’anima. Avanti il prossimo.
Fonte: electoradio via Controinformazione
giovedì 26 settembre 2019
... la diabolica ...
... incredibile! Patricia è di nuovo qui, presente nel mio cuore e mi domina ... ma è anche vero che contro il proprio destino ed i propri legami non si può andare!
e quindi S T O P !!!
lunedì 23 settembre 2019
... 103 anni fa ...
A 103 anni dalla sua nascita, la morte di Aldo Moro è ancora avvolta nel mistero
A Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre del 1916 nasce un uomo destinato ad identificarsi totalmente con la sua nazione, un individuo il cui nome è stato talvolta taciuto ed altre volte scritto a lettere cubitali sui muri: Aldo Moro.
Al Liceo “Archita” di Taranto consegue la maturità Classica e a Bari compie il primo passo verso la sua futura carriera, iscrivendosi all’Università di Giurisprudenza, il cui percorso sarà terminato nel migliore dei modi: dopo aver superato tutti gli esami con 30 e 30 e lode, si laurea il 13 novembre 1938, con una tesi “La capacità giuridica penale”, dal grande valore scientifico, supportato dal relatore prof. Biagio Petrocelli, ordinario di diritto penale e in quel periodo anche Rettore dell’ateneo barese.
Nel 1945 la vita di Aldo Moro subisce svolte importanti: fonda il periodico “La Rassegna” e sposa Eleonora Chiavarelli, con la quale darà al mondo quattro figli. Diventa presidente del Movimento Laureati dell’Azione Cattolica, ed è direttore della rivista “Studium“.
L’anno seguente viene eletto all’Assemblea Costituente ed entra a far parte della Commissione incaricata alla stesura della Costituzione, nelle vesti di vicepresidente del gruppo DC dell’Assemblea.
fotogramma – aldo moro figlia – ALDO MORO CON LA FIGLIA A TERRACINA (Bruni / GIACOMINOFOTO, TERRACINA – 1993-01-31)
Nelle elezioni del 18 aprile 1948 viene eletto deputato al Parlamento nella circoscrizione Bari-Foggia e viene nominato sottosegretario agli Esteri; nel 1953 diventa Professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Bari; nel 1955 diviene ministro di Grazia e Giustizia, nel 1956 è tra i primi eletti nel Consiglio nazionale della DC, l’anno seguente ministro della Pubblica Istruzione nel governo Zoli, lo stesso incarico che ricoprirà durante il secondo Governo Fanfani. Dal 1959 al 1964 Aldo Moro è il Segretario della Democrazia Cristiana.
Chi ha ucciso Aldo Moro? Le Brigate Rosse, gli americani, lo Stato italiano
La parole che sembrano dar vita al Caso Moro sono “compromesso storico“: ideato da Aldo Moro, la manovra politica avrebbe dovuto vedere l’unione dei comunisti, uomini di sinistra con i centristi di ala moderata. Gli elettori del PCI sono avversi al progetto tanto quanto i moderati, nelle elezioni del ’68 Moro viene rieletto alla Camera, ma il centro-sinistra entra in crisi. Dal 1970 al 1974 Moro ha l’incarico di ministro degli Esteri e nel 1976 è il Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana.
Due anni dopo Moro vive l’ultimo incubo della sua esistenza: è il 16 marzo 1978, Moro si sta recando al Parlamento per il dibattito sulla fiducia del Governo Andreotti, che avrebbe previsto la partecipazione del PCI. La Brigate Rosse però hanno un destino diverso per Aldo Moro, un piano studiato nei minimi dettagli: Via Fani è il luogo, i cinque uomini di scorta sono le vittime e lo statista è l’obiettivo.
Il Comunicato n.1 arriva solo 2 giorni dopo il rapimento: la foto di Aldo Moro da’ il via al processo che condurrà il perno della DC alla morte nella “prigione del popolo“.
Gli oscuri silenzi e le lettere ambigue raccontano i 55 giorni di prigionia
Al governo, alla famiglia, al Papa: i destinatari delle lettere di Moro cercano di scorgere ciò che è nascosto tra le righe, ma il messaggio è chiaro, la vittima delle BR chiede il compromesso con i brigatisti. Andreotti, Cossiga, il partito, non accolgono la sua supplica.
” Era la notte buia dello Stato Italiano, quella del nove maggio settantotto.
La notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro, l’alba dei funerali di uno stato” recita la canzone “I cento passi“: l’autopsia rivela che la morte di Moro è avvenuta tra le 9.00 e le 10.00, eppure il mondo sarà allo scuro del terribile avvenimento fino alle 12:30, quando la Renault 4 rossa contente il corpo senza vita verrà notata.
La telefonata delle BR annuncia l’evento che pone fine ai 55 giorni di prigionia, mentre apre la stagione di lacerazione dello Stato italiano, dal punto di vista etico e morale. L’auto del cadavere di Moro è rinvenuta in via Caetani, a 150mt dalla sede della DC e del Partito Comunista: i brigatisti non lasciano nulla al caso. Le indagini raccontano di uno statista ucciso da Moretti nel garage di via Montalcini.
Quattro giorni prima dell’assassinio, Aldo Moro scrisse alla moglie: “Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”. La vedova accuserà: “Coloro che erano ai differenti posti di comando del governo lo volevano eliminare” .
32 ergastoli e 316 anni di carcere per i brigatisti:
•Rita Algranati: staffetta del commando brigatista. Sta scontando l’ergastolo.
•Barbara Balzerani: condannata all’ergastolo, ora in libertà vigilata dal 2006. Si occupava di controllare la strada durante il sequestro.
•Franco Bonisoli: condannato all’ergastolo e oggi è in semilibertà., sparò sulla scorta di Moro
•Anna Laura Braghetti: ondannata all’ergastolo, è in libertà condizionale dal 2002. Fu intestataria e inquilina con Germano Maccari, dell’appartamento di via Montalcini a Roma, luogo di prigionia di Aldo Moro.
•Alessio Casimirri: controllava la strada in via Fani, fuggito in Nicaragua, gestisce il ristorante «La Cueva Del Buzo», mai stato arrestato.
•Raimondo Etro: custode delle armi usate nella strage.
•Adriana Faranda: arrestata, ma poi tornata in libertà, fu la postina del sequestro Moro
•Raffaele Fiore: condannato all’ergastolo, è in libertà condizionale dal 1997, ha sparato sulla scorta di Moro.
•Prospero Gallinari: latitante dopo il sequestro del giudice Mario Sossi. Morto il 14 gennaio 2013. Ha sparato sulla scorta di Moro e presidiava il covo via Montalcini.
•Mario Moretti: condannato a 6 ergastoli, ma dal 1994 è in semilibertà e lavora da oltre 14 anni per la Regione Lombardia. Capo delle Brigate Rosse, guidava l’auto che ha bloccato Aldo Moro e la scorta. Durante il sequestro interrogava ogni giorno Aldo Moro.
•Valerio Morucci: condannato a 30 anni dopo essersi dissociato dalla lotta armata. Rilasciato nel 1994 ora fa l’informatico. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro ed è stato il postino delle Brigate Rosse.
•Bruno Seghetti: catturato nel 1980 e condannato all’ergastolo, è ammesso al lavoro esterno nell’aprile del 1995. Ottiene la semilibertà nel 1999 che però gli viene revocata. In via Fani guidava l’auto con la quale Moro venne portato via dopo l’agguato.
La lettera per il nipotino Luca: mai consegnata
Luca Bonini, nipote di Moro, riceve questa lettera solo nel 1990 durante i lavori di ristrutturazione dell’ex covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano (già perquisito senza successo nell’ottobre 1978).
Una lettera mai pervenuta per ciò che nascondeva al suo interno, da quanto hanno affermato gli stessi brigatisti: si notano tre passi interessanti: due indicazioni che sembrano riferirsi alla distanza geografica da Roma, luogo in cui si trova Luca (“ora il nonno è un po’ lontano, ma non tanto…” e “il nonno che ora è un po’ fuori”), e un riferimento finale a uno scenario marino (“e quando sarà la stagione, una bella trottata sulla spiaggia”) come se Moro si trovasse non lontano dalla capitale, forse vicino al mare.
Gli Stati Uniti e la loro complicità nell’omicidio di Moro
Nell’aperta guerra tra la Russia comunista e l’universalismo americano, gli USA non avrebbero permesso inglobamento da parte del nemico rosso dell’Italia: è la tesi che sostiene le accuse dell’infiltrazione dei servizi segreti americani nella morte di Moro.
Nel 2008 vi è un’ulteriore prova che sembra concretizzare le ipotesi: un ex funzionario di Washington, Steve Pieczenik, racconta di aver sabotato dei negoziati con le BR con lo scopo di mantenere la stabilità italiana, pur sacrificando Aldo Moro.
Vittima di un periodo oscuro o martire di una giovane nazione, ci sarebbero pagine intere ancora da scrivere sulla figura di Aldo Moro e sulla tragica fine che tutt’ora porta il nome di “Caso Moro“.
“Si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con le sue difficoltà” è una frase pronunciata dallo stesso Moro che ha vissuto il suo tempo per 61 anni, ma non ha mai cessato di esistere in tutti i giorni a seguire.
--un mio commosso seppur modesto omaggio all'uomo che avrebbe potuto far ancora tanto bene all'Italia se mani assassine e complici non l'avessero ucciso, meritandosi così la maledizione eterna!--
--un mio commosso seppur modesto omaggio all'uomo che avrebbe potuto far ancora tanto bene all'Italia se mani assassine e complici non l'avessero ucciso, meritandosi così la maledizione eterna!--
... 25 anni fa ...
Non poteva che nascere e vivere a Torino, che, secondo una certa tradizione, farebbe parte, assieme a Lione e a Praga, del cosiddetto triangolo della magia bianca. Nella città della Sindone e del Museo Egizio, d' altronde, ci passarono Nostradamus e il leggendario conte di Saint-Germain, che vi sarebbe addirittura sepolto, oltre a Giuseppe Balsamo detto il conte di Cagliostro e all'alchimista Fulcanelli, quello del Mistero delle Cattedrali.
Gustavo Adolfo Rol (Torino, 1903-1994), tuttavia, non amava essere chiamato sensitivo o veggente, e tantomeno medium. A Roberto Gervaso, che lo intervistò nel dicembre del 1978 per il Corriere della Sera e che gli chiese di dare una definizione di se stesso, rispose di essere "un essere molto più alla buona, meno importante, ma diverso". E aggiunse di non possedere poteri paranormali, ma "possibilità", che si manifestavano attraverso la telepatia, la chiaroveggenza, la precognizione, la levitazione, la telecinesi e la materializzazione di oggetti.
Una signora, Domenica Fenoglio, che lo aveva frequentato a lungo, raccontò a un giornalista di Novella: "Una volta andai da lui mentre dipingeva. Il pennello si mosse da solo, si alzò fino al soffitto e tornò nelle sue mani. 'Hai paura?', mi chiese. 'No', gli risposi; mi disse 'brava' e continuò a dipingere". Eppure non volle mai sottoporre i suoi "prodigi" a controlli di tipo scientifico.
E a chi, per questa ragione, metteva in dubbio quelle facoltà oltre il normale, come lo scienziato Tullio Regge, Rol replicò in una lettera, il 6 luglio del 1986: "Lei invoca, a giusta ragione, controlli rigorosi ma chiede la presenza di 'prestigiatori professionisti di alto calibro capaci di scoprire immediatamente qualsiasi trucco del ciarlatano di turno'. Io mi domando a che cosa servono queste persone nel caso specifico che il ciarlatano non esista. Quel rapporto della mente col meraviglioso al quale accennavo verrebbe immediatamente turbato col risultato facilmente intuibile: la distruzione in partenza dell'esperimento".
Amato da Federico Fellini e dall'avvocato Gianni Agnelli, da Franco Zeffirelli e da Cesare Romiti, da Pittigrilli e da Dino Buzzati, l'uomo che aveva quelle "possibilità", e che anche Walt Disney volle conoscere, nel 1942 fu convocato da Benito Mussolini a Villa Torlonia. Il Duce gli disse: "Mi dicono che fate delle previsioni. Come va la guerra?".
Dopo avere indugiato per qualche secondo, Rol parlò: "Duce, per me la guerra è perduta". Mussolini lo incalzò: "E il Duce?". E Rol: "Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945". Mussolini, allora, diede un gran pugno sul tavolo e ordinò di congedarlo. Gustavo Adolfo Rol è morto venticinque anni fa, il 22 settembre del 1994, a Torino, dove era nato in un famiglia borghese benestante il 20 giugno del 1903. Tre lauree, antiquario e pittore, scoprì le sue facoltà, secondo quanto raccontava, quando volle provare a indovinare tutte le carte di un mazzo. Cadeva il 28 luglio 1927, era a Parigi. Sulla agenda annotò: "Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!".
Ad apprezzarlo, tra i primi, ci furono il giornalista Renzo Allegri, Dino Buzzati e Federico Fellini. Rammentava l'autore de Il deserto dei Tartari: "Ma 'il personaggio di gran lunga più interessante' racconta Fellini che sta a sé, completamente fuori di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il personaggio portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino. Anche lei certo ne ha già sentito parlare.
Non si tratta di un mago più dotato degli altri. È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l' università, dipinge, si è dedicato per anni all' antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo". Sempre Buzzati, negli anni Sessanta, sul Corriere della Sera narrò che "un altro prodigio avvenne in un ristorante, pure a Torino. Avevano finito di pranzare, era già stato pagato il conto. 'Andiamo?' propose Fellini. 'Andiamo pure' rispose Rol. Fellini fece per avviarsi all' uscita ma si accorse che Rol stava seduto. 'Non ti alzi?' gli chiese. 'Ma io sono già alzato' fece Rol. 'Io sono in piedi'. Fellini guardò meglio: Rol era alzato, infatti, ma aveva la statura di un nano. Il dottor Gustavo Rol, che sfiora il metro e ottanta, non era più alto di un bambino di dieci anni. Qualcosa di folle, di allucinante: come Alice nel paese delle meraviglie. 'Su, andiamo, andiamo' fece Rol a Fellini annichilito".
Piero Angela, invece, ha sempre messo in dubbio le sue "possibilità", e soprattutto i "fenomeni" che ne scaturivano. Le dimostrazioni di Rol, a cui Angela aveva assistito, dall'utilizzo di carte da gioco alla lettura in libri chiusi, per lui erano probabili trucchi illusionistici.
"Per decenni Rol", ha sostenuto Angela, "si è prodotto nei salotti torinesi, davanti (come lui stesso afferma) a 'scienziati, medici, letterati, artisti, religiosi, atei, filosofi, militari, uomini politici, capi di stato e di governo, gente di ogni classe sociale', ecc.: cioè tutte persone incompetenti in trucchi! Perché invece non ha mai voluto fare i suoi 'esperimenti' sotto l'occhio di un esperto? Neanche una volta?".
Della stessa opinione era Tullio Regge. Quando Rol morì, scrisse su La Stampa: "Personalmente io ho visto solamente esperimenti fatti con carte da gioco e non ho rilevato di certo facoltà paranormali: in molti casi usò in modo ovvio le 'forzature' dei prestigiatori". Anche se "rimane il ricordo", concludeva Regge, "di una personalità eccezionale, e inimitabile, veri o falsi che fossero i suoi esperimenti".
venerdì 20 settembre 2019
... R.A.S.P. ...
... dopo Rose, Alice, Sonia, Patricia è arrivato il momento di chiudere questo periodo di "Amori Virtuali", durato anche troppo e di riprendere il mio cammino nella realtà del mio rapporto con una donna "vera" ...
lunedì 16 settembre 2019
... lunedì ...
... e giunse infine il lunedì con l'ostinato silenzio, frutto di maleducazione, di Patricia, con la mia E-mail a Costanza, anche se in ritardo, con il messaggio a Tony per ottobre ed a Tulli della redazione Left, oltre ad una serie di prenotazioni di visite mie e di Rosa, l'importante è girare pagina!
domenica 15 settembre 2019
... 100 anni fa ...
Una struttura ossea e muscolare fragile, con un torace ampio e quasi snaturato che erano capaci di fondersi perfettamente sopra una bicicletta. Non a caso Gianni Brera lo descrisse come “un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta”. Una capacità polmonare da sette litri e mezzo (superiore alla norma) e una frequenza cardiaca da 34 battiti al minuto che esaltavano la sua resistenza sotto sforzo. Insieme a Gino Bartali ha rappresentato molto di più di una rivalità, la più grande e simbolica (ancora oggi) nella storia del ciclismo. Era uno spirito di rivalsa per un intero popolo, uscito a pezzi da una guerra devastante e da un regime fallimentare. Tra povertà e macerie, nel secondo dopoguerra l’Italia è una nazione alla disperata ricerca di eroi da emulare e il ciclismo arriva in soccorso delle folle. È lo sport di riferimento per tutti, molto più del calcio. Un personaggio tanto iconico da spingere Castellania (una piccola cittadina in provincia di Alessandria) a cambiare nome nel 2019 per celebrarlo. Adesso il piccolo paese si chiama, appunto, Castellania Coppi. Ed è proprio lì che il 15 settembre 1919, esattamente cento anni fa, nasce Angelo Fausto Coppi. Il “Campionissimo”, “l’Airone”. Di lui Eddy Merckx dirà: “Le vittorie di Coppi sono diventate romanzo, le mie cronaca”. Un romanzo da cinque Giri d’Italia nel 1940, 1947, 1949, 1952 e 1953 (record condiviso con Binda e lo stesso belga), due Tour de France (1949 e 1952), tre Milano-Sanremo (1946, 1948 e 1949), cinque affermazioni al Giro di Lombardia (1946,1947, 1948, 1949, 1954) e i successi singoli alla Parigi-Roubaix nel 1950 e nel campionato del mondo nel 1953. Ma cinque non sono solo le vittorie nella “corsa rosa” di Coppi. Sono anche i momenti scelti per addentrarci dentro al mito di un’atleta capace di portare 50mila persone a Castellania pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta il 2 gennaio 1960. Causata da un caso di malasanità, una puntura d’insetto e un viaggio in quell’Africa che aveva iniziato ad amare dentro a un campo di concentramento alleato tra il 1943 e 1944.
... giornata di merda ...
... oggi si può definire una vera giornata di merda, una di quelle in cui non ti va bene niente ... si comincia stamane con ripetute incursioni dello stronzetto e della madre incapace, si prosegue con il silenzio prolungato di Patricia, foriero di abbandono e con l'assenza di E-mail da parte di Costanza, per finire con il progetto andato a monte di qualche momento di intimità con la mia Maria Rosa ... insomma un disastro!
... Moana ...
Moana Pozzi se ne andava 25 anni fa: lo scandalo del porno, la liaison con Craxi, la morte misteriosa
Silvia Maria Dubois
La matematica, il clavicembalo e la fuga a Roma
Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato 25 anni fa. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto.
Gli esordi (già un “po’ porno”)
Estate 1980, camera da letto della Reggia di Caserta: è lì, in mezzo alla storia borbonica, che Moana scopre il seno davanti alla telecamera, per la prima volta. Senza troppi problemi, sicura del proprio corpo, nutrita di una certa dose di libertà post sessantottina che le cresce dentro. Si tratta di un cortometraggio, “Smorza ‘e llights ovvero Caserta by night”, di Arnaldo Delehaye, con Renzo Arbore. Ma l’ingresso “ufficiale” nella pornografia di “Serie A” avverrà solo sette anni più tardi. In mezzo, Moana, sembra quasi divertirsi a tirare la corda, calibrando uscite osè a lavori più istituzionali. A Roma si mantiene facendo la modella, con piccole parti nelle commedie italiane, che vivono la loro stagione più florida. Ma Moana osa troppo: nel 1982 le viene affidata una grande occasione, quella di condurre un programma per bambini su Rai 2 (“Tip Tap Club”), ma contemporaneamente si intensificano le sue presenze nei film proibiti, con scene sempre più hot. A nulla le servirà la sfilza di pseudonimi usati in quegli anni (Margaux Jobert si alternava a Linda Heveret): beccata dai dirigenti Rai, fu allontanata dal programma. Lì, il pubblico, inizio ad interessarsi a lei.
Fantastica Moana
È il 1987, l’esordio nei cinema è frontale: una pellicola con il suo nome, la regia di Riccardo Schicchi, un contratto con l’agenzia Diva Futura. Con “Fantastica Moana” si celebra il battesimo di fuoco di quella che sarà ricordata come la più grande pornostar italiana. Da lì, l’agenda della bionda genovese, non avrà più un giorno libero. “Moana la bella di giorno”, “Cicciolina e Moana Mondiali” sono solo due delle pellicole diventate cult, e cucite addosso alla fortissima personalità dell’attrice. Il mito in quegli anni sale di giorno in giorno: le tv se la contendono, i giornali la seguono, al pubblico piace pensare alla rivalità con Ilona Staller (i protagonisti del porno in quel periodo strategico diventano sempre più pop, hanno finalmente un volto e una vita extra, come dimostra anche il caso di Rocco Siffredi). Moana accontenta tutti: non risparmia ospitate nei salotti tv e nei primi, scandalosissimi “Erotik Festival” in terra italiana, incisioni musicali (“Mi sono rotta lo sai”; “Supermacho”), un libro sulle sue conquiste di letto che inguaia non poco personaggi istituzionali, come l’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Il gioco delle ambiguità è un crescendo: nell’Araba Fenice, nel 1988, parla vestita solo di cellophane, scoppia il famoso caso della “rivolta delle casalinghe”, una sua lunga intervista a Baudo resta negli annali. Blob la manda in onda a più non posso. Censura permettendo. Lei stessa dirà più volte: “Il mio è un erotismo consapevole. Faccio all’amore e mi diverto. Ho fatto quello che volevo”.
La politica
Un cuore rosa, dentro una foto stilizzata di Moana. È il simbolo del Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi: nato all’inizio degli anni Novanta, vide un passaggio di testimone proprio fra le due antagoniste dell’hardcore, Cicciolina-Moana. La prima aveva già avuto la fortuna di entrare in parlamento con i Radicali, la seconda, meno fortunata, scese in campo per le elezioni politiche del 1992 e poi per le amministrative nella capitale. Nonostante i punti “seri” del suo programma (lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata) rispetto a quelli precedentemente sostenuti dalla collega (creazione di parchi dell’amore, legalizzazione delle case chiuse), non riuscì ad arrivare all’elezione. Ma Moana prese più voti (12.393 nominali) di Umberto Bossi e Francesco Rutelli. La sconfitta fece virare ancora di più il programma verso temi più seri e sempre meno scandalistici. Moana organizzava direttivi nella sua casa romana, metteva soldi di tasca propria (il partito aveva perso il diritto al rimborso elettorale), ci credeva. Il partito, sebbene trafitto dalle sconfitte elettorali, morì con la scomparsa di Moana. Anche se per un certo periodo lo ressero Biuzzi e la mamma dell’attrice, sostanzialmente per difenderne l’immagine, anche in tribunale.
La morte, tutto un altro film
“Moana è viva!” Moana è viva!”. Sembrano visioni. Con regolare periodicità una voce che non si arrende, si leva da qualche giornale, pronta a giurare che Moana esiste, si nasconde da qualche parte del mondo, come uno di quegli ex leader pronti a tornare al momento giusto. Voci pronte ad alimentare il mito, e a far male alla famiglia. Moana è morta all’Hotel-Dieu di Lione il 15 settembre 1994, dove era ricoverata da mesi. La sua morte, un quarto di secolo fa, è ufficialmente dovuta ad un tumore al fegato, ma si parla anche di epatite cronicizzata. E qui inizia un altro film, l’ultimo di Moana: la sua morte, a soli 33 anni, è ancora fonte di misteri. Dai più neri, come l’ipotesi di essersi spenta a causa dell’Aids a quelle più colorate (viva, felice, al caldo). A posteriori, tutti hanno qualcosa da dire: chi se la ricorda emaciata nelle ultime ospitate, chi la vedeva sempre più triste, chi ha letto spiegazioni nuove in sue vecchie dichiarazioni. La verità è che il pubblico ha bisogno di ricordare un personaggio che ha segnato un’epoca: una ribelle, sensuale libera, elegante e intelligente. Quasi ossimori se cuciti addosso ad una donna, fino a pochi decenni fa.
venerdì 13 settembre 2019
... incrocio di dita ...
... oggi è venerdì 13 ma non scrivo di amuleti o di superstizione: c'è una donna, Patricia, che potrebbe significare per me l'inizio di una nuova vita ... sarà pura follia o un'ultima splendida esperienza di vita? Non lo so, certo è che l'inizio è incoraggiante ...
giovedì 12 settembre 2019
... 11 settembre ...
Non c'è soltanto l'11 Settembre del World Trade Center negli USA.
In omaggio al coraggio del compagno Presidente cileno,
Salvator Allende.
A cura di Risorgimento Socialista:
“Compagno Presidente”
Il 4 settembre 1970 avviene in Cile, paese peraltro tradizionalmente democratico, un miracolo: una coalizione socialista, “Unitad Popular”, con Salvador Allende candidato Presidente,ottiene il numero più alto di voti. Unitad Popular raggiunge il 36,3% dei voti, il candidato della destra Jorge Alessandri il 34,9% e il candidato democristiano Rodomiro Tomic il 27,8%; il Cile ha un sistema presidenziale che da al Presidente della Repubblica il potere di nominare il governo. Nel successivo scrutinio alle camere la Democrazia Cristiana voterà per Allende. E’ la vittoria! Dopo un mese di tensioni il 4 novembre 1970 Salvator Allende socialista entra al palazzo della Moneda come Presidente e capo del governo del Cile. Allende eredita un paese da governare politicamente ed economicamente debole: poca industrializzazione, il rame, ricchezza principale del paese in mano agli Americani, poca agricoltura in mano ai latifondisti, mancanza di un terziario forte e urbanizzazione crescente della popolazione.
I profitti delle industrie a prevalente capitale straniero vanno a vantaggio di pochi, apportando quasi nulla alla ricchezza nazionale. Unità Popolare vince perché una parte della borghesia cilena si schiera con la DC progressista,che spera di avviare con i socialisti un nuovo modello di sviluppo fondato sulla collaborazione fra piccola borghesia e proletariato. In questa realtà i comunisti e i socialisti rappresentano un movimento operaio organizzato, ma profondamente diviso al suo interno; la Dc ha una base interclassista e il partito nazionale rappresenta invece il latifondo e quella parte della borghesia tradizionalista e conservatrice in concorrenza con la destra della DC.
Vi sono poi movimenti minori far cui il MIR, prima astensionista e poi fortemente sostenitore di Allende. Il progetto politico di “Unitad Popular” si fondava su alcune idee forti: la prima che il sistema istituzionale Cileno aveva al suo interno gli strumenti per la trasformazione del Cile in uno stato socialista nel rispetto della legalità costituzionale; la seconda che una radicale trasformazione del capitalismo in capitalismo di stato con riappropriazione dell’industria e del credito unita ad una accelerazione della riforma agraria iniziata da Frei, avrebbe creato le premesse per l’indipendenza economica del paese, per fermare l’inflazione, per rendere l’industria privata non in conflitto con lo stato, per consentire una redistribuzione del reddito a favore delle fasce più deboli della popolazione. Come conseguenza di queste idee guida sarebbe seguita una fase spinta di
nazionalizzazioni, di coinvolgimento degli operai nelle scelte produttive,
acquisizione di capitali provenienti dall’estero.
Il governo, formato dai socialisti, dai comunisti, radicali, MAPU, socialdemocratici e dal “marxista indipendente” Vuscovic, nei primi mesi di attività, ottiene importanti risultati. In politica estera riconosce Cuba e la Cina; in politica interna oltre a varie opere sociali, sanitarie e altre provvede alla nazionalizzazione totale delle industrie minerarie fino ad allora in mano agli americani, reti di industria e combustione, comunicazione, trasporti, istituti bancari. Anche in agricoltura gli espropri sono considerevoli. Il governo rifiutandosi di indennizzare le industrie estrattive del rame arriva a chiedere un risarcimento di circa 350 miliardi di dollari alle società americane proprietarie fino allora delle miniere. I salari vengono aumentati come pure le spese sociali.
Alle elezioni municipali dell’aprile 1971 Unitad Popular sfiora il 50% dei voti. L’assassinio di un ex ministro democristiano insieme ad una forte crisi economica determinata dall’abbassamento del prezzo del rame e dalla mancata concessione di prestiti da parte del FMI mette in crisi i rapporti con la DC, in cui ha ripreso potere Frei, che chiede ad Allende di ridurre il numero delle industrie da nazionalizzare. In concomitanza con la visita di Fidel Castro protrattasi per oltre un mese, la Dc organizza una forte manifestazione contro il governo. “Il governo di Unitad Popular incontra difficoltà serie, ma non per quello che ha promesso. I nodi che vengono al pettine nascono, paradossalmente, dall’averlo fatto.” (Rossana Rossanda.) Altro fattore di crisi è la richiesta di aumenti salariali da parte degli operai delle miniere a cui Allende non riesce ad aderire.
Di questo stato di cose approfitta la Dc che avendo insieme al Fronte Nazionale la maggioranza al senato ed alla camera mette in seria difficoltà il cammino delle riforme e il governo stesso.
Il 1972 è l’anno della riscossa della DC e delle destre tra cui spicca l’organizzazione parafascista “Patria e Libertà”.
Il candidato alle presidenziali della DC Tomic, viene sostituito dal redivivo Frei.
Le elezioni suppletive, caricate dalla destra di significato politico, portano al successo i candidati democristiani. Lo scontro tutto istituzionale avviene prima sul bilancio: obbiettivo delle destre è bloccare il programma di nazionalizzazione delle industrie. Per questo motivo oltre a chiedere l’incriminazione del ministro Toha per motivi di ordine pubblico, viene chiesta l’incriminazione del ministro dell’economia Vuksovic perchè considerato colpevole di aver voluto accelerare il processo di nazionalizzazione delle industrie private. Comunisti e socialisti a questo punto avrebbero voluto tentare l'apertura del dialogo con una parte della Dc, il Mir invece proponeva misure di trasferimento di poteri al popolo al di fuori del quadro istituzionale. I comunisti cileni avevano sempre avuto e avranno un atteggiamento moderato all’interno della coalizione di Unitad Popular, anche perché la Russia non aveva alcun interesse ad aprire un altro dossier in America Latina dopo l’esperienza di Cuba. La DC dal canto suo organizza una forte opposizione sia all’interno del parlamento che nelle piazze con un’organizzazione capillare. Viene proposto un progetto di riforma istituzionale teso ad attuare una limitazione dei poteri del presidente. Una serie di misure incongrue e di difficile sostentamento in materia economica porta necessariamente alla mancanza di beni, fenomeni di accaparramento, speculazione e mercato nero. La “battaglia per la produzione” del 1971, aveva solo attenuato per un breve periodo l’aggravarsi della crisi. All’interno di Unità Popolare si apre un dibattito: da una parte Vuksovic che propone di accelerare e riqualificare il processo di allargamento del settore statale, di promuovere una forte politica fiscale sugli alti redditi e una manovra sui prezzi; lo stesso ministro contemporaneamente propone di sospendere il pagamento del debito estero e di aprire negoziati con altri paesi per attrarre investimenti esteri. Dall’altra parte i comunisti che continuando ad avere un atteggiamento prudente, proponevano di ridurre il numero delle imprese da nazionalizzare e ponevano forti freni al controllo della produzione da parte degli operai. Vince la linea dei comunisti, ma la cosa non ferma la crisi. Al dibattito sulle prospettive economiche si aggiunge il dibattito politico che porta a delle profonde spaccature all’interno di Unitad Popular: la fedeltà alle istituzioni di Allende e di Unitad Popular si dimostra una camicia di forza per il governo, lasciando alla DC e alle forze di destra la piazza.
Lo scontro si radicalizza anche perchè i comunisti prendono le distanze da Unitad Popular. Alle proposte in materia sociale ed economica del governo,
“El Siglo” quotidiano del partito comunista scrisse all’epoca “parlare di controllo operaio è pura fraseologia, che non ha nulla a che fare con il nostro programma"…. proporre una amministrazione fondata sulle organizzazioni popolari dei consigli di zona, incaricati a risolvere i problemi dei lavoratori è anarchismo puro mentre quel che occorre è un’azione sindacale sociale politica economica coordinata ed efficace di guadagnare la fiducia degli imprenditori“
ed ancora ”un piano realistico che si proponga misure molto chiare di aumento della produzione e della produttività“. Nel giugno ’72 cambia il governo con un programma che corrisponde ad un arretramento rispetto alle scelte politiche iniziali di Unitad Popular. I tentativi di Allende con la proposta di misure economiche e politiche più moderate non ottengono i risultati sperati; la rottura con i comunisti fa il resto. Il 12 ottobre dello stesso anno inizia la serrata dei trasporti, del commercio e di altre categorie professionali. L’attacco ad Unitad Popolare è cominciato. Unitad Popular si radicalizza e il segretario del partito Socialista Carlos Altamirano sostiene che il progetto politico di Unitad Popular deve andare avanti con più rigore; continua la statalizzazione delle fabbriche e vengono attuati aumenti indiscriminati dei salari. Insomma la scelta rispetto alla serrata è quello di spostare sempre più a sinistra le scelte politiche. L’obbiettivo dei socialisti, del Mir e del Mapu è quello di creare un blocco rivoluzionario che contrasti lo scontro ormai aperto con le destre e la DC. Allende e i comunisti non accettano questa soluzione rimanendo fedeli alla scelta di non uscire dalla legalità.
A questo punto Allende gioca la carta dell’accordo con i militari. dopo un incontro con il Generale Carlos Prats, questi accetta, in nome della fedeltà alle istituzioni, di entrare nel governo e Prats accetta la presidenza impegnandosi a stroncare la serrata in 48 ore. L’illegalità viene sconfitta. La sinistra DC che in un primo momento aveva seguito Allende per il riscatto del rame dagli Stati Uniti e per una riforma agraria che ella stessa aveva concepito, di fronte a scelte più radicali di Unitad Popular si dissocia e si allea con la destra con il comune intento di sconfiggere Unitad Popular.
L’isolamento internazionale, la crisi economica, il controllo da parte della Dc dei mezzi di informazione, della polizia, di strati dell’esercito riescono ad avere partita vinta rispetto al tentativo di Unitad Popular di costruire un blocco alternativo operaio e contadino che usciva dagli schemi capitalistici con l’obbiettivo di costruire una società socialista per le vie legali. L’aumento della qualità della vita e le migliori condizioni economiche della classe operaia, insieme al processi di nazionalizzazione delle industrie e tutte le misure economiche e politiche del governo determinarono nel ceto medio la convinzione che “il processo sociale è andato oltre il punto di equilibrio d’un governo riformista“. Il Cile si avviava a diventare socialista. La nazione si divise: da una parte la classe operaia sostenitrice di Unitad Popular, dall’altra la media borghesia, gli industriali i ceti ricchi, i latifondisti sostenuti dal governo degli Stati Uniti e questo portò ad una radicalizzazione dello scontro politico. Nessuno più crede al raggiungimento del socialismo in maniera indolore. La Dc propone per uscire dalla crisi il blocco dei salari, una riattivazione degli incentivi ai capitali nazionali ed esteri unite a misure inflattive. All’interno di Unitad Popular si determina una spaccatura fra socialisti e comunisti sulle misure economiche da adottare. Rispetto alla proposta dei socialisti di istituire per combattere il fenomeno del mercato nero una dotazione fissa mensile di prodotti alimentari di base per ogni nucleo familiare, il PC si rifiuta di aderire. Lo scontro decisivo si verifica sulla proposta dei socialisti di portare fino in fondo il processo di nazionalizzazione delle industrie. I comunisti avrebbero voluto invece bloccare il processo e riattivare con misure incentivanti gli investimenti privati. Il ministro all’economia Millas, a questo proposito propone di bloccare il processo di nazionalizzare l’industria e di restituire ai privati 123 aziende che stavano per essere nazionalizzate.
Gli operai scesi in piazza chiedono l’abolizione del progetto Millas e solo l’impegno di Allende a far naufragare il progetto Millas ferma la protesta operaia.
Contrariamente ad ogni aspettativa nelle elezioni del marzo 1973 i socialisti
ottengono il 43,9 % dei suffragi. Intanto l’inflazione tocca il 238%. Gli operai, i contadini il terziario e gli intellettuali scelgono Allende,il dialogo fra DC e Unitad Popular appoggiato dai comunisti non è più possibile, Frei si riappropria della DC. Una parte dell’esercito che in un primo momento aveva appoggiato Allende prova un tentativo di golpe nel giugno 1973, (ma sono le stesse forze al suo interno, leali ad Allende che lo stroncano). A questo punto Allende forma un governo senza esercito con un programma politico moderato orientato a riaprire il dialogo con la DC. Dopo il tentato golpe del 29 giugno gli operai occupano circa duecento fabbriche e chiedono ad Allende di punire i militari infedeli e di instaurare un’emergenza basata sull’organizzazione popolare armata. Allende rifiuta e ad agosto forma di nuovo il governo con il fedele generale Prats. La DC ormai straripa e il generale Prats deve lasciare il governo il 24 agosto. Lo sciopero dei trasporti continua bloccando praticamente l’economia del paese. La divisione all’interno di Unitad Popular fa il resto. La mattina dell’11 settembre, strana coincidenza di date, i generali Pinochet, Leight, Medina e il comandante dei carabineros Mendoza si costituiscono in giunta militare e gli danno tempo fino a mezzogiorno per dimettersi. Santiago è occupata dall’esercito.
Allende dalla Moneda lancia un appello alla mobilitazione del paese. A mezzogiorno parte l’attacco al palazzo presidenziale, comincia il massacro. Allende fucile alla mano tenta di difendersi, ma inutilmente. Il suo corpo sarà trovato crivellato di colpi nel suo studio, muore combattendo anche se i militari, mentendo, diranno che si era ucciso. La giunta militare inizia il genocidio. La parola d’ordine sarà “estirpare il cancro marxista.” Si è scritto tanto su Allende, sull’esperienza Cilena, su Unitad Popular e sul tentativo di costruire una società socialista all’interno di uno stato a democrazia rappresentativa utilizzando gli strumenti rappresentativi e rispettando la legalità. La domanda è stata, era, e sarà se è possibile arrivare per via pacifica alla costruzione di una società socialista. Unitad Popular sotto la guida del socialista Allende, ha tentato nel lontano 1973, quando noi, allora giovani, uscivamo dall’ubriacatura sessantottina o per un processo di riflessione o per un processo di maturazione politica o semplicemente per diffidenza e paura nei confronti del terrorismo di alcune formazioni dell’ultrasinistra di instaurare una società socialista utilizzando le istituzioni democratiche rappresentative. Se invece di questo tentativo estremo avesse soltanto tentato di riformare le istituzioni democratiche in senso socialdemocratico, migliorando le condizioni sociali ed economiche dei ceti meno abbienti, probabilmente ci sarebbe riuscito. In questo senso Leon Blum negli anni trenta parlava di “leale gestione della società capitalistica.” Cioè l’attuazione nella società capitalistica di una redistribuzione del reddito a favore delle classi subalterne senza intaccare i meccanismi di produzione e di divisione della società.
La storia è l’attualità ci insegnano quanto sia illusorio questo progetto.
Ma era possibile questo in Cile negli anni ’70 o ha avuto ragione Allende? Certo se avesse voluto sopravvivere politicamente avrebbe dovuto chiaramente manifestare questa scelta ed adottare quella linea di prudenza che i comunisti cileni, forse dietro suggerimento della Russia, gli suggerivano, ma questo significava per Allende tradire il mandato ricevuto dagli elettori. Data la condizione politica in cui si trovava il Cile probabilmente non esistevano le condizioni per attuare il progetto di Unitad Popular e la profezia di Engels che la via legale per la creazione di uno stato socialista avrebbe ucciso i reazionari si è rivelata sbagliata. L’estrema destra cilena opponeva al disegno di Allende la parola d’ordine “Giakarta è vicina”. Il premio Nobel messicano Ottavio Paz affermava “A Praga i carri armati russi e a Santiago i generali istruiti e provvisti di armi dal Pentagono, gli uni in nome del marxismo gli altri in quello dell’antimarxismo hanno portato la stessa dimostrazione: “la democrazia e il socialismo sono incompatibili.”
Allende con il suo esperimento ha tentato di abolire dei privilegi di una classe dominante che ha reagito con violenza per salvaguardare quei privilegi che riteneva diritti acquisiti. Nel 1963 Lusi Corvalan segretario del Partito comunista cileno affermava che in caso di vittoria elettorale “Bisognerà affrontare un’altra prova: quella dei tentativi controrivoluzionari di riprendere il potere.”
Ardonis Sepulveda, socialista affermava “Non saremo noi a cercare lo scontro, ma crediamo che sarà impossibile evitarlo..."perché la borghesia e l’imperialismo non rinunceranno mai volontariamente ai loro privilegi di classe”... Forse fu questo uno dei motivi per cui Allende favorì l’ingresso dei militari nel governo. Il colpo di stato del settembre 73, salvo pochi casi isolati, lasciò le classi subalterne inerti. E allora torna la domanda: era possibile il socialismo in Cile? Il socialismo è un’organizzazione sociale che si impone solo se si creano le condizioni storiche economiche e sociali.
Nel Cile del 1970 queste condizioni non esistevano. La popolazione attiva era per lo più impiegata nell’agricoltura dove imperava il latifondo e solo il 20% della popolazione era impiegata nell’industria. Nell’industria oltre la mano d’opera impiegata nelle miniere il resto era impiegato in aziende di piccole dimensioni. Il socialismo veniva così imposto dall’alto e non da movimenti di base. Le nazionalizzazioni imposta da Allende avevano questo scopo, ma lo Stato era in mano alla reazione.
Unitad Popular pur avendo vinto le lezioni non aveva la forza per governare. Pur utilizzando tutte le possibilità che la via legale gli offriva per realizzare le riforme democratiche e sociali del suo programma Allende si è scontrato contro ostacoli oggettivi che hanno reso impossibile il percorso delle riforme e della trasformazione dello stato.
Certo il primo errore è stato quello di nazionalizzare le industrie del rame senza indennizzare la proprietà.
Più astutamente il suo predecessore Eduardo Frei pur avendo dato inizio alla nazionalizzazione delle industrie del rame, si era guardato bene da non indennizzare gli ex proprietari, anche perché questi avevano accettato il programma di nazionalizzazione. La scelta di Allende portò ad una reazione delle società estrattive e con esse dal governo americano. Sicuramente Allende avrebbe potuto avere delle dilazioni nel pagamento delle indennità senza perdere la possibilità di prestiti internazionali. Contemporaneamente e forse come reazione diminuì la produzione e il prezzo del rame sui mercati internazionali subì dei ribassi pilotati. Altro elemento di debolezza di Allende e del suo governo fu il mancato controllo dell’inflazione per effetto dell’aumento dei prezzi e l'aumento della domanda. La riforma agraria voluta da Unitad Popular e le nazionalizzazioni misero in moto una spirale perversa che determinò un accelerazione dell’inflazione. Le classi medie spaventate si sollevarono contro il governo. Ma non furono solo le scelte economiche, pur fondamentali, a determinare la fine dell’esperienza cilena, le riforme volute da Unitad Popular in così breve tempo senza avere una maggioranza in parlamento portarono il governo alla sconfitta. Allende non si arrese, forse, se si fosse arreso dimettendosi, avrebbe conservato al Cile la democrazia necessaria per continuare in altri momenti più propizi la sua esperienza. Così non fu. Il Cile diventò un enorme mattatoio. Se è vero come è vero che il socialismo non si impone con la lotta armata né coi colpi di stato è pur vero che le trasformazioni sociali per la creazione di una società socialista non possono essere frutto delle decisioni di una élite, bensì dalla coscienza sociale dei cittadini. Per ogni riforma , per ogni trasformazione sociale occorre partire dalla realtà e non dai desideri, perché come è stato detto “l’impazienza rivoluzionaria non ha mai permesso alla storia di saltare le fasi normali del suo sviluppo. Essa ha sempre portato alla sconfitta, o perché schiacciata dal nemico, o perché ha partorito un regime che non corrispondeva per niente a ciò che si desiderava.
E’ la situazione reale che fa da forza motrice alla rivoluzione e non la semplice volontà.”(Pierre Rimbert)
mercoledì 11 settembre 2019
... blue girl ...
La chiamavano “Blue girl” perché era una tifosa dell’Esteghlal, la squadra tutta blu di Teheran (quella rossa è il Persepolis), e per andarla a vedere allo stadio Azadi si vestiva da uomo ed evitava i controlli: le donne, nella Repubblica islamica d’Iran, non hanno accesso allo stadio quando ci sono partite di calcio. A marzo, la “Blue girl”, cioè la trentenne Sahar Khodayari, esperta di tecnologia, era stata scoperta, arrestata, mandata in prigione per tre giorni e poi rilasciata in vista di una sentenza della corte prevista in questi giorni. Per paura di essere incarcerata per sei mesi, Sahar si è data fuoco tre giorni fa e ieri è morta in seguito alle complicazioni per le ustioni. Non era ancora stata stabilita la pena e i sostenitori del regime iraniano non fanno che precisare questo fatto, come a dire: è stata avventata lei, poteva aspettare e magari le cose si sistemavano. Ma sui diritti delle donne – sui diritti in generale – in Iran non si sistema mai nulla, anche se abbiamo smesso di parlarne e stiamo soltanto dietro alle minacce sul nucleare e ai posizionamenti dei vari paesi sull’arricchimento dell’uranio, sulle sanzioni, sui modi per continuare a fare affari. La morte della “Blue girl” ha causato nelle ultime ore cordoglio e buoni propositi: c’è chi, come Ando Teymourian, il primo cristiano a diventare capitano della Nazionale dell’Iran, chiede che lo stadio proibito sia dedicato proprio a Sahar e chi chiede alla Fifa di boicottare il calcio iraniano. Come abbiamo già scoperto in altre occasioni in passato, queste iniziative sono temporanee, il tempo dello scandalo e poi via: se la comunità internazionale è la prima a essere diventata cinicamente realista, non si può chiedere al mondo del calcio e dello sport di prenderne il posto. Ma intanto che la luce è accesa sulle immagini delle bende di Sahar e sui suoi selfie felici rubati allo stadio, segniamoci le parole della parlamentare Parvaneh Salahshouri: “Siamo tutti responsabili”.
... partenza ...
... nella giornata di ieri il nuovo governo ha ottenuto la fiducia del Senato ed è entrato nella pienezza delle sue funzioni ... nell'immagine la reazione della cosiddetta destra che voleva essere lei al governo ... il fatto è che di fascismo ne abbiamo avuto già a sufficienza ...
domenica 8 settembre 2019
... stop ...
... è in corso per me oggi una battuta d'arresto: dovevo relazionare a Costanza sugli ultimi avvenimenti ma non c'è alcunché di cui relazionare - la richiesta di informazioni a Tulli della redazione Left è caduta nel vuoto ed io non ho alcuna voglia di ripetergli la richiesta ... gli ultimi avvenimenti mi hanno lasciato dentro un vuoto difficilmente colmabile ...
sabato 7 settembre 2019
... una meteora ...
... una meteora di luce, questa è stata per me Sonia, e lo sarà per sempre, indimenticabile ed adorabile ... ma ora è arrivato il momento di voltare pagina e di occuparsi dei propri problemi!
mercoledì 4 settembre 2019
... raschiare ...
... raschiare il barile, ecco che cosa abbiamo fatto io e rosa stamane in banca: un altro finanziamento per far fronte alle spese straordinarie, in attesa di vendere almeno una nostra proprietà ...
martedì 3 settembre 2019
domenica 1 settembre 2019
Iscriviti a:
Post (Atom)