giovedì 2 giugno 2022

... un mio ricordo ...

“E il cuore quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra / per condurmi, Madre, sino al Signore / come una volta mi darai la mano. / In ginocchio, decisa / sarai una statua davanti all’Eterno, / come già ti vedeva / quando eri ancora in vita. / Alzerai tremante le vecchie braccia, / come quando spirasti dicendo: Mio Dio, eccomi. / E solo quando m’avrà perdonato, / ti verrà il desiderio di guardarmi. / Ricorderai d’avermi atteso tanto / e avrai negli occhi un rapido sospiro.” A cinquantadue anni dalla morte di Giuseppe Ungaretti emoziona e commuove immaginarlo mentre, appena varcato quel “muro d’ombra”, si fa condurre per mano davanti al Signore dall’adorata Madre, che l'aspettava trepidante sulla soglia del Paradiso. Quello che il poeta scrisse nel 1930 in memoria della Mamma da poco deceduta costituisce forse, insieme alla sublime preghiera di San Bernardo alla Vergine tratta dal Paradiso di Dante (“Vergine Madre / figlia del tuo figlio”), il più bell’inno all’amore filiale di tutta la nostra letteratura. Mezzo secolo non è, in termini assoluti, un lasso temporale molto lungo, eppure quel 1970 pare lontanissimo se si pensa che a quei tempi in televisione non era raro imbattersi in programmi di prima serata ai quali partecipavano come commentatori o in veste di ospiti personaggi del calibro di Montale, Quasimodo o Ungaretti, mentre oggi la cultura, se va bene, è relegata a orari impossibili o canali "di nicchia". Di Ungaretti ricordiamo in particolare il successo con cui fu accolta nel 1968 la lettura di alcuni brani del poema omerico prima della messa in onda delle puntate dell’”Odissea” di Franco Rossi, oppure il commento al primo allunaggio del 1969 e persino la sua simpatica presenza accanto ad Iva Zanicchi in un noto “varietà”. Erano insomma tempi in cui “popolari” erano gli uomini di cultura, non “starlette”, “ragazzi-immagine” o cuochi urlanti, anche se l’altissimo valore dell’arte poetica di Ungaretti ne ha preservato intatta l’attualità, tanto che ancora oggi i suoi versi arrivano diritti al cuore dei lettori. Nato l'8 febbraio del 1888, era figlio di una coppia di origini lucchesi trasferitasi in Egitto perché Antonio, il babbo, vi aveva trovato lavoro come sterratore per gli scavi del Canale di Suez, Giuseppe nacque proprio ad Alessandria d’Egitto nel 1888, rimanendo però prestissimo orfano di padre, morto in un tragico incidente sul lavoro. Cresciuto con grandi sacrifici dalla mamma, Maria Lunardini proprietaria d’un panificio, studiò presso la locale “Ecole Suisse Jacot”, dove s’impratichì nella lingua francese che avrebbe poi sempre padroneggiato alla perfezione. Nel 1912 lasciò il Paese africano del quale avrebbe sempre conservato un nitido ricordo (“Fuggì il branco solo delle palme / e la luna / infinita su aride notti”) per sbarcare a Brindisi, ma in Italia ci rimase giusto il tempo per prendere un treno alla volta di Parigi dove, grazie all’interessamento di Prezzolini, entrò in contatto col più bel mondo culturale di quei tempi, conoscendo fra gli altri Proust, Apollinaire, Sorel e Peguy, e frequentando alla Sorbona i corsi di Bergson. Ottenuto il diploma rientrò in Italia all’inizio della Grande Guerra alla quale lui, interventista convinto dopo aver conosciuto il futuro Duce allora direttore de “il Popolo d’Italia”, prese parte come soldato semplice inquadrato nel 19° Reggimento di Fanteria, impegnato sul Carso. Da quella terribile esperienza in trincea a contatto quotidiano con la morte, nacquero le prime rime raccolte ne “Il Porto Sepolto”, dato alle stampe in sole ottanta copie numerate nel 1916 e poi confluito nella raccolta “Allegria di naufragi” (1919), diventata poi “L’Allegria” tout-court. “Soldati”, scritta nel 1918, (“Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”) ne rappresenta senza dubbio la poesia più nota. In questa raccolta dettata dall’incalzare degli eventi bellici e caratterizzata dall’amara constatazione di quanto sia precaria l’esistenza umana, Ungaretti esaltò l’importanza della parola nel suo rapporto col silenzio, della parola cioè vista come umana reazione alla morte (“Dopo tanta / nebbia / a una / a una / si svelano / le stelle. / Respiro / il fresco / che mi lascia / il colore del cielo. / Mi riconosco immagine /passeggera / presa in un giro / immortale”). Sposatosi nel 1920 con la francese Jeanne Dupoix, si stabilì con lei a Marino, dove la coppia ebbe due figli, Anna Maria ed Antonietto. La mirabile semplicità della sua lingua priva d’enfasi e fatta di vocaboli dal significato concreto, di facile comprensione per tutti, ne accompagnarono il cammino di scrittore di successo, coronato dall’uscita presso l’editore Vallardi nel 1933, nei “Quaderni di Novissima”, del suo “Sentimento del tempo”, una raccolta poetica avente come tema centrale la percezione del tempo fra il presente, il passato e l’eterno. Trasferitosi a San Paolo del Brasile nel 1936 per insegnare letteratura italiana presso la locale università, fu qui colto da due gravissimi lutti familiari: la perdita prima del fratello maggiore Costantino nel 1937 (“Se tu mi rivenissi incontro vivo, / con la mano tesa, / ancora potrei, / di nuovo in uno slancio d’oblio, stringere / Fratello, una mano”) e poi del figlio novenne , morto nel 1939 a causa d’una appendicite malcurata (“Fa dolce e forse qui vicino passi dicendo: “questo sole e tanto spazio / ti calmino. Nel puro vento udire / puoi il tempo camminare e la mia voce. / Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l’aurora e intatto giorno”). L’esperienza della morte ancora una volta lo colpì da vicino e tanto duramente che gli ispirò, una volta rientrato a Roma nel 1942 per essere nominato “Accademico d’Italia” ed ottenere la cattedra di letteratura moderna e contemporanea presso l’Università “La Sapienza”, la scrittura de “Il Dolore”, uscito nel 1947 e da lui stesso definito “il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola”. Nei suoi versi si avverte una sofferenza totale, la stessa che avrebbe provato di nuovo nel 1958 alla perdita della moglie dopo una lunga malattia. Negli ultimi anni pubblicò nel 1960 “Il taccuino del vecchio” oltre ad alcune traduzioni da Mallarmé, Shakespeare, Racine e Blake. I suoi ottant’anni furono festeggiati nel 1968 in Campidoglio nel corso d’una memorabile cerimonia, alla presenza dell’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro e con la partecipazione dei poeti Montale e Quasimodo, che morì pochi giorni più tardi. Rientrato da un ultimo e debilitante viaggio negli Stati Uniti, spirò il 1° giugno del 1970 e fu sepolto nel cimitero romano del Verano, forse già intimamente consapevole che la grandezza d’animo dei suoi versi aveva lasciato un segno profondo nella storia culturale del nostro Paese, di cui lui con la sua lirica poetica rappresentò e continua a rappresentare una delle espressioni più alte e sublimi.
... il mio ricordo si riferisce all'esame di maturità, da me sostenuto nel luglio 1970, portando una tesina-ricerca proprio sul poeta Ungaretti, tra i miei preferiti!

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