venerdì 11 dicembre 2020

... dal blog di Costanza ...

È uscito proprio domenica su Il Sole 24 Ore, all’interno della rubrica settimanale “Mind the Economy” un interessante articolo di Vittorio Pelligra che sembra faccia da spin off a quanto scritto su queste pagine la scorsa volta. E diviene dunque necessario andare oltre nella questione perché le riflessioni su questa storia del lavoro come vocazione sembrano non esaurirsi mai. L’articolo sottolinea quanto sia importante non solo trovare la propria vocazione, ma anche “svilupparla, capirla e farla crescere”. E quanto, quindi, la società e le istituzioni debbano mettere gli individui nelle condizioni di poterlo fare. Spiega molto bene quanto questo atteggiamento, nel lungo periodo, divenga proficuo per il benessere individuale, ma anche sociale, e racconta altrettanto bene le insidie dietro questa auspicabile deriva: il “workaholism”, ovvero il rischio di sviluppare una vera e propria dipendenza dal proprio lavoro – con tutto quello che ne consegue – e lo sfruttamento da parte delle aziende di questa condizione – se lavori per passione e non per soldi è giusto che venga sottopagato e accumuli straordinari. Resta quindi una grossa falla nel sistema e per capire come muoversi per andare alla radice del problema, le parole che concludono l’articolo possono certamente rappresentare un buon punto di partenza: “Ecco perché il tema della vocazione lavorativa pone anche una sfida alla teoria ancora troppo ancorata ad una visione dell’agente economico come insaziabile, individualista e totalmente auto-interessato, così come quelle pratiche di progettazione e di gestione delle organizzazioni che a tali visioni inspirano”. Le parole richiamano un’interessante teoria esposta dall’economista Andrea Ventura, secondo il quale il paradigma antropologico che governa la moderna società neoliberista è quello dell’homo aeconomicus, ovvero un individuo egoista e calcolatore, che fa le cose solo per il proprio tornaconto basando la propria esistenza sul mors tua, vita mea (Cfr. “Il flagello del Neoliberismo, alla ricerca di una nuova socialità” di Andrea Ventura). È il paradigma che effettivamente governa il libero mercato e spesso le imprese sono costrette a prendere decisioni assai dolorose, come il taglio degli stipendi o la chiusura di alcuni dipartimenti, per rimanere competitive. Il giornalista de Il Sole 24 Ore parla del tema della “vocazione” come una sfida a questo modello, ma quello che viene da chiedersi è come si faccia a rivendicare la propria vocazione in un sistema come questo. Ma, soprattutto, una cultura basata sulla proposta di un benessere economico come punto di arrivo, è in grado di crescere individui che abbiano una tale consapevolezza di se stessi da capire qual sia la propria vocazione? Spesso i giovani usciti dal percorso di studi non hanno ancora ben chiaro cosa vogliano dalla vita. E il mercato del lavoro in questo momento è così saturo, da costringerli a ringraziare che un lavoro ce l’hanno – quando ce l’hanno – anziché stare lì a chiedersi se effettivamente sia quello che auspicavano per se stessi. Sembrano, insomma, questioni un po’ troppo sofisticate, per come si stanno mettendo le cose. Come già detto, la presa di autoconsapevolezza e la continua rivendicazione della propria identità, che non deve per forza sfociare in un riconoscimento da parte delle società, è un buon punto di partenza. Ma se volessimo ragionare in termini di una società utopica che crei le basi affinché questo riconoscimento avvenga, come auspica Vittorio Pelligra, da dove dovremmo partire? Forse la chiave sta proprio in un cambio di paradigma, che, attraverso una vera e propria rivoluzione culturale, cominci a far propria l’idea dell’uomo innanzitutto come animale sociale, che non porta avanti i rapporti per interesse o per un proprio tornaconto, bensì per una naturale inclinazione alla realizzazione delle proprie esigenze. Nel rapporto interumano c’è (ci dovrebbe essere) la realizzazione delle esigenze, lo sviluppo di ciascuno, la ricerca, la gioia di vivere, la creatività comune. (…) La soddisfazione dei bisogni non ha posto nel rapporto interumano. Essa ha sempre riportato gli uomini allo sfruttamento dell’uno sull’altro, al fare di una parte dell’umanità un gregge di animali per la sopravvivenza di altri. (Per approfondimenti si veda “Bambino, Donna e Trasformazione dell’uomo” di Massimo Fagioli). Attribuire questo nuovo paradigma non solo ai rapporti privati, ma anche ai rapporti sociali potrebbe essere la nuova, interessante sfida a paradigmi che si stanno rivelando sempre più anacronistici e soprattutto poco funzionali allo sviluppo di una società del benessere in senso lato, da accompagnare alla ricerca e alla successiva imposizione del lavoro come risposta a una propria, profonda vocazione.

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