sabato 28 febbraio 2015
... ebbene sì ! ...
... questo mese di febbraio si chiude con un altra giornata da ricordare ... questione di mesi, il tempo di organizzare tutto per bene, e poi io e la mia bella saremo sposi! ... si conclude così un periodo triste, di solitudine e ci sarà una nuova famiglia, mi auguro con tanta felicità e gioia al suo interno ...
venerdì 27 febbraio 2015
... da L e G ...
Coscienza e responsabilità
di Gustavo Zagrebelsky
(tempo esecutivo) Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
(tempo non politico) Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Detto diversamente, è l’attività sociale che riguarda la visione e la progettazione ideale della vita collettiva cui segue l’azione per realizzarla. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità. Le varianti consentite sono nei dettagli marginali, con riguardo cioè ai modi più efficaci per garantire gli assetti e, quando occorre, per determinare chi siano le vittime preferenziali di questa fatalità.
(tempo tecnico) Il tempo esecutivo e non politico è anche tempo della tecnica che soppianta la politica. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.
La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Essa è riparatrice o, eventualmente, amplificatrice dell’esistente, ma non modificatrice o trasformatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Infatti, i governi tecnici (e quelli che, in mancanza di discorsi sui fini, dietro le apparenze si riducono a essere tali) sono quelli che affrontano i problemi del reggimento della società con lo sguardo rivolto ai guasti e alle difficoltà che si determinano nei rapporti sociali, agli inceppamenti nei meccanismi, agli scompensi che minano la stabilità del sistema sociale.
Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
(nichilismo politico) Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice: dittatura del presente, cioè conservazione non per adesione a un valore scelto a preferenza di altri, ma per subalternità al fatto stesso dell’esistere. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un (altra) ideologia.
(banalità) Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico, un linguaggio che fa sembrare tutto semplice, sol che i fautori del fare siano lasciati liberi di agire “avanti tutta”, con il turbo, per cambiare verso, per cogliere la volta buona di “fare la propria parte”. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare, il che è un modo efficace per chiudere l’ingresso nella discussione pubblica della questione dei fini, cioè delle idee propriamente politiche. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
(antidemocrazia) La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione, come il buon flautista conosce le regole della musica; il medico, della medicina; il tessitore, della tessitura; il timoniere, della navigazione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue – segue per conseguenza – l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.
Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie interessate principalmente a insediarsi nel potere senza sapere a quale scopo diverso da potere stesso, in ciò assomigliandosi sempre di più; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico; le alternative politiche diventano illusorie perché i governi operano a sovranità limitata e agiscono, come s’è detto, “col pilota automatico”. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
La capacità di rappresentare la società si riduce, mentre il distacco tra i cittadini e le loro condizioni di vita, da un lato, e le istituzioni dall’altro, aumentano. Il termometro di questa malattia della democrazia è il discredito che colpisce le forze politiche e il crescente astensionismo elettorale. Il difetto di rappresentanza alimenta un sordo rancore di cui si farebbe molto male a sottovalutare il potenziale antidemocratico.
(dittatura del presente) Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè – per usare uno slogan – come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ente viene presentato e imposto come se fosse l’essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Finché si resta nella futilità, chi governa nella dimensione dell’essere può limitarsi all’indifferenza o al dileggio nei confronti dei non allineati; ma, quando si trova di fronte a difficoltà, il dileggio si trasforma in misure repressive a intensità variabile: il dileggio si trasforma in annientamento delle opinioni nel dibattito pubblico, fino – extrema ratio che, come possibilità, si erge sempre minacciosa sullo sfondo – all’uso della forza contro i portatori del dissenso. Tutto questo significa “dittatura del presente”: un significato oggettivo, che prescinde dalla buona o cattiva volontà di chi occupa posti esecutivi. Nella dittatura del presente sono più numerose le passive e inconsapevoli comparse che non gli attivi e consapevoli protagonisti.
(livellamento e sincronizzazione) Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. I tecnici sono sicuri del fatto loro; gli altri, che tecnici non sono, sembra che non sappiano quello che vogliono. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, ecc.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta – come dicevano i costituzionalisti d’un tempo – la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umilî spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro – deputati e senatori – che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
(vincitore e vinti) Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo che, a causa dei poteri che in forza della legalità le sono attribuiti, costituisce un impaccio non tollerabile per “il vincitore”.
Nella democrazia costituzionale – l’opposto della tirannia della maggioranza – non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua. Il Parlamento mezzo-vuoto dovrebbe rappresentare un grave problema democratico per tutti, a incominciare dalla maggioranza. Sotto questo profilo dovrebbero principalmente valutarsi la legge elettorale in gestazione e le procedure decisionali parlamentari che si stanno riscrivendo: aumentano la forza centripeta delle istituzioni o aumentano le tentazioni centrifughe?
(deriva autoritaria?) Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso – non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante – è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del CSM, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
(che cosa significa difendere la Costituzione?) Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
Questa è la “piramide democratica” di cui già si parlava all’epoca dell’Assemblea costituente. Difendere la Costituzione è vigilare affinché la piramide non si rovesci e le decisioni collettive non procedano dall’alto e s’impongano non in base alla partecipazione e alla deliberazione conseguente ma, per esclusione e per autorità, su una società lobotomizzata, rassegnata, passiva. Detto in altri termini, difendere il nucleo della Costituzione è difendere la politica come materia nelle mani dei cittadini e delle loro libere manifestazioni sociali dall’espropriazione da parte delle oligarchie che facilmente e naturalmente si raccolgono attorno agli esecutivi. Onde, per facile deduzione, può dirsi che la difesa della Costituzione equivale alla difesa della democrazia contro le oligarchie. E, poiché le oligarchie odierne albergano soprattutto nell’economia finanziarizzata, difendere la Costituzione significa difendere la politica dalla soverchiante presenza degli interessi economici.
Infine: poiché l’economia al servizio della finanza ha dimensione globale, difendere la Costituzione significa anche difendere l’autonomia politica della collettività nazionale, senza la quale democrazia è parola vuota. In tal modo, il cerchio si chiude: dalla democrazia alla democrazia. Si dice, tuttavia: c’è pur bisogno di governo. Le democrazie muoiono per impotenza, quando non c’è governo. Rispondiamo: è così! Purché si tratti veramente di governo, ma il governo è politica e, finché prevale non la politica ma l’esecutivo, gonfiare l’esecutivo significa sgonfiare la politica. Per questo, occorre rinforzare le radici e non affidarsi alle frasche. Solo le radici rivitalizzate sono la condizione della politica e della democrazia.
(i compiti di libertà e di giustizia) La nostra associazione è nata tredici anni fa con il compito di vigilare sui comportamenti della “classe politica”, per custodirne i requisiti minimi d’integrità e di legalità, in una fase della nostra storia in cui il degrado sembrava, ed era, refrattario a ogni limite. Si trattava di difendere la dignità della politica, un compito che non può certo dirsi diventato inattuale. Questo compito è, dunque, ancora il nostro.
Ma, oggi, quando la politica entra in una zona d’ombra e con essa la democrazia, il compito si allarga e diventa più impegnativo. Si tratta di contribuire a elaborare idee, proposte e rivendicazioni propriamente politiche, cioè di tentare di liberarci dalla cappa che, sulla vita pubblica, stende la dittatura del presente, tramite uno strisciante conformismo che equivale a una loi du silence. Per questo, occorre lavorare con le forze culturali e sociali che, avendo le radici nelle condizioni di vita quotidiane dei più, sanno o cercano di sapere quali sono le domande che chiedono di esprimersi in politiche conseguenti. Questa è la base della Costituzione che deve essere difesa.
Questo è l’onere al quale non possono sfuggire coloro che credono nella democrazia. Questo, viceversa, è ciò che temono coloro che occupano il vertice della piramide e da lì guardano con sospetto ciò che pare sfuggire al proprio controllo. La società civile viene chiamata in causa: non i magnati che frequentano i cosiddetti salotti del potere, dove già s’incontrano senza difficoltà quanti dispongono del potere in tutte le sue forme: economico, culturale, statale. Costoro non hanno affatto bisogno d’incrementare la loro posizione nelle istituzioni. La “nostra” società civile è composta da singoli e associazioni che dedicano energie, tempo, capacità professionali e denari propri in tutti i luoghi della società che avrebbero bisogno di politiche: i luoghi della povertà e della disperazione, della mancanza di lavoro e di possibilità d’impresa, dell’emarginazione e della discriminazione, della malattia, dell’handicap, degli anziani senza sostegno, delle famiglie dove esistono malati di mente e sono lasciate a se stesse, del degrado ambientale.
Questa nostra società civile è ricca di energie e in questa ricchezza sta il serbatoio da cui attingere per la rianimazione della politica a partire dalle dimensioni locali, più sensibili alla concretezza dei problemi sociali, purché si riesca a coordinarle in movimenti capaci di convertire l’azione quotidiana dall’ambito limitato a quello generale, per il modellamento democratico della società. Programma impossibile? Può sembrare così, anche perché oggi le politiche nazionali si scontrano con i vincoli che vengono dalle istituzioni sovranazionali di cui facciamo parte, anch’esse essenzialmente non-politiche. Ancora una volta viene in aiuto la Costituzione. Essa ammette, sì, le limitazioni alla sovranità nazionale, ma solo in condizioni di parità con gli altri Stati e se servono ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Possiamo dire questo dell’Unione Europea, così com’essa si presenta nei suoi odierni sviluppi? Di fronte all’enormità del compito e prima di dare risposte rinunciatarie, si veda se è possibile realizzare un’unità d’intenti da spendere oltre la dimensione particolare delle formazioni sociali in cui ciascuno di noi separatamente opera, per prolungarla politicamente e diffonderne l’influenza.
(conclusione) Chi ha scritto queste considerazioni – che si sono volute esprimere nel modo più chiaro e categorico possibile, perché solo così l’onesta discussione è possibile – e coloro che eventualmente ne condividono il contenuto sono perfettamente consapevoli di generare fastidio. La loro colpa è di essere Cassandre impenitenti, incontentabili pessimisti, conservatori vecchi e pregiudizialmente nemici del nuovo. Coloro che provano questo fastidio appartengono a generi diversi. Vi sono quelli che non credono nella democrazia, preferendo qualche forma di potere forte – a condizione però, sia chiaro – ch’esso sia dalla loro parte. A questi, che credono sia arrivata per loro “la volta buona”, non c’è nulla da dire. Poi, vi sono coloro che dicono d’essere dalla parte della democrazia, ma negano che sia in corso una deriva della democrazia e pensano che non c’è nulla per cui non stare tranquilli. A questi, si può dire ch’essi non vogliono vedere la semplice realtà che a noi appare evidente per se stessa. Vi sono poi coloro che ritengono che, per far uscire il nostro Paese dallo stallo in cui si trova e perfino per salvare la democrazia dal suicidio per impotenza, si debbano accettare rinunce, cioè riforme del tipo di quelle in cantiere. A questi, sommessamente vorremmo dire che la prima condizione per salvare la democrazia è la riforma degli attori politici, non la riforma delle istituzioni o, almeno la riforma degli uni e delle altre insieme. Occuparsi solo delle seconde è sospetto.
Le riforme ambite da quella che si chiama classe politica servono, infatti, agli adeguamenti alle sue esigenze. Non sono riforme, ma accomodamenti perseguiti con impazienza da una classe politica che avverte drammaticamente il proprio declino e cerca contraddittoriamente di sopravvivere insistendo sulle sue cause. Si parla (impropriamente) di “governabilità”, ma si tratta d’altro, di rafforzamento della presa sul potere. Noi vorremmo chiedere se non pensano d’essere proprio loro, in misura rilevante, la causa dei nostri problemi. Se è così, le riforme decisioniste – le “blindature” – aggravano, non risolvono. Noi, sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni. Altro che rami alti: bisogna lavorare per rinforzare le radici.
... vamos Toro! ...
... di solito non mi occupo di sport, ma la vittoria del Torino di ieri (3 a 2) merita di essere celebrata sul mio blog ... FORZA TORO!
giovedì 26 febbraio 2015
mercoledì 25 febbraio 2015
... a proposito di Presidenti ...
... 25 anni fa moriva Sandro Pertini, un Presidente rimasto nel cuore degli italiani, con una inevitabile nostalgia per la sua onestà e la sua schiettezza ... oggi purtroppo il panorama politico è desolante, nemmeno degno di commento ...
...Italia Donati...
il primo di giugno 1886, siamo sulle colline del Montalbano, sopra il Padule di Fucecchio, quando, alle prime luci del giorno, viene notato un cadavere sul fondo di un bottaccio. Si accerterà il suicidio per annegamento di Italia Donati, giovane maestra, insegnante dal settembre 1883 nel vicino paese di Porciano, Comune di Lamporecchio, Circondario di Pistoia, allora Provincia di Firenze.
Un bigliettino, rinvenuto nella tasca di un grembiule rosso abbandonato nelle vicinanze, rivela le ultime volontà della defunta, fra queste la richiesta di una visita medico-legale che, post mortem, ne accerti la verginità, come poi verrà fatto ed acclarato, smentendo così clamorosamente la vox populi che, da ormai tre anni, la bollava come amante del suo datore di lavoro, il Sindaco di Lamporecchio Raffaello Torrigiani, a sua volta accusato, da una lettera anonima, di averla anche indotta ad un aborto.Il tragico fatto, emblematico del disagio delle deamicisiane “maestrine dalla penna rossa” che costituirono il nucleo più consistente degli insegnanti italiani e fra le quali si contarono non pochi suicidi, ebbe ampia risonanza a livello nazionale: approfondite inchieste apparvero sul “Corriere della Sera” a firma del “redattore viaggiante” Carlo Paladini, ed anche Matilde Serao scrisse per il “Corriere di Roma” un lungo articolo dal titolo Come muoiono le maestre. (1)Nel 2003 Elena Gianini Belotti ha riproposto questo caso in un bel libro (2) dal quale si progetta, con l’ausilio delle istituzioni locali, una trasposizione cinematografica che dovrebbe realizzarsi per l’anno prossimo. (3)
E’ il primo gennaio del 1863 che a Cintolese, Comune di Monsummano, allora Provincia di Lucca, viene alla luce Italia: lo stesso nome di uno Stato giovane, nato appena due anni prima. La famiglia di Italia è numerosa, il padre è un povero “granataio”, mestiere tipico di una zona densa di erbe palustri.
Crescendo Italia dimostra volontà ed intelligenza ed il suo insegnante Baronti convince la riluttante famiglia a farla studiare per maestra. Con gran sacrificio, circondata dall’ invidia e dalla diffidenza di fratelli e sorelle e di una comunità astiosa che non vuol gioire della sua opportunità di uscire da una grama condizione subalterna, riuscirà, dopo un fallito tentativo a Lucca, a ottenere l’agognata “patente” a Firenze: con essa ecco arrivare il tanto atteso primo incarico a Porciano.
La ragazza dovrà innanzitutto presentarsi al Sindaco, infatti in quel tempo l’insegnamento era affidato ai Comuni, obbligati in seguito alla legge Coppino del 1877, varata dal governo della Sinistra Storica, ad istituire una scuola in ogni consistente frazione del loro territorio: il consiglio comunale deliberava le assunzioni, ma in pratica le maestre venivano scelte dai sindaci, che potevano rinnovare o disdire gli incarichi e che non sempre erano onesti nel loro agire.
Sovente si tendeva a risparmiare sulle spese scolastiche ed il lavoro di una maestra, specie nei comuni rurali, non era certo facile: malpagata, doveva, con scarsissimi sussidi didattici, insegnare a pluriclassi miste, sovente sovraffollate, in locali d’affitto spesso angusti, bui, non riscaldati e malsani. Le “maestrine” erano poi generalmente malviste dai parroci ai quali era stato tolto l’insegnamento, (con il relativo sussidio) fino ad allora impartito ai soli maschi, in locali parrocchiali, inoltre, e soprattutto, non erano ben accolte dai paesani, che avevano in odio quell’obbligo scolastico che sottraeva i figli al lavoro dei campi e che poi non tolleravano che una donna, sola e lontana da casa, avesse una benché minima autorità.
Il Sindaco di Lamporecchio, Raffaello Torrigiani, ricco possidente con fama di donnaiolo impenitente, rivolge quindi il benvenuto a Italia invitandola a pranzo nella sua Villa di Papiano, dove abita con la moglie Maddalena, sposata solo in chiesa, e l’amante Giulia De Michelis, con le rispettive figlie.
Durante il desinare la ragazza chiede al Sindaco se potrà trovare da affittare un appartamento vicino alla scuola, ma il volitivo Torrigiani, “generosamente”, ma risolutamente, le offre ospitalità nell’ampia sua Villa, facendole notare che essa dista solo un paio di chilometri dalla scuola di Porciano: Italia risparmierà sull’affitto, insegnerà alle due figlie di Giulia, già grandicelle, e così potrà mandare più soldi ai genitori.
A niente servono i pretesti addotti dalla ragazza per declinare l’insidioso invito. Italia, anche velatamente minacciata di un mancato rinnovo dell’incarico, deve quindi accettare: pensa soprattutto ai bisogni della sua famiglia, alla quale chiederà, inascoltata, l’affidamento di una nipote da tenere con sé, per precauzione, a Papiano. La presenza dell’ emancipata maestrina nella Villa del potente Sindaco susciterà da subito, nella gente del contado, invidia e intolleranza, poi notevole ostilità, in un crescendo di ritorsioni e isolamento.
Indicata al pubblico ludibrio come “seconda concubina” del Torrigiani, Italia saprà, ma solo qualche tempo dopo, del non incoraggiante precedente di Vittoria Lastrucci, anch’essa maestra di Porciano e ospite in casa del Sindaco, sottrattasi con la fuga ad insistenti avances e, dopo varie vicende, licenziata.
Inoltre Italia, molto giovane, si dimostrerà anche abbastanza sprovveduta accettando ad esempio, più volte, di far compagnia a Giulia sulla carrozza del Torrigiani che ama ostentare il suo potere sfilando di domenica lungo l’affollato corso principale di Lamporecchio. Quando il Sindaco si vanterà con gli amici di averla baciata, la voce sulla dubbia moralità della maestrina raggiungerà anche Monsummano suscitando perplessità persino nella sua famiglia.
Italia risponde gettandosi con passione e competenza nel lavoro, tanto che l’incarico le verrà per ben due volte confermato, si prodiga per la gente durante l’epidemia di tifo del 1884, ma l’isolamento cresce e le restano poche persone su cui può confidare: il sarto Fanti, il brigadiere dei carabinieri Giannini, ambedue segretamente innamorati di lei, l’anziano locatore dell’edificio scolastico, il medico condotto ed il farmacista di Lamporecchio.
L’infame lettera anonima sul presunto aborto fa precipitare la situazione: Italia, indagata dalla Procura del Re, proclama ai quattro venti, in vari modi, ma inutilmente, la sua innocenza. Infine richiede alle varie autorità una visita medico-legale che ufficialmente ne accerti la verginità: nessuno su questo piano potrà aiutarla.
In tal senso incontra anche l’Ispettore scolastico del Circondario di Pistoia nella persona di Renato Fucini, famoso autore de Le Veglie di Neri, un cui libro di testo per le scuole, Il mondo nuovo, è adottato anche a Porciano. Fucini, pur abitando in quel tempo a Pistoia, ben conosce la zona: la sua avita dimora di campagna è a Dianella, vicino Vinci, a poca distanza da Porciano, ed in Valdinevole è amico di personaggi importanti, innanzitutto Ferdinando Martini, ma anche del Sindaco Raffaello Torrigiani. L’Ispettore, al pari del Consiglio Comunale, le riconferma la fiducia professionale, ma in fondo, come nota la Giannini Belotti, sembra anche lui dubitare della sua condotta morale: infastidito si limita a consigliarle un trasferimento, ma intanto, discretamente, fa svolgere un’inchiesta sulla sua vita privata. (4)
In seguito, mentre il Sindaco si dimette, Italia riesce finalmente ad avere accanto a sé una nipote, poi ad uscire dalla Villa di Papiano, spostandosi in una casa vicina alla scuola, ed infine ad ottenere, per l’anno successivo, il trasferimento alla scuola di Cecina, vicino a Larciano. Ma alcune lettere anonime le attribuiscono ora una nuova relazione, questa volta con il figlio del locatore, mentre altre, giunte da Cecina, già la bollano come “avanzo dei porcianesi”: ossessionata e stremata non vedrà altra via d’uscita che il suicidio!
Il suo illuminante dramma suscita profonda reazione nella tardivamente pentita opinione pubblica locale: Porciano ora piange per il linciaggio morale a cui l’aveva sottoposta e aiuta i Donati a trasferire la salma nel cimitero di Cintolese. Il funerale predisposto dal Comune è imponente: in prima fila gli alunni cui Italia aveva voluto bene. La lapide è donata dal “Corriere della Sera” ed il Ministro della Pubblica Istruzione approva un sussidio per i genitori della defunta. Ma la memoria di Italia Donati, almeno in ambienti femminista e/o scolastico, non è morta, spesso il suo nome ricorre in convegni di studio e da poco più di una decina d’anni le è stata intitolata la scuola primaria di Cintolese.
Una vicenda d’altri tempi, quella d’Italia, in cui la condotta morale di una fanciulla, aveva, in ogni senso rispetto ad oggi, un altro peso…ma non fino in fondo: non sta ad esempio riaffiorando ultimamente, con l’estendersi del precariato, il problema della ricattabilità sul posto di lavoro?
Carlo Onofrio Gori
1) Cfr. Elisa Bonadimani, La figura del maestro elementare nel romanzo di scuola in Italia dal 1860 al 1920. Ricostruzione del profilo sociale e culturale del maestro italiano attraverso la letteratura e le riviste pedagogiche nel sessantennio liberale, Università degli Studi di Bergamo, Dottorato di Ricerca in Scienze Pedagogiche, Dipartimento di Scienze della Persona, 2008-2009.
2) Mi informa di ciò Carlo Vannini, Bibliotecario di Monsummano, e me lo conferma la sig.ra Caterina Pani che si occupa del progetto.
3) Elena Giannini Belotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Rizzoli, 2003. Il libro, come afferma l’A. è stato scritto anche sulla scorta di un documentato articolo del Prof. Enzo Catarsi, Il suicidio della maestra Italia Donati, in “Studi di Storia dell’ Educazione”, 3, 1981, pp. 28-55.
4) Nel racconto la La maestrina, pubblicato postumo nel 1921, Fucini descrive una vicenda, solo per alcuni aspetti, simile a quella della Donati: cfr. Renato Fucini, Tutti gli scritti, Trevisini, 1961, pp. 166-175.
Riproduzione dell’articolo di Carlo Onofrio Gori, Italia Donati, suicidio di una “maestrina”, in “Microstoria”, n. 66 (ott.-dic. 2010)
... problemi tecnici ...
... mia digressione su alcuni miei problemi tecnici:
questo mio pc zoppica alquanto al momento dell'accensione ... mi è stato proposta una revisione generale, inserendo un nuovo sistema operativo: Windows 8 ... ma purtroppo problemi economici e di ricostruzione del files attualmente in memoria allontanano per ora questa possibilità ... in seguito si vedrà ... questo è un momento di transizione, decisamente lungo ...
... Ebla, la città perduta ...
... un documentario visto in questi giorni ha focalizzato la mia attenzione su questa città, il cui periodo di splendore risale a migliaia di anni fa ... distrutta poi da un condottiero di nome Sargon, è stata l'oggetto di ricerca di archeologi italiani negli anni 6o dello scorso secolo ... oggi quel sito, come altri tra Siria e Turchia, sono teatro delle scorrerie dell'Isis e profanati da numerosi ladri di antichità ... il mondo è ormai avvolto dalle tenebre della violenza e della cieca ignoranza umana ...
domenica 22 febbraio 2015
venerdì 20 febbraio 2015
... i nuovi barbari ...
... ancora una volta Roma si è offerta inerme all'assalto di un'orda di barbari calati dal nord ...
non siamo capaci di difendere le nostre bellezze artistiche da un branco di ubriaconi, ma naturalmente anche questa volta nessuno dei politici responsabili si dimetterà! ...
giovedì 19 febbraio 2015
... un omaggio ...
... un omaggio alla mia bella per ringraziarla di tutto ... e uno spettacolo di colori per rinfrancarmi un po' in un momento di tristezza ...
mercoledì 18 febbraio 2015
... Quaresima ...
... inizia oggi il periodo di quaranta giorni in preparazione alla Santa Pasqua ... un'occasione di meditazione e di esplorazione del proprio animo, un prepararsi per i nuovi impegni che verranno.
lunedì 16 febbraio 2015
... addio sig. Michele ...
... il giorno di San Valentino si è spento Michele Ferrero, il re della Nutella, creatore di tanti prodotti dolciari famosi in tutto il mondo, e poi il cognome Ferrero è ormai di famiglia! ...
domenica 15 febbraio 2015
sabato 14 febbraio 2015
... buon San Valentino! ...
...partenza anticipata causa pericolo neve ... stasera candelabro a due fiamme e torta di frutta per festeggiare il nostro amore ...
mercoledì 11 febbraio 2015
... San Valentino ... in anticipo!
... altri tre giorni "chez moi" e quindi ecco un post in anticipo per la festa degli innamorati ... questa volta è vera festa!!
martedì 10 febbraio 2015
lunedì 9 febbraio 2015
... Anonymous ...
... attacco hacker all'Isis da parte del gruppo di pirati informatici noto col nome di Anonymous:
presi di mira i reclutatori, sparsi in tutto il mondo ... mi auguro che la loro rete sia presto smantellata ...
... she ...
... gli impegni quotidiani, aumentati dopo l'inizio della convivenza, con il loro susseguirsi a volte frenetico, fanno a volte passare in secondo piano una realtà indiscussa e indiscutibile: l'enorme, imprevedibile fortuna capitatami, incontrando la mia attuale compagna ... sarà bene che non me lo dimentichi e continui ad omaggiare la mia lei nel migliore dei modi possibile ...
sabato 7 febbraio 2015
... quattro giorni ...
... quattro giorni tra le pareti di casa mia in quel di San Giorio, una rimpatriata segnata da un clima inclemente, neve alternata a pioggia, ma in compagnia del mio Amore grande grande ...
... un mese fa ...
... un mese fa un commando di due uomini assaltava la redazione di Charlie Hebdo facendo strage dei giornalisti riuniti in redazione ... dopo il comprensibile smarrimento dei superstiti, il giornale tornerà in edicola il 25/2 ... la violenza ottusa e bestiale è destinata a fallire sempre i suoi obiettivi ...
domenica 1 febbraio 2015
... omaggio a P.P. Pasolini ...
Alla mia nazione
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Pier Paolo Pasolini
... Febbraio ...
... primo giorno di febbraio: giornata frenetica, con il rischio di non poter scrivere sul mio amato blog ... in questo periodo una cosa l'ho capita: devo imparare a migliorare l'organizzazione del mio tempo: gli impegni sono aumentati, in qualità e quantità, ed ogni attività deve avere i suoi tempi ...
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