domenica 11 agosto 2013

... to be, or not to be ...

« To be, or not to be, that is the question: Whether ’tis nobler in the mind to suffer The slings and arrows of outrageous fortune, Or to take arms against a sea of troubles, And by opposing end them? To die, to sleep… No more, and by a sleep to say we end The heartache and the thousand natural shocks That flesh is heir to: ’tis a consummation Devoutly to be wished. To die, to sleep. To sleep, perchance to dream. Ay, there’s the rub, For in that sleep of death what dreams may come When we have shuffled off this mortal coil Must give us pause. There’s the respect That makes calamity of so long life, For who would bear the whips and scorns of time, Th’oppressor’s wrong, the proud man’s contumely, The pangs of despis’d love, the law’s delay, The insolence of office, and the spurns That patient merit of th’unworthy takes, When he himself might his quietus make With a bare bodkin? Who would fardels bear, To grunt and sweat under a weary life, But that the dread of something after death, The undiscovered country from whose bourn No traveller returns, puzzles the will, And makes us rather bear those ills we have Than fly to others that we know not of? Thus conscience does make cowards of us all, And thus the native hue of resolution Is sicklied o’er with the pale cast of thought, And enterprises of great pitch and moment With this regard their currents turn awry, And lose the name of action. » (IT) « Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci esitare. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione. » (Amleto, atto terzo, scena prima)

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