Giovanni Valentini sul Fatto del 01/07/2023
Il giornalismo investigativo, ovvero d’inchiesta, è un genere che nobilita la nostra professione e ne costituisce l’essenza.
La libera informazione è, per sua natura, controinformazione: non nel senso di essere pregiudizialmente contro il potere; ma nel senso di controllare il potere in funzione dell’interesse pubblico; anzi i poteri, quello politico, economico e giudiziario.
Non a caso, in inglese, si definisce watch dog, “cane da guardia”, contrapposto al lap dog, “cane da grembo”.
Proprio per questo, un’ampia letteratura – anche cinematografica – lo chiama “Quarto potere”, come il titolo del celebre film diretto e interpretato da Orson Welles in cui si racconta la vita e la morte del magnate (immaginario) della stampa Charles Foster Kane.
Un altro capolavoro cinematografico, citato all’inizio di questa rubrica, si chiude con la storica frase di Humprey Bogart riportata nel distico qui sopra: il direttore di un giornale si oppone così alla cessione della sua testata, a conclusione della campagna contro un’organizzazione criminale guidata da un boss mafioso.
Con il proposito di abolire nel nuovo contratto di servizio l’obbligo di “valorizzare e promuovere la propria tradizione giornalistica d’inchiesta”, dunque, il Consiglio di amministrazione della Rai sovranista che si riunirà lunedì prossimo tende a rimuovere un pezzo di storia dell’azienda e a rinnegare la sua funzione istituzionale.
Non si può sfuggire al sospetto che questo orientamento corrisponda alla volontà inconfessata di censurare le trasmissioni radiotelevisive più scomode, a cominciare da Report, il programma ideato da Milena Gabanelli e condotto da Sigfrido Ranucci.
E come tale, infatti, è stato contestato su Twitter dall’ex premier Giuseppe Conte, leader dei Cinquestelle, e dal presidente della Federazione nazionale della Stampa, Vittorio Di Trapani, già segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti.
La circostanza che sia stato proprio Report a rilanciare e amplificare il caso della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, già anticipato nei mesi scorsi dal Fatto Quotidiano, in merito a vicende amministrative e giudiziarie che riguardano la sua precedente attività di imprenditrice, getta un’ombra ancora più sinistra sull’atteggiamento di questo governo nei confronti dell’informazione.
Sappiamo tutti che, dall’infausta riforma introdotta a suo tempo da Matteo Renzi, la Rai dipende direttamente da Palazzo Chigi.
Ma la furia iconoclasta con cui la destra punta a sostituire la “narrazione” della sinistra per imporre la propria egemonia culturale sul servizio pubblico, diventa allarmante quando attacca un caposaldo della libertà di stampa, su cui si fonda ogni democrazia.
Oltre al giornalismo d’inchiesta, la bozza del nuovo contratto che regola i rapporti fra la Rai e il ministero dell’Economia ridimensiona una serie di valori fondanti del servizio pubblico radiotelevisivo. Riguardano l’Unione europea, la coesione sociale, l’accoglienza, l’inclusione.
Fatte le debite proporzioni, è come se la destra volesse modificare da sola la Carta costituzionale.
Tant’è che i due consiglieri dell’attuale opposizione, Francesca Bria (Pd) e Alessandro Di Majo (M5S), insieme al rappresentante dei dipendenti interni Riccardo Laganà, hanno inviato all’amministratore delegato una lettera di sei pagine per sollecitare modifiche e integrazioni.
In un Cda composto da sette membri, sarà decisivo dunque il comportamento della presidente Marinella Soldi, nominata a suo tempo dal governo Draghi.
Staremo a vedere se vorrà associarsi al “golpe bianco” della destra. In questo caso, si renderà complice del regime mediatico.
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